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GIACOMO LEOPARDI
Giacomo Leopardi nasce il 29 giugno 1798 a Recanati, cittadina dello Stato pontificio, dal
conte Monaldo e da Adelaide Antici. L’anno seguente nasce il fratello Carlo e nel 1800 la sorella
Paolina. I ragazzi Leopardi sono avviati agli studi sotto la guida del gesuita don Sanchini e del
pedagogo don Diotallevi. Ben presto Giacomo do prova di eccezionali capacità di apprendimento
e d’intelligenza. Prima dei quindici anni domina già una sterminata cultura, soprattutto in lingua
greca e latina in ambito filologico. Ha appena diciassette anni quando crolla il dominio napoleonico
in Italia. Di questo periodo sono testimonianze una Storia dell’astronomia e il Saggio sopra gli
errori popolari degli antichi: centoni di luoghi e citazioni della cultura classica antica. Dopo la
filologia, scopre la poesia. Contestualmente la natia Recanati gli appare sempre più chiusa,
povera, ristretta. E comincia una sofferenza, che non avrà mai esito. Nel febbraio 1817 scrive a
Pietro Giordani alla ricerca di un rapporto meno ottuso di quello che poteva avere con i suoi
concittadini. Pietro Giordani gli risponde e Giacomo lo ringrazia con furia affettuosa e irrefrenabile.
Le prime espressioni autentiche di spirito poetico da parte del giovanissimo Giacomo sono
contenute in queste lettere iniziali a Giordani, in cui emergono l’odio per Recanati e le confessioni
più aperte e impietose sulle proprie condizioni di salute. Colpiscono l’acutezza e la profondità con
cui il giovane obietta su questioni fondamentali, al maturo e colto maestro. Nel 1817 Leopardi
comincia la composizione di quello scartafaccio di appunti che prenderà poi il nome di Zibaldone.
Agli inizi del 1818 scrive il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica. Nel settembre
riceve a Recanati la visita, graditissima, di Giordani. In quell’occasione Giacomo ventenne esce
per la prima volta da solo nelle strade di Recanati. Nel settembre compone le canzoni All’Italia e
Sopra il monumento di Dante. Nel luglio 1819 tenta di fuggire da Recanati: cosa non semplice in
quei tempi. Il tentativo viene scoperto e Giacomo è costretto a restare a Recanati nella sua
famiglia. Il conte Monaldo era un tipico rappresentante della nobiltà pontificia di provincia, colto e
attaccato al culto dei libri. Manifestò tuttavia sempre per i figli un affettuoso interessamento. La
madre Adelaide Antici, invece, credente fino a un estremo bigottismo, tutta presa dalle cura della
casa e di un dissestato patrimonio, ebbe con le sue creature e con suo marito un rapporto freddo
fino all’insensibilità. Dopo Carlo e Paolina nacquero, secondo le consuetudini del tempo, ben altri
nove figli, di cui ne sopravvissero solo tre. La distanza dell’età fece però sì che Giacomo crescesse
con i quasi coetanei Carlo e Paolina, con i quali intrattenne per tutta la vita uno strettissimo e
affettuosissimo rapporto. Dal momento che Giacomo era primogenito, Carlo e Paolina furono
sacrificati sull’altare della continuità familiare. Paolina, soprattutto, in modo tanto più doloroso, in
quanto dovette vivere cinquant’anni in casa sua da zitella. La corrispondenza con i due fratelli durò
tutta la vita, e anche quella con il padre Monaldo. Nell’ottobre 1822 Giacomo lascia per la prima
volta Recanati e si reca a Roma, ospite degli zii materni nel palazzo Antici-Mattei. Al giovane di
Roma non piace quasi nulla. Non gli piace la dimensione fisica e spaziale (“spazi gettati fra gli
uomini, invece d’essere spazi che contengano uomini”), né gli piace il modo di vivere nella grande
città. Della vita culturale romana meglio non parlare: “della letteratura non so che mi vi dire. Orrori
e poi orrori”. Visita infine il sepolcro di Tasso sul Gianicolo: “Questo è il primo e l’unico piacere che
ho provato in Roma”. Comincia ora un lungo periodo in cui Leopardi esce da Recanati e vi rientra,
ogni volta sperimentando la durezza del ritorno. Da Recanati il padre gli faceva provenire
provvigioni scarsissime, non solo per le ristrettezze familiari, ma anche nel tentativo di forzarlo al
ritorno in patria. Nel luglio 1825 si trasferisce a Milano, invitato dall’editore Stella. Milano, la
capitale del Romanticismo e del liberalismo italiano, metropoli europea, gli appare una città
“veramente insociale”. Rientra a Bologna, dove s’era trovato meglio. Quindi nel novembre del 1826
torna a Recanati. Nel 1827 si reca di nuovo a Bologna, quindi a Firenze. Si lega ai componenti del
gruppo dell’ “Antologia”. A novembre si trasferisce a Pisa, che gli piace parecchio di più. Nell’aprile
del 1828 la vena poetica torna a manifestarsi, e Giacomo scrive Il risorgimento e A Silvia. Nel
novembre torna a Recanati, dove Giacomo si sente intrappolato e implora Viesseux di farlo
tornare a Firenze. Gli risponde a nome degli amici Pietro Colletta, comunicandogli che essi si
sono quotati per dargli una pensione mensile, modesta ma certa. A Firenze inizia il suo sodalizio
con Antonio Ranieri, un giovane esule napoletano. Da quel momento i due diventano inseparabili.
Vagabondano tra Firenze e Roma. Nel settembre del 1833 si trasferiscono nella città natale di
Ranieri. Le condizioni di salute di Giacomo sono pessime. Ranieri, sua sorella e Giacomo si
trasferiscono nella Villa Ferrigni alle falde del Vesuvio. Lì, probabilmente, Giacomo compone gli
ultimi due Canti: Il tramonto della luna e La ginestra. Rientrati i due amici a Napoli, Giacomo vede
aggravarsi le proprie condizioni di salute. Scrive l’ultima lettera al padre Monaldo nella quale si
augura che i suoi “patimenti” lo conducano presto “all’eterno riposo”. Giacomo muore il 14 giugno
1837, a soli trentanove anni: poeta giovane, arriva appena a toccare le soglie della maturità.
Recanati è innanzitutto una cittadina di provincia, chiusa al traffico delle idee rinnovatrici, che vi
giungono difatti un po’ di riflesso e come deformate. In secondo luogo, è città della provincia
pontificia, dove i difetti propri di qualsiasi città di provincia vengono centuplicati da uno stato di
cose fondato palesemente sullo stravolgimento dei più elementari diritti alla libertà e alla
conoscenza. Molto importante è soprattutto il processo di formazione che Leopardi svolge nella
sua casa di Recanati, negli anni che vanno dall’infanzia alla giovinezza. All’inizio il giovinetto
Giacomo assorbe tutti gli elementi di un classicismo erudito e fortemente conservatore:
espertissimo nelle lingue e culture antiche, dal punto di vista del gusto poetico egli si riallaccia a
una tradizione prettamente arcadica e a interessi di caratteri filologico. Lasciata Recanati, gli
ambienti intellettuali frequentati da Leopardi sono essenzialmente moderati e cattolico-liberali. I
rapporti del poeta con tali circoli sono difficilissimi. Leopardi, infatti, è totalmente indifferente al
contenuto ingenuamente progressista del liberalismo italiano contemporaneo. Il cattolicesimo
rappresenta agli occhi dello scrittore un vero e proprio mortificante passo indietro rispetto ai lumi
che il Settecento aveva saputo far brillare intorno alla vera condizione dell’uomo. La biografia
leopardiana è tutta interiore, è la “storia di un’anima”. Una parte della critica, quella più equilibrata,
tende a mettere in luce come non sia possibile staccare la poesia leopardiana dall’autenticità di
malessere e sofferenza, che il dolore fisico e la disillusione sentimentale rappresentano; ma
evidenzia come costituisca un tratto tipico della personalità di questo poeta la sua tensione
costante a estrarre dalla propria sofferenza personale un significato di ordine generale, un
riflessione filosofica valida universalmente. Leopardi non s’arresta mai alla semplice percezione
del dolore, ma fa di questo uno stimolo alla conoscenza, uno strumento per approfondire in
maniera più radicale l’interpretazione del vero e la sua disillusa rappresentazione. Leopardi è
abissalmente lontano dai classicisti come dai romantici. Spunti e pensieri di poetica sono sparsi
nelle Lettere, nello Zibaldone, nei Pensieri e sul Discorso di un italiano intorno alla poesia
romantica. Tra gli anni adolescenziali e quelli della prima giovinezza, in Leopardi prevale
un’educazione prettamente erudita e filologica. Il classicismo è per lui un dato acquisito, da cui gli
è difficile prescindere. Quando egli si stacca da quella prima esperienza, non ripudia in toto quella
formazione ma va alla ricerca di un’espressione maggiore e più intensa di classicità. Si spinge in
direzione di una soluzione moderna del problema dell’imitazione e della natura. Leopardi introduce
nella sua “italianità” numerosi elementi di novità. I romantici sono, secondo Leopardi, colpevoli di
sviare quanto più possibile la poesia dalla rappresentazione di oggetti concreti e visibili, per
trasmutarla in metafisica. Per dare questo fondamento sensibile alla poesia, occorre che essa imiti
la natura. Poiché la natura è immutabile, è necessario che, non la natura a noi, ma noi ci adattiamo
alla natura. Se il compito della poesia è l’imitazione della natura, il suo “fine” è il diletto; ma non si
può dilettare senza illudere (Leopardi non ha dubbi che la poesia debba illudere). L’imitazione degli
antichi non è pura ripresa di modelli formali ma ricostruzione di uno stato d’animo e di un rapporto
con la natura, e la condizione primitiva degli antichi è molto simile all’ingenuità dei fanciulli.
Nell’imitazione la natura e i sentimenti acquistano forza. La poesia romantica è monocorde: riduce
tutto al sentimentale, anzi al patetico. Non è affatto vero che la poesia antica non sia sentimentale;
Leopardi distingue tra il sentimentale “patetico” dei romantici e il sentimentale “puro degli antichi”.
L’operazione leopardiana appare nel suo complesso come il tentativo di recuperare all’interno della
tradizione un concetto di poesia come espressione della totalità del rapporto uomo-natura. La
collocazione forse più adeguata per lui sarebbe molto probabilmente fra i grandi classicisti europei,
da Schiller a Holderlin. Questi vivono infatti il dramma dell’inadeguatezza della loro cultura. Ed è
precisamente dalla raggiunta consapevolezza dell’estinzione dolorosa di un intero mondo che
nasce la più grande poesia leopardiana. Leopardi compilò una Crestomazia italiana in due volumi,
una per la prosa, l’altro per la poesia, e li pubblicò, nel 1827 e 1828, a Milano per l’editore Stella.
La Crestomazia della prosa è divisa tematicamente. La Crestomazia della poesia si sviluppa
invece cronologicamente. La prosa è fortemente incardinata sul modello