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III – MANZONIANI E NO FRA I MINORI

La prima edizione dei Promessi sposi si incuneò come chiave di volta nell’edificazione del romanzo

italiano: ne decretarono il successo l’equilibrio narrativo, la verosimiglianza storica, la finezza

psicologica, la naturalezza e la popolarità dello stile. In particolare un gruppo di romanzieri, legati a

Manzoni, si pose nella scia del suo capolavoro: Massimo D’Azeglio, Tommaso Grossi e Cesare

Cantù con i rispettivi romanzi storici Ettore Fieramosca, Marco Visconti e Margherita Pusterla;

Giulio Carcano con Angiola Maria, di ambientazione contemporanea. Non è dunque sorprendente

rinvenire in queste opere gli stessi caratteri linguistici della Ventisettana. Sono frequenti, per

cominciare, le convergenze tra modi settentrionali e toscano, pur annidandosi numerosi tratti aulici

e arcaici inavvertiti. Se si comparano i tre romanzi storici, per esempio, si nota come nella

Margherita Pusterla siano adoperati modi più decisamente arcaizzanti o poetici. Ma, nel

complesso, il tasso di letterarietà presente nella scrittura dei quattro manzoniani è omogeneo. Sul

piano sintattico D’Azeglio, Grossi, Cantù e Carcano utilizzano quei costrutti oralizzanti cui proprio

Manzoni aveva attinto con larghezza. Dal magistero della Ventisettana discende pure l’uso di

termini colloquiali, cui vanno affiancati i toscanismi. E’ stata sottolineata da più parti la radicale

estraneità di tutti e quattro i romanzieri alla lingua adottata nella Quarantana. Le scelte linguistiche,

infatti, guardano ai Promessi sposi del ’27 con il ricorso a lombardismi e toscanismi della tradizione

comica. La scelta della Quarantana per una lingua uniforme ed estranea alla tradizione letteraria

rimarrà senza seguito nella narrativa italiana ancora a lungo. Il romanzo popolare o di consumo,

nato in Italia alla metà del secolo sull’onda del successo dei modelli francesi di Eugène Sue e

Alexandre Dumas, presenta una fondamentale estraneità alla temperie manzoniana. Dal punto di

vista narrativo, tra i suoi caratteri peculiari si possono citare il ricorso a personaggi e intrecci

stereotipi che incontrano e appagano le aspettative del pubblico, il gusto del patetico, del macabro

e dello straordinario e l’intento didascalico. Bresciani e Mastriani furono autori molti prolifici. Il

romanzo più celebre di Mastriani è La cieca di Sorrento, dove si narra la storia lacrimevole e

morbosa di Beatrice Rionero che, persa la vista per il trauma di aver assistito all’omicidio della

madre, è guarita dopo diciassette anni dal deforme medico inglese Oliviero Blackman; dopo averlo

sposato, Beatrice scopre che si tratta in realtà di Gaetano Pisani, figlio dell’assassino di sua

madre, cade ammalata e muore. Sul piano linguistico il carattere più vistoso dei romanzi popolari è

la loro spiccata propensione a una lingua letteraria che inclina all’arcaismo. Sono frequenti, poi,

tratti più decisamente arcaizzanti nella fonetica, nella morfologia e nel lessico e nella sintassi. La

patina aulica e arcaica investe indifferentemente tutti i personaggi e le situazioni, con effetti di

comicità involontaria. Simili modi risentono non solo della tradizione letteraria in genere, ma della

lingua del melodramma in specie. D’altro canto, non mancano colloquialismi, toscanismi e

regionalismi espressivi. Oltre all’arcaismo, il vero tratto caratterizzante di questi romanzi popolari è

l’uso abbondante di tecnicismi, forestierismo e neologismi che rincorrono la contemporaneità. Con

il passare degli anni, la lingua del romanzo di consumo subì comunque un’evoluzione

avvicinandosi a una tonalità più misurata.

IV – ALTRI MONDI E MODI NARRATIVI

Nel medesimo 1840 in cui prendeva avvio la stampa della seconda edizione dei Promessi sposi,

vedeva la luce Fede e bellezza di Niccolò Tommaseo: un’opera di scarsa fortuna nell’Ottocento, e

che tuttavia tentò, dal punto di vista narrativo e stilistico, una nuova strada. Tra il 1827 e il 1834

Tommaseo si trasferì a Firenze, dopo aver vissuto a Padova e a Milano. Tommaseo rimase

conquistato dalla scoperta che nel parlato toscano si potevano rintracciare parole che

proseguivano basi latine altrimenti dimenticate, osservare distinzioni d’uso di vocaboli che altrove

parevano perfettamente sinonimi, e soprattutto cogliere dalla bocca del popolo termini della

tradizione letteraria più antica e illustre. Il riferimento al toscano venne a configurarsi come

profondamente antimanzoniano: la distinzione tra lingua viva e arcaica prendeva infatti

d’importanza, e l’intera tradizione diventava potenzialmente utilizzabile dallo scrittore. Di qui il

peculiare impasto di patrimonio letterario (prosaico e poetico), toscano vivo e classici latini e greci

che anima Fede e Bellezza. Fede e bellezza è il racconto in sei libri dell’amore e del matrimonio tra

Giovanni e Maria, entrambi reduci da storie di perdizione, e della morte di lei per tisi procede

continuamente interrotto da divagazioni, riflessioni, descrizioni, ricordi, dialoghi che irrompono nel

racconto contro ogni credibile opportunità narrativa: ai fatti si sostituisce la tumultuosa e lirica

espressione degli affetti. Centrale è l’apporto del toscano vivo. Non di rado il toscano,

specialmente del contado, serve d’appoggio ad arcaismi. Il gusto per il toscano parlato si associa

all’impiego di una vasta gamma di tratti colloquiali, particolarmente frequenti nel parlato dei

personaggi di bassa estrazione sociale. Tuttavia, l’adozione della lingua viva non è affatto

completa: ad essa si giustappongono numerosi tratti letterari in disaccordo con il toscano parlato.

Nel lessico si incontrano schietti aulicismi e cultismi. Coerenti con il gusto del lessicografo sono poi

le frequenti distinzioni e sottigliezze, e il recupero del senso etimologico o arcaico dei termini. Fede

e bellezza è dunque un’opera caratterizzata dal “prevalere dell’intendimento espressivo su quello

mimetico”. L’adozione di un dettato veloce e ritmato gioca infatti a favore del risalto delle soluzioni

espressive. E’ uno stile che, per certi versi, si ricollega al periodare spezzato settecentesco,

giocando sulla successione di frasi brevi e prive di connettivi in paratassi o asindeto. L’esperimento

di Fede e bellezza, tuttavia, non ebbe fortuna. Nella versione definitiva dell’opera del 1852,

Tommaseo attenuò sia i toscanismi sia gli aulicismi. In tutto l’Ottocento, Fede e bellezza conobbe

una sola ristampa successiva al ’52. Le Confessioni d’un Italiano di Nievo furono scritte tra la fine

del 1857 e il 16 agosto del 1858 e pubblicate postume nel 1867. Nella prima edizione il titolo

dell’opera fu modificato in Confessioni di un Ottuagenario dalla curatrice, Erminia Fusinato, che

rimaneggiò profondamente il testo dal punto di vista linguistico (e non solo). La veste originaria fu

restituita solo nel Novecento; e novecentesca è la fortuna dell’opera, come pure di tutta la narrativa

di Nievo. Cifra delle Confessioni è la commistione, innanzitutto, di generi diversi. Carlo Altoviti,

ormai ottantatreenne, ripercorre in prima persona la propria vita, segnata dall’amore per la cugina

Pisana e condotta attraversando l’Italia e l’Europa e le principali vicende politiche dell’epoca: la

narrazione si muove così tra il romanzo storico, quello di formazione e il racconto autobiografico.

Vi è una grande varietà sul versante linguistico, dove si accostano dialettismi, toscanismi,

colloqualismi, aulicismi, francesismi e pluralità di vernacoli. Tra essi senz’altro predominante è il

veneto. La larga maggioranza di dialettismi è formata da venetismi schietti. In diversi casi i

dialettismi possono avere riscontri con il toscano o la lingua letteraria. Numerosi sono poi i

settentrionalismi fonomorfologici e sintattici. Mentre i dialettismi provengono a Nievo dall’oralità, i

toscanismi sono ricavati per via libresca. Toscanismi e settentrionalismi sono nelle Confessioni

elementi necessari a ricreare un linguaggio medio e colloquiale. Vi è, inoltre, una fitta schiera di

aulicismi disseminati in tutto il romanzo; frequenti i dantismi e così anche i ricordi dei Promessi

sposi. Linguisticamente la posizione di Nievo è senz’altro antimanzoniana: a fronte dell’omogeneità

linguistica della Quarantana predomina qui un’accentuata varietà. Una simile varietà linguistica va

ben distinta da quella messa in atto da Tommaseo in Fede e bellezza: non solo perché in

quest’ultimo è assente il dialetto, ma soprattutto perché alla ricerca espressiva dello scrittore

dalmata si contrappone qui la sprezzatura di Nievo, cioè la disinvoltura con cui lo scrittore attinge a

tutto il patrimonio disponibile alla propria competenza linguistica.

V – REGIONALISMO LINGUISTICO

Anche in campo narrativo, il 1861 fu “spartiacque decisivo” che si pose come punto di svolta per il

decollo del nostro romanzo moderno, grazie alla concomitanza di molti fattori, come la maggiore

facilità degli spostamenti nel paese unificato e dunque dei contatti tra gli scrittori, l’espansione del

mercato librario, lo sviluppo, pur lento, dell’alfabetizzazione. Tali semi produssero nei vent’anni di

fine secolo una fioritura di titoli che segnarono indelebilmente il panorama della narrativa italiana:

Giacinta di Capuana, Vita dei campi e I Malavoglia di Verga, Malombra di Fogazzaro, Novelle

rusticane di Verga, Daniele Cortis di Fogazzaro, Il cappello del prete di De Marchi, Mastro-don

Gesualdo di Verga, Il Piacere di D’Annunzio, I Viceré di De Roberto, Piccolo mondo antico di

Fogazzaro, Il Fuoco di D’Annunzio, Piccolo mondo moderno di Fogazzaro e Il marchese di

Roccaverdina di Capuana. Dal punto di vista tematico, la gran parte delle opere citate riflette la

disillusione e la crisi dell’Italia postunitaria. In particolare, la nuova struttura centralizzata del potere

statale parve minacciare le tradizioni locali, generando per reazione un “moto centrifugo” che, nel

romanzo, coinvolse anche il piano linguistico, con l’esplosione di particolarismi locali e dunque con

la ricerca di un’espressività idiomatica. Nel Nord Italia i due scrittori che ottennero i risultati più

convincenti furono Emilio De Marchi e Antonio Fogazzaro. De Marchi ammira dei Promessi sposi

la scrittura allo stesso tempo naturale e popolare. Ciò nonostante, la lingua di De Marchi resta

sempre lontana da quella della Quarantana, proseguendo in un certo senso la fedeltà alla

tradizione letteraria e la preferenza per la Ventisettana. Le prime opere mostrano un tasso di

aulicità più consistente. Il primo parziale mutamento avviene con il Cappello

Dettagli
Publisher
A.A. 2014-2015
9 pagine
8 download
SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-FIL-LET/10 Letteratura italiana

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher giovyviv94 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Testi e questioni di letteratura italiana e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Roma La Sapienza o del prof Storini Monica Cristina.