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Generalmente i termini consapevolezza e automaticità vengono usati come

contrari. Se un comportamento è automatico vuol dire che viene eseguito in

modo inconsapevole, come ad esempio nel caso dei riflessi. È possibile

immaginare creature che fanno tutto in modo automatico come gli zombies,

ma vi sono zombies filosofici che agiscono come le persone comuni, eppure

sono zombies per definizione in quanto non provano nulla. Essi sono la prova

per le teorie sulla coscienza. Essi sollevano un problema che Dennet chiama

impressione zombica, una sorta di intuizione basata sulla fantasia che simili

creature vivano tra noi. Oltre ad esserci processi cognitivi

che avvengono senza che prestiamo loro attenzione, nel caso in cui

dobbiamo correggere un gesto velocemente che ci porta a raggiungere un

oggetto ( il gesto è automatico e non giunge fino alla soglia della

consapevolezza in quanto veloce ), ci sono molte altre attività mentali che

generalmente immaginiamo consapevoli ma che vengono invece elaborate in

modo inconscio. Questa spiegazione è fornita dall’idea che esista una

dissociazione tra due distinti sistemi visivi: da un lato un sistema specializzato

per l’individuazione degli oggetti ( semantico ), dall’ altro un sistema rivolto al

controllo visivo dell’ azione ( pragmatico ). Il primo sistema ha luogo nel

circuito ventrale, il secondo nel circuito dorsale. Il circuito ventrale è associato

a rappresentazioni coscienti, il circuito dorsale a rappresentazioni che non

danno luogo alla consapevolezza, in questi casi tutto quello che conta è l’

azione, dove stia spostandosi l’ oggetto, non di che genere di oggetto si tratti.

L’ idea di due sistemi distinti nel cervello è provata anche dall’ esistenza di

casi di doppia dissociazione, dove il percorso dorsale viene danneggiato e

quello ventrale resta intatto o viceversa. Questo fenomeno è stato studiato

per diversi anni su Dee, una paziente con danni al sistema visivo ventrale.

Dee non è in grado di apprezzare la differenza tra un coltello e una forchetta

ma sa afferrarli correttamente, benché non sia in grado di vedere che forma

abbiano. Ci sono casi anche inversi, in cui i pazienti hanno difficoltà a

tradurre ciò che vedono in azioni ma si rendono conto di quello che vedono.

La visione cieca e altri ossimori.

La percezione sembra consapevole ma solo per definizione. Ci sono dettagli

della scena percettiva, più o meno appariscenti, che sfuggono all’ attenzione.

Ma anche in questi casi certi elementi possono esercitare il loro effetto sul

comportamento. Il nostro cervello può vedere un colore, un volto o una forma

e tenerne conto nel governare il comportamento in modo inconscio. Ci sono

alcuni fenomeni percettivi che anche senza consapevolezza possono avere

successo e provengono dalla visione cieca. Questi fenomeni vengono detti

ossimori, ossia espressioni in cui si accostano due termini opposti. Negli anni

’70 alcuni studiosi hanno scoperto che certi individui colpiti da una lesione al

cervello che avrebbe dovuto renderli incapaci di vedere in una certa regione

dello spazio, sembravano conservare qualcosa della loro vista. Un soggetto

che riceve un danno alla corteccia visiva di un emisfero cerebrale diventa

cieco alle cose che si trovano nel campo visivo opposto all’ emisfero

compromesso. Durante un esperimento i pazienti accettavano di tirare ad

indovinare su quello che c’era nello spazio in cui non vedevano. Questi

pazienti in realtà forse in parte vedevano, ma non riuscendo a descrivere ciò

che vedevano dicevano di non vedere affatto. Lo psicologo Humphrey scoprì

in una scimmia, con la perdita quasi totale della vista, che la visione cieca

non è un fenomeno che accade solo negli esseri umani. Secondo egli ciò che

manca alla visione cieca è il senso di partecipazione personale fornito dalle

sensazioni. Mentre la percezione richiede soltanto che l’ individuo risponda a

stimoli di un certo tipo, la sensazione è accompagnata dalla consapevolezza.

Sempre con un po’ di ritardo. Lo psicologo Libet, nel suo unico libro “Mind

time” ( il tempo della mente ), illustra la sua scoperta secondo cui la mente,

per diventare cosciente, abbia bisogno di tempo. Per far si che il cervello

produca una sensazione cosciente secondo Libet occorre circa mezzo

secondo, un tempo noto come ritardo di Libet. Questo lasso di tempo

sarebbe necessario per produrre l’ adeguatezza neuronale, indispensabile

perché si generi la sensazione della coscienza. La qualità soggettive dell’

esperienza cosciente ( i qualia ) sono una porzione di mente caratteristica del

cervello. Una volta raggiunta l’ adeguatezza neuronale, le esperienze

soggettive vengono retrodatate a quando lo stimolo è stato realmente

percepito. Se non si raggiunge l’ adeguatezza neuronale allora lo stimolo non

è stato percepito per nulla. Gli studi di Libet mostrano quanto sia sbagliata l’

immagine secondo cui il nostro io è qualcosa che da ordini al nostro cervello

e di conseguenza a tutto il resto del corpo. Egli ha scoperto dunque che la

coscienza non rimane indietro rispetto alla decisione incosciente, ma che il

prendere decisioni consapevoli richiede tempo. Libet non ritiene affatto che le

sue scoperte facciano di noi degli automi nelle mani del nostro cervello, ma

ritiene piuttosto che sia quel mezzo secondo, necessario per produrre la

coscienza, che preserverebbe la possibilità del libero arbitrio.

Esiste davvero. Coscienza e autocoscienza.

La maniera più comune di delineare la distinzione tra coscienza e

autocoscienza consiste nel definire la nozione di coscienza e

successivamente precisare che l’ autocoscienza ne è l’ aspetto introspettivo e

riflessivo. Il linguista americano Jackendoff ritiene che essere coscienti è

qualcosa che è relativo agli oggetti esterni, mentre essere autocoscienti è

qualcosa che è relativo a se stessi. In generale ci sono due possibili modi di

considerare il rapporto che vi è tra coscienza e autocoscienza. Il primo è che

ogni forma di coscienza implichi una corrispondente forma di autocoscienza.

L’altro modo può far pensare che ci siano molti stati mentali consapevoli che

non producono anche la sensazione di autoconsapevolezza. Nella scelta di

queste due possibilità si deve considerare una differenza: mentre la

coscienza può darsi sia in modo transitivo che intransitivo, l’ autocoscienza

può darsi solo in modo intransitivo. Se diciamo che qualcuno è consapevole

in modo intransitivo, vogliamo dire che è sveglio e vigile, al contrario in modo

transitivo vogliamo dire che ci stiamo rendendo conto di quello che sta

capitando. La differenza tra coscienza e autocoscienza emerge anche in

base al ruolo che esse giocano nella memoria. Perché l’ individuo sia

consapevole di qualcosa gli occorre la memoria di lavoro, ossia la memoria a

breve termine, o a volte per essere consapevoli di un oggetto percepito gli

occorre anche quella a lungo termine. Per l’ autocoscienza invece occorrono

gli strati più profondi della memoria, come quella episodica e autobiografica.

L’ uomo che si sentiva funzionare.

A volte capita di rimanere soli con i nostri pensieri e mentre fantastichiamo

questi hanno spesso valenza dialogica. Come ad esempio se vogliamo

andare a trovare un’ amica ci chiediamo cosa vorremmo portarle, come

potrebbe reagire, che umore abbia quel giorno. Tutti questi pensieri formano

la nostra autobiografia. La sensazione dell’ autocoscienza è in grado di

manipolare i nostri stati interni. Finché non avremo una teoria della mente

che spieghi tale fenomeno, avremo una spiegazione eccentrica di cosa è la

vita interiore degli esseri umani. Una teoria eccentrica oggi dominante è la

teoria rappresentazionale – computazionale della mente. Secondo la

psicologia computazionale avere una mente vuol dire che certi pezzi di

materia, per esempio del nostro cervello, sono configurati in modo tale da

essere connessi casualmente con pezzi del mondo e con il nostro stesso

comportamento. La mente è quello che fa il corpo.

Esame di coscienza per calciatori.

Negli ultimi 20 anni sono state formulate tre ipotesi: la teoria

rappresentazionale della coscienza, la teoria del monitoraggio di livello

superiore e la teoria del monitoraggio dello stesso livello. La teoria

rappresentazionale della coscienza ritiene che uno stato mentale è

consapevole solo se rappresenta se stesso. Secondo i sostenitori della

seconda prospettiva invece per essere consapevoli sono necessarie due

distinte rappresentazioni: la prima rappresenta il contenuto, la seconda lo

stato mentale che genererebbe la sensazione della consapevolezza. La

teoria del monitoraggio dello stesso livello viene sostenuta da coloro che

credono che ci sia una rappresentazione che sia in grado di riferirsi a quelle

di base in modo da generare la sensazione di consapevolezza. In generale ci

sono tre tipi di rappresentazioni mentali: quelle di cui siamo incoscienti, quelle

di cui siamo coscienti e quelle di cui siamo autocoscienti.

Seconda parte. Come funziona.

Le due componenti dell’ autocoscienza.

Si dice che un individuo è incosciente sia per indicare che è privo di sensi sia

per alludere al fatto che ha un carattere molto animato. La ragione è che la

consapevolezza è la principale condizione di possibilità della responsabilità

che nutriamo verso il significato delle azioni. In assenza di consapevolezza

non sarebbe presente neanche la responsabilità, né quella giuridica né quella

morale. Nel concetto di autocoscienza possiamo distinguere due nozioni. Da

una parte unire tutte quelle capacità che hanno a che fare con l’

identificazione di se stessi, dall’ altra tutte le manifestazioni di una complessa

vita interiore. Possiamo identificare il primo gruppo di fenomeni sotto l’

espressione “Riconoscimento di sé” e il secondo gruppo con l’ espressione

“Ragionamento riflessivo”. Il riconoscimento di sé è la forma più semplice di

autocoscienza. Essa richiede che il soggetto sia capace di riferirsi a se stesso

tramite una rappresentazione riflessiva, ovvero uno schema del proprio corpo

(voce, odore, parti del corpo). Il ragionamento riflessivo invece è una forma

più complessa di autocoscienza. Consiste nel fare inferenze fra concetti che

si riferiscono al ruolo che essi hanno all’ interno della rete riflessiva in cui si

trovano. Questa idea è stata enfatizzata dal filosofo Braudom, il quale

sostiene che per comprendere cosa vuol dire avere un certo contenuto

mentale dovremmo dare meno importanza alla classica

Dettagli
Publisher
A.A. 2014-2015
6 pagine
SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-PSI/01 Psicologia generale

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher venera19 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Processi cognitivi della comunicazione e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Messina o del prof Perconti Pietro.