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LA STAMPA DELLA RIVOLUZIONE E DEL REGIME
1. La riforma dei “gerenti”
Mussolini cercò subito di emanare un decreto che rendeva necessario il fatto
che il gerente della testata fosse il direttore o uno dei principali redattori. Molte
testate non compresero la gravità del decreto, ritenendolo accettabile, mentre
altre si imposero ottenendo la sospensione. L'Ufficio Stampa della presidenza
del Consiglio venne rinominato Ufficio Stampa del Capo del Governo, molto
attivo sotto la guida di Cesare Rossi attraverso le veline, cioè disposizioni ai
giornali, e i soliti fondi occulti.
Cesare Rossi verrà poi allontanato a causa del coinvolgimento nel delitto
Matteotti. Seguirono Ferretti, Polverelli e Ciano, che si occuparono di creare –
nel 34 – la Sezione Propaganda per diffondere all'estero l'opera del regime.
2. Ascesa del SNFG e fine della FNSI
Al momento della Marcia su Roma, dal punto di vista sindacale, i giornalisti
erano organizzati in FNSI e Sindacato Nazionale Fascista dei Giornalisti (SNFG).
Il processo di fascistizzazione più violento iniziato dopo il delitto Matteotti
videro l'ascesa di quest'ultima e la soppressione dell'FNSI, crollata nonostante il
potere accumulato negli ultimi decenni.
Dopo il delitto molti giornali presero distacco da Mussolini, che ne approfittò
per ripresentare il decreto relativo ai gerenti, duramente criticato dall'FNSI.
Mussolini reagisce sequestrando tutti i giornali d'opposizione. Il Corriere, La
Stampa e Il Giornale D'Italia organizzano una petizione al re, in un ultimo vano
tentativo in cui la stampa prova ad opporsi al duce.
Il deputato e giornalista fascista Amicucci, figura di spicco dell'SNFG, propone il
disegno di legge relativo all'ordine dei giornalisti, che prevedeva anche
l'istituzione di percorsi di studi preparatori. Da quel momento solo gli iscritti
all'albo potevano esercitare la professione e i finanziamenti ai giornali
divennero pubblici (provvedimento apparentemente liberale ma inutile in un
regime).
Amicucci sperava nel supporto dell'FNSI che non arrivò, e si decise allora ad
eliminarla quando, nel 25, il patto di Palazzo Vidoni abolisce tutti i sindacati non
fascisti. Amicucci diventa segretario dell'SNFG, che diventa anche gestore
dell'albo.
Per quanto riguarda i giornali, preferirono tutti garantirsi la benevolenza del
governo piuttosto che dare battaglia in difesa del valore professionale.
Contrariamente all'opinione generale, i giornalisti esclusi dall'albo alla data del
1928 furono non più del 50%, e solo del 20% se si considerano solo i
professionisti.
3. L'ultima resistenza della stampa liberale
L'opposizione al fascismo rimase appannaggio di poche grandi testate liberali:
Corriere, La Stampa, Il Mondo (Roma), Il Mattino (Napoli) che, godendo di
grande prestigio, spaventarono il regime che non osò fare atto d'imperio.
Tuttavia Mussolini sapeva che esse rappresentavano una macchia per la
reputazione del regime fascista.
Per quanto riguarda il Corriere, Albertini viene lasciato da parte dalla proprietà
di maggioranza che assegna la direzione prima a un corrispondente estero e
poi, nel 26, a Ugo Ojetti, che rese il giornale accondiscendente al regime.
Anche La Stampa seguì il percorso del Corriere: Alfredo Frassati dovette
lasciare il giornale su pressioni interne. La Stampa viene acquistata dalla FIAT
di Giovanni Agnelli e alla direzione viene chiamato Andrea Torre, gradito al
regime.
Il regime aumenta furbescamente il prezzo della carta in modo da diminuire il
volume dei giornali, con l'obiettivo di dare meno spazio a sensazionalismi,
cronaca nera e tutto quello che distogliesse dalla linea ufficiale.
In seguito all'attentato alla vita del duce da parte del giovane Zamboni, le
squadre fasciste reagiscono in modo violento, sopprimendo le ultime testate
antifasciste; poco dopo, nell'Ottobre del 26, il duce fa decadere i parlamentari e
sopprime tutti i giornali non allineati, revocandone la gerenza (alcuni vengono
solo sospesi e poi riportati in vita pochi mesi dopo a patto di cambiare linea).
Eccezione fu il quotidiano socialista Il Lavoro (Genova), che continuò una timida
critica al regime, che lo tollerò forse per mostrare uno pseudo liberalismo
fittizio; la stessa strategia è simboleggiata dalla scelta di non fascistizzare del
tutto gli ex giornali liberali ma di lasciare un'apparenza di indipendenza,
rappresentata dal concetto di “orchestra” che il duce espose ai direttori di 60
quotidiani, che avrebbero avuto modo di rielaborare parzialmente la linea
governativa.
4. L'Agenzia Stefani e il regime
Abbiamo visto come l'Agenzia Stefani avesse affermato il proprio ruolo
egemonico nella penisola. Era un'impresa privata ma con forti ingerenze da
parte dello Stato, che ne nominava addirittura alcuni dirigenti. Con l'avvento
del Fascismo ovviamente l'Agenzia si è messa al servizio del nuovo governo,
che la finanziò copiosamente. I giornali non potevano pubblicare nulla se la
notizia non fosse provenuta ufficialmente dall'Agenzia Stefani. Il meccanismo
era il seguente: il giornalista della Stefani già autocensurava parte delle notizie,
che poi venivano mandati alla sede romana che provvedeva ad ulteriori
rimaneggiamenti e l'eventuale vaglio dell'Ufficio Stampa del capo del Governo;
le informazioni venivano poi mandate con comunicati telegrafici alle poste o
alle sedi dei giornali. Il giornale poi redigeva l'articolo, che poteva poi
comunque essere censurato dal Governo.
5. Il nuovo giornalista fascista
I giornalisti fascisti, moralmente e intellettualmente conformi al regime,
avevano diversi privilegi, tra cui un Istituto di previdenza e un Ufficio di
collocamento indipendenti. Il loro contratto di categoria includeva diversi
vantaggi economici su malattia, disoccupazione, ecc. Nel 30 nacque la Scuola
Fascista di Giornalismo su iniziativa di Amicucci, per creare giornalisti ideali per
il regime, reporter fascisti, e non “pseudo letterati”. La scuola chiuse solo 3
anni dopo, rilasciando diplomi a soli 60 studenti, a causa di mancati
finanziamenti e l'antipatia suscitata nella categoria. Tuttavia fu un esperimento
curioso in quanto soprendentemente il clima didattico era piuttosto aperto e
indipendente dal regime, e contava anche diverse ragazze. Il Fascismo
rinunciava alla creazione di un “giornalista nuovo”. Si torno a preferire i
finanziamenti occulti, la pressione sui gruppi industriali proprietari, ordini e
censure.
6. Conseguenze del “monolitismo”
Nel 1930 fu promulgato il nuovo Codice Penale, che in diversi modi influiva sul
mondo della stampa. Il direttore diventava ancora più chiaramente
responsabile – insieme all'autore – dei contenuti degli articoli. Il Testo Unico di
Pubblica Sicurezza del 31 includeva anche il sequestro in via amministrativa dei
giornali.
Soprendentemente, in questo clima soffocante, la tiratura dei giornali non
diminuì, ma migliorò leggermente, un po' grazie alla riduzione della
concorrenza, un po' grazie ai nuovi contenuti sportivi (molto seguiti) e agli
eventi internazionali di grande interesse (guerra di Spagna, avvento seconda
guerra mondiale).
Il clima di monolitismo e di estrema limitazione nella scelta dei contenuti,
paradossalmente accese la creatività dei giornalisti nel trovare argomenti
d'intrattenimento non sgraditi al regime. Particolarmente abile in questo senso
fu La Gazzetta del Popolo (Torino) che fu uno dei giornali più propagandisti.
7. Giornali del ventennio e “modernizzazione”
La Gazzetta del Popolo fu abile nel proporre un format diverso, lontano da
quello del Times seguito dal Corriere, proponendo uno stile meno classico, più
accattivante e più asimmetrico; molte erano anche le iniziative culturali
organizzate dal quotidiano, che raccolsero molte adesioni, e le rubriche
sportive. La Gazzetta del Popolo si avvicinò per la prima volta al concetto di
rivista. Sottolineiamo qua il paradosso di un giornale diretto da Amicucci, allo
stesso tempo ardentemente fascista ma innovatore, che seguì l'ideale del
diffondere il rigore del regime ma tramite uno strumento efficace e divertente,
in modo che possa avere presa sulla gente.
L'innovazione portata dalla Gazzetta del Popolo richiese un rinnovamento
anche ai concorrenti, che arrivò con maggiore ritardo.
Il Corriere viene affidato al giovane Aldo Borelli su iniziativa di Arnaldo
Mussolini. Il giornale divenne più marcatamente fascista, mantenendo sempre
però un tono particolarmente sobrio. Solo nel 33 vennero incluse più
illustrazioni.
Le innovazioni introdotte da tutti i quotidiani causarono un aumento
significativo delle spese che portarono a un collasso della Sip, proprietaria della
Gazzetta del Popolo, salvata poi dall'intervento statale di Mussolini; nel
consiglio di amministrazione entrano anche Frassati (ex La Stampa) e Giovanni
Agnelli, che formerà poi un patto di non belligeranza tra i due quotidiani
torinesi (patto che si estenderà anche ai milanesi Corriere e Popolo D'Italia).
8. I periodici
I periodici furono quelli che, seppur controllati, seppero sentire meno la
pressione propagandista grazie al vantaggio di trattare tematiche più lontane
dalla politica, più leggere. Negli anni 30 in USA spopolavano già Time e Life. In
Italia Mondadori investì su Omnibus e Tempo, che si fecero conoscere per
un'impostazione brillante e polemica e una notevole ricchezza d'immagini. A
Omnibus collaborarono molte penne prestigiose, sia tra letterati che tra
giornalisti. Non mancarono anche critiche al potere: il Fascismo farà chiudere il
giornale infatti solo dopo 2 anni di successi.
I magazine femminili ebbero un discreto successo: Lei, Gioia, Grazia, in gran
parte dedicati ai pettegolezzi e alla moda.
Vennero censurati anche diverse riviste umoristiche, spesso di tono
anticlericale e socialista, come L'Asino e Il Becco Giallo. Ci fu addirittura un
magazine umoristico fascista, il Marc'Aurelio, che però venne più volte
richiamato a un umorismo più sobrio.
Dagli anni 30 in poi, il ministro della propaganda Alfieri darà precise
disposizioni a tutte le testate satiriche vietando la ridicolizzazione del fascio.
9. L'anomalia della stampa cattolica
Nel 24 esistevano ancora 21 quotidiani Cattolici oltre all'Osservatore Romano.
Nel 30 ne rimasero solo 5. Non fu, a livello di tiratura, un fenomeno
particolarmente rilevante, ma è curioso notare come il cattolicesimo sia
considerabile come l'unica “ideologia” esterna al Fascismo che riuscì a
coesistere con il regime, spesso intrecciandosi e favorendo