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Goldaghen, in polemica con Browning, nega che l’omicidio di massa abbia provocato problemi o
depressioni: i soldati aderivano agli ordini volontariamente. Ciò si spiegherebbe con un orientamento
uniforme di tutti i tedeschi, la cui cultura era piena di antisemitismo (sottolineando di fatto le colpe di tutti i
tedeschi, per la cultura). Comunque, le tesi di Goldaghen sono state criticate perché i documenti
sembrerebbero mostrare una realtà più articolata, perché l’aspetto culturale non esaurisce le motivazioni
del genocidio, perché non si può trascurare il contesto di guerra. Secondo Browning guerra e razzismo
sono onnipresenti.
Per Todorov il secolo di Auschwitz è stato un secolo di uomini e di donne normali, i cui comportamenti sono
stati estremamente differenziati. Afferma che i carnefici, non sono né bestie né mostri, ma persone
“normali”. In più, interessante è la ricerca sui gesti di solidarietà compiuti all’interno dell’orrore.
Rorty spiega che i gesti di solidarietà ci sono stati dove era forte il legame di identità collettiva e di comunità
locale, dove si pensava che “l’ebreo è uno di noi”, “è un uomo come me”. Questi gesti dimostrano che
anche davanti all’estremo, nel Novecento, non è mai venuto meno del tutto un minimo spazio di libertà:
questa libertà rende possibile il giudizio morale. La prospettiva morale nega la logica uniformante del
totalitarismo e il potere omologante della violenza. La discussione sull’orrore “particolare” e “unico” di
Auschwitz si è trasformata in una meditazione morale sulla violenza del Novecento, assumendo una forma
universale. Nel Novecento si tende progressivamente ad alimentare l’esigenza di chiarezza e di punizione
dei colpevoli. Cresce la tendenza ad affidare a giudici e tribunali l’ultima parola su vicende cruciali del
mondo contemporaneo. Questo si deve anche alle carenze degli storici. In più, gli storici non perdono di
vista il senso storico in cui si collocano figure o eventi specifici, mentre la giustizia investiga i casi particolari
e indaga le responsabilità dei singoli, anche quando agiscono in gruppo, alla luce di una norma giuridica.
L’istanza morale non ha come obiettivo primario la comprensione storica degli eventi, ma vuole suscitare
una domanda di giustizia, di punizione dei colpevoli. Impone la conservazione della memoria, affinché non
si compiano di nuovo certi eventi. Per evitare di destabilizzare le comunità “colpevoli” in alcuni casi si è
preferito non perseguire e punire i torturatori: il “passato che non passa” può infatti essere un ostacolo.
Molte vittime, per aiutare la transizione alla democrazia, hanno preferito non perseguire i loro torturatori.
Anche nel mondo ebraico in molti riconoscono pubblicamente la necessità e anche il valore dell’oblio. La
storia, insomma, può aiutare sia a ricordare il passato sia a liberarsi del passato, entrambi atteggiamenti
necessari e comprensibili davanti al “secolo dell’orrore”. Giustizie e memoria, comunque, non esauriscono i
compiti e le possibilità della storia.
Come si può continuare a credere nel progresso dopo Auschwitz? Nel Novecento, però, l’affermazione dei
diritti umani e civili si è notevolmente estesa. Proprio la Shoah ha contribuito alla diffusione e alla
condivisione di valori fondamentali e di diritti irrinunciabili.
6 - Un secolo breve e senza progresso
6.1 - Guerra fredda e critica dell’antifascismo
•• Il secolo di Auschwitz non è l’unico esempio di universalizzazione (a-storica) del relativo (storico) emersa
in sede di interpretazioni del Novecento. Aspetti analoghi presentano anche l’ottica del secolo breve, che
mette il comunismo al centro del Novecento, interpretandolo come male assoluto del secolo. Questa
interpretazione è imperniata sulla negazione del valore periodizzante della Seconda guerra mondiale e
caratterizzata da una tendenziale rimozione della Shoah e al quale hanno aderito Hobsbawm, Nolte e
Furet, delineando una fisionomia del Novecento prevalentemente in negativo: tutti e tre hanno preso le
distanze dalle teorie del totalitarismo, privilegiando invece l’opposizione comunismo-anticomunismo e
hanno sottolineato l’assenza di un autentico progresso nel Novecento: questo avviene secondo Nolte
perché si è svelata l’inconsistenza della fiducia nella modernità, secondo Hobsbawm per il tramonto della
speranza comunista, secondo Furet perché l’illusione comunista ha largamente occupato il secolo. Questo
secolo appare isolato dal grande fiume della storia (se non ha progresso, è un non-secolo); nella
formulazione di “secolo breve” particolare rilievo ha avuto il revisionismo, tendenza culturale e politica
legata alla stagione della Guerra Fredda, che ha avuto larghi consensi dopo la fine dell’Urss. La tendenza
revisionista cerca di interpretare l’intero Novecento in un’ottica specificatamente europea, diffidente verso
l’egemonia americana e critica verso una modernizzazione troppo internazionalista rappresentata dal
comunismo. Le vicende principali del Novecento riguardano le forze che sostengono il comunismo e quelle
che lo contrastano. Le prime manifestazioni del revisionismo si radicano negli anni Quaranta/Cinquanta
nell’Europa piena di rovine e avviata verso il declino della propria egemonia nel mondo, in polemica con
l’antifascismo, quando si sviluppa una tendenza anti-progressista ma non reazionaria, che venne rafforzata
dalla distensione tra i due blocchi, suscitando le critiche di chi guarda con preoccupazione il dialogo
americano con Mosca, poiché si teme che gli Stati Uniti possano lasciare sola l’Europa davanti alla
“minaccia comunista” (la conversione pragmatica di Krusciov e il tentativo sovietico di sviluppare
l’economia non implicano una diminuita paura per lo “spettro del comunismo”), quindi appare urgente
frenare le tendenze progressiste nel mondo occidentale, ovviamente favorevoli al comunismo. Nolte
afferma (ispirato dalle idee di Heidegger) che il pensiero marxista si fonda su una interpretazione
universale della storia il cui fine ultimo è la società comunista a livello mondiale (attraverso la rivoluzione) e
che l’Unione Sovietica si ispira a questa. Lenin si è quindi staccato solo apparentemente dal marxismo
ortodosso; il suo impegno nella lotta contro l’arretratezza economica è legato al progetto della rivoluzione
mondiale. La scelta di Lenin è proseguita da Stalin, che trasforma l’economia in “affare di stato”, per
raggiungere la potenza necessaria per scatenare l’offensiva anti-imperialista non appena le circostanze lo
permettano. Durante la Seconda guerra mondiale, infatti, Stalin sfrutta la debolezza del fronte capitalistico
per conquistare mezza Europa. Nolte rifiuta ogni tentativo di paragone tra fascismo e comunismo.
Per Del Noce e De Felice, Nolte è in errore quando parla del fascismo come dell’espressione italiana di un
fenomeno internazionale che è contro-rivoluzionario e anti-moderno; questi credono che il fascismo, a
differenza del nazismo, sia un fenomeno autenticamente rivoluzionario. De Felice in particolare studia la
figura di Mussolini e scrive una sua biografia che la dedica proprio a “Mussolini. Il rivoluzionario”.
6.2 - Revisionismo e “Historikerstreit” (= dibattito tra gli storici)
•• Il revisionismo, corrente storiografica affermatasi negli anni Settanta, è figlio della globalizzazione, che fa
emergere un diverso atteggiamento verso il passato. In Germania, grazie al cinema e alla tv comincia a
svilupparsi una “terza fase” della memoria del nazismo e della Shoah. Con i primi film sulla Shoah, le
persone cominciano a parlare dei propri ricordi. La memorizzazione diventa un modo per esorcizzare il
passato. La rappresentazione televisiva del passato libera l’individuo.
La parola “revisionismo” indica vari significati, avendo una lunga storia: ha avuto una certa fortuna nel
contesto religioso protestante dell’Ottocento; in ambito comunista per denunciare deviazioni dai princìpi
marxisti; nelle relazioni internazionali, si indicano come “revisionisti” chi dopo la Prima guerra mondiale
proponeva una revisione dei trattati di pace.
Negli ultimi decenni nel Novecento, invece, il revisionismo è entrato in rapporto alla Shoah e al tentativo di
ridimensionare la portata dello sterminio nazista (con affinità rispetto al negazionismo). Sempre nello
stesso periodo con “revisionismo” si indicano anche altre tendenze storiografiche: i revisionisti allora non
coincidono con coloro he cercano di ridimensionare la persecuzione nazista verso gli ebrei. Negli anni
Novanta in Italia i media hanno parlato molto di revisionismo, mentre pochi storici si riconoscono in questa
categoria.
Tra il 1980 ed il 1990, il revisionismo ha contribuito a un’attenta ricostruzione del fascismo (come nel caso
di De Felice). Il limite del revisionismo però è la poca attenzione a ciò che non riguarda fascismo e
comunismo. Il nuovo revisionismo si inserisce in una sorta di reazione alla globalizzazione e si collega a
tendenze tipiche del mondo globalizzato, come lo sviluppo di istanze localistiche, l’emergere di tensioni
etniche, il risorgere dei sentimenti nazionali.
Una delle espressioni più note del nuovo revisionismo è rappresentata dal “dibattito tra gli
storici” (Historikerstreit) svolto in Germania negli anni Ottanta dopo che lo storico Sturmer aveva esortato i
tedeschi di ritrovare al più presto un forte senso di unità nazionale.
Le sfide poste dalla globalizzazione vengono affrontate in chiave politica, puntando soprattutto su un
maggior ruolo della Germania. Negli ultimi anni è soprattutto l’Urss a voler mantenere il suolo tedesco
diviso, per ostacolare la ricrescita, e allora molti tedeschi accusano la logica della guerra fredda, che
subordina i diritti della Germania agli interessi sovietici. Si vuole superare l’eredità del nazismo, della
guerra e della divisione in due del paese elaborando una storia nazionale basata sulla rimozione del senso
di colpa collettivo che deriva dalla Shoah e si vuole usare la storia in funzione di nuova “educazione civile”
dei tedeschi. Nolte (inizialmente anti-comunista) interpreta il nazismo come reazione alla minaccia
sovietica. Nolte fa derivare il nazismo dal bolscevismo, come reazione alla rivoluzione russa. Esiste quindi
secondo Nolte un legame tra Hitler e Stalin. Habermas sostiene, in polemica con Nolte, che il declino della
nazione nella globalizzazione sia positivo, in quanto per i giovani i simboli nazionali sono diventati sterili,
che le discontinuità