Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
vuoi
o PayPal
tutte le volte che vuoi
AUTORI A CONFRONTO
Mettiamo ora in relazione questi due scrittori particolarmente significativi con le loro opere per il periodo in cui hanno scritto. I punti in comune sono:
- Entrambi esprimono la "coscienza della crisi" in forma comica. In generale l'ironia e il comico rappresentano i mezzi con i quali molti autori rispondono alla crisi di inizio secolo, come già aveva fatto Ariosto e come faranno Calvino e Gadda.
- Entrambi presentano personaggi mediocri (al contrario degli eroi titanici di prima, come quelli di D'Annunzio) che da un certo punto di vista risultano grotteschi, umoristici: non ci sono più eroi, tragedie e drammi coinvolgenti, ma solo la riscoperta della vita umana piena di sofferenze delle quali si piange o si ride.
I personaggi sono degli inetti e all'inettitudine consegue l'indifferenza. L'inettitudine si lega nelle opere dei due autori in modo differente: in Pirandello, l'inettitudine si...
rispecchia nel protagonista che rinuncia alla propria vita mette in discussione la propria identità, in Svevo è in rapporto con la dialettica tra salute e malattia, l'inetto è un malato incapace di sostenere la sua malattia, incapace di sostenere la lotta per la vita a cui si aggrappa alla ricerca anche di nuove esperienze e nuove vite ed esistenze. 4) I protagonisti del romanzo postunitario e primo novecentesco non godono poi di buona salute: nevrosi, tifo, malaria, colera, ecc (rappresentano una metafora della vita) e, ovviamente, la follia, un tema nel quale dobbiamo entrare nel merito che rappresenta un prerequisito nobile che arriva a normalizzarsi in quanto diventa un evento con cui si convive e che quindi normalizzandosi nella società arriva a passare inosservato. 5) La difficoltà di raccordo tra l'io e il mondo porta, in molti romanzi, al suicidio. Questo può essere o un gesto di auto-castigazione, come nell'Eros di Verga, diautocelebrazione come eccesso di vitalizio come in Per Marina di Malombra, oppure un gesto spinto dalla solitudine estrema che il personaggio sente dentro di sé come in Senilità di Svevo, oppure il suicidio per amore come nel caso di Narcisa in Una Peccatrice di Verga.DEBORAH MEDICI 103
IL DOPOGUERRA
Non è irrilevante rammentare che nel corso di poco più di trent'anni, tra il 1911 e il 1945, l'Italia sostiene ben sei guerre: due coloniali (Libia ed Etiopia), due mondiali, quella civile spagnola e quella di Resistenza. Possiamo solo immaginare la situazione dal punto di vista sociale, politica e culturale dell'Italia in questo periodo. È pressoché inimmaginabile oggi ciò che questo arrivò a significare per la psiche collettiva, l'antropologia e la formazione della giovane Nazione. Entriamo nel dettaglio.
Questioni territoriali: in seguito ai trattati di pace, l'Italia perde i domini coloniali, ma ottiene Trieste, ma non l'Istria.
Questioni istituzionali: con il referendum del 2 giugno 1946 la popolazione sceglie di passare dalla monarchia alla repubblica.
Questioni politiche: le elezioni del 1948 vedono la vittoria della democrazia cristiana.
Questioni culturali: si passa da una sorta di ricerca formale al voler combattere per una giusta causa. È un punto centrale perché fino a questo momento gli intellettuali hanno tenuto poco in considerazione il bene sociale, della popolazione, hanno avviato la loro attività di scrittori e le loro riflessioni a prescindere dagli orientamenti, desideri ed esigenze della società stessa. Dopo la Guerra gli intellettuali si rendono conto che qualcosa deve cambiare e che questo cambiamento deve partire proprio dalla società intellettuale. A tal riguardo è fondamentale l'articolo "Una nuova cultura".
di Elio Vittorini, che apre il primo numero de "Il Politecnico".
"IL POLITECNICO"
"Il Politecnico" era l'organo più tempestivo e rappresentativo di questa nuova intemperia culturale e aveva l'obiettivo di diventare un organo culturale di massa. Diretto da Elio Vittorini stesso e edito da Einaudi, vide il suo primo numero apparire il 29 settembre 1945, quando il conflitto in Italia era finito da appena pochi mesi.
Si trattava di un settimanale formato da quattro fogli grandi, elaborati graficamente da un geniale innovatore, Albe Steiner, che lavorò poi a lungo per la casa editrice Einaudi, ma dal n. 29 del 1° Maggio 1946 si modificò in un mensile: ne uscirono, con periodicità irregolare, undici numeri. Il periodico chiuse con il n. 39 nel dicembre 1947. Il nome "Politecnico" ricordava ovviamente l'organo pubblicato da Carlo Cattaneo nel 1839, a sottolineare che anche "Il
Politecnico”vittoriniano nutriva ambizioni più vaste di quelle semplicemente letterarie.Nell’articolo che andremo a leggere Vittorini afferma che forse questa cultura non aveva avuto NESSUNA influenza civilesugli uomini, ma solo un’influenza nell’intelletto. A pochi mesi dalla conclusione della Seconda guerra mondiale, in un Italiadistrutta da tutti i punti di vista, Vittorini auspica la nascita di una nuova cultura che protegga dalle sofferenze e non checonsoli dalle sofferenze accadute, che fa il bilancio di quanto accaduto nel periodo precedente e arriva a ridefinire séstessa, a ridefinire l’inattualità, a dare una nuova forma, un nuovo carattere e nuovi obiettivi alla società. Il problema diceVittorini è che la cultura e il sapere (frutto della classicità, della religione, dell’illuminismo, umanesimo) non hanno avuto laforza, forse la volontà, di intervenire sulla società. Il motivosostiene Vittorini è che la cultura "ha generato e riginerato sé stessa e mai o quasi mai rigenerato anche l'uomo". Dunque, non ha agito in unione con la società e dunque Vittorini chiede espressamente a tutti gli intellettuali di spingersi verso una nuova cultura che sia orientamento dell'anima e allo stesso tempo che abbia una funzione pratica che quindi non deve generare altra cultura, ma deve consolare e prevenire le sofferenze, deve aiutare l'uomo e la società intera in modo concreto occupandosi del "pane e del lavoro". Non vi è delitto commesso dal fascismo che questa cultura non avesse insegnato ad esecrare già da tempo. E se il fascismo ha avuto modo di commettere tutti i delitti che questa cultura aveva insegnato ad esecrare già da tempo, non dobbiamo chiedere proprio a questa cultura come e perché il fascismo ha potuto commetterli? Dubito che un paladino di questa cultura, alla qualeanche noi apparteniamo, possadarci una risposta diversa da quella che possiamo darci noi stessi: e non riconoscere con noi che l'insegnamento di questa cultura non ha avuto che scarsa, forse nessuna, influenza civile sugli uomini. Pure, ripetiamo, c'è Platone in questa cultura. E c'è Cristo. Dico: c'è Cristo. Non ha avuto che scarsa influenza Gesù Cristo? Tutt'altro. Egli molta ne ha avuta. Ma è stata influenza, la sua, e di tutta la cultura fino ad oggi, che ha generato mutamenti quasi solo nell'intelletto degli uomini, che ha generato e rigenerato DEBORAH MEDICI 104 dunque se stessa, e mai, o quasi mai, rigenerato, dentro alle possibilità di fare anche l'uomo. Pensiero greco, pensiero latino, pensiero cristiano di ogni tempo, sembra non abbiano dato agli uomini che il modo di travestire e giustificare, o addirittura di render tecnica, la barbarie dei fatti loro. È qualità naturale della cultura dinon poter influire sui fatti degli uomini? Io lo nego. Se quasi mai (salvo in periodi isolati e oggi nell'U.R.S.S.) la cultura ha potuto influire sui fatti degli uomini dipende solo dal modo in cui la cultura si è manifestata. Essa ha predicato, ha insegnato, ha elaborato principi e valori, ha scoperto continenti e costruito macchine, ma non si è identificata con la società, non ha governato con la società, non ha condotto eserciti per la società. Da che cosa la cultura trae motivo per elaborare i suoi principi e i suoi valori? Dallo spettacolo di ciò che l'uomo soffre nella società. L'uomo ha sofferto nella società, l'uomo soffre. E che cosa fa la cultura per l'uomo che soffre? Cerca di consolarlo. Per questo suo modo di consolatrice in cui si è manifestata fino ad oggi, la cultura non ha potuto impedire gli orrori del fascismo. Nessuna forza sociale era "sua" in Italia o in Germania.
Per impedire l'avvento al potere del fascismo, né erano "suoi" i cannoni, gli aeroplani, i carri armati che avrebbero potuto impedire l'avventura d'Etiopia, l'intervento fascista in Spagna, l'"Anschluss" o il patto di Monaco. Ma di chi se non di lei stessa è la colpa che le forze sociali non siano forze della cultura, e i cannoni, gli aeroplani, i carri armati non siano "suoi"? La società non è cultura perché la cultura non è società. E la cultura non è società perché ha in sé l'eterna rinuncia del "darea Cesare" e perché i suoi principi sono soltanto consolatori, perché non sono tempestivamente rinnovatori ed efficacemente attuali, viventi con la società stessa come la società stessa vive. Potremo mai avere una cultura che sappia proteggere l'uomo dalle sofferenze invece di limitarsi a consolarlo?
del pane e del lavoro è negare l'anima stessa. Non possiamo più permetterci di rimanere immobili di fronte all'ingiustizia e all'oppressione. Dobbiamo agire, dobbiamo cambiare la nostra cultura per creare un mondo migliore.che dell'anima lasciando a "Cesare" di occuparsi come gli fa comodo del pane e del lavoro, è limitarsi ad avere una funzione intellettuale e dar modo a "Cesare" (o a Donegani, a Pirelli, a Valletta) di avere una funzione di dominio "sull'anima" dell'