Riassunto esame storia della scienza, Prof. Ciancio, libro consigliato "Storia della scienza in Occidente" (R. Maiocchi)
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La teoria dei moti accelerati
Nel periodo di prigionia G. porta a compimento la sua opera scientifica più significativa, quel trattato
sul movimento cui pensava da decenni.
1638: Discorso e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze. Vi compaiono i tre interlocutori del
Dialogo e anche quest’opera è scandita in quattro giornate; di particolare importanza è la trattazione nella
terza e quarta giornata del problema del moto uniforme, di quello naturalmente accelerato e
uniformemente accelerato. L’opera tratta, quindi, di tutti gli aspetti della fisica e il nucleo più rilevante è
la teoria dei movimenti accelerati e in questa un ruolo centrale è svolto dalla legge di caduta dei gravi.
Una volta ammessa la possibilità di pensare ad una transizione continua tra la quiete e il moto, e
apertasi dunque la possibilità di accettare la proporzionalità tra velocità di caduta e tempo, G. definisce
il moto uniformemente accelerato come quel moto in cui la velocità cresce con il tempo e cerca una
teoria razionale dei movimenti accelerati.
G. dedica molti sforzi alla fondazione di un calcolo per le tecniche infinitesimali indispensabili ad una
trattazione geometrica del moto naturalmente accelerato secondo la proporzione dello scorrere del
tempo.
Egli rappresenta il moto uniformemente accelerato con un triangolo, e il moto uniforme con un
rettangolo.
Apparentemente G. non fa altro che ritrovare i risultati sulle caratteristiche matematiche del moto
uniformemente accelerato già noti ai calculatores, in realtà egli si muove in un orizzonte concettuale
completamente differente e inaugura una nuova scienza del movimento.
La supposizione secondo cui i vari momenti della velocità sono da intendersi come uniformi, consente
a G. di raggiungere un’altra conclusione importantissima: la dimostrazione che il percorso di un grave
scagliato orizzontalmente è una parabola. G. ora sa che il movimento di caduta è un movimento
uniformemente accelerato che si deve combinare con un moto uniforme orizzontale.
Nella trattazione del moto dei proiettili impiega come sinonimo di momento di velocità il termine
impeto, che ben si presta a designare la capacità più o meno grande di un corpo, in funzione della sua
velocità maggiore o minore, a produrre deformazioni o a rompere altri corpi. G. dice, ad esempio, che
in un moto uniforme l’impeto di un corpo è costante, in un moto accelerato l’impeto è crescente. Si
tratta di affermazioni che apparentemente ricalcano quelle della teoria dell’impetus. La somiglianza è solo
terminologica: G. ormai ha abbandonato le idee giovanili e concepisce l’impeto non come causa del
movimento, ma come suo effetto.
Nei Discorsi si trova anche la dimostrazione di una tesi cui G. era giunto già nel 1615: la legge della
caduta dei gravi, in assenza di attriti, è identica per tutti i corpi, contro la tesi aristotelica che la velocità
di caduta sia proporzionale al peso dei gravi. Infatti, le differenze di velocità dei gravi di peso differenti
tendono a diminuire man mano che i mezzi in cui si effettuano i moti diventano più sottili, meno densi.
Il valore universale della legge di caduta dei gravi costituisce uno dei risultati del pensiero galileiano da
cui meglio risalta il carattere astratto e ideale della sua scienza.
La procedura di purificazione del mondo sensibile è indispensabile per poter giungere a schemi esatti,
rigorosi, per poter applicare la matematica al mondo. Il mondo ideale così costruito è vero, ma non può
trovare immediato riscontro nell’esperienza, la quale sempre presenta fattori perturbatori, e solo
togliendo questi ultimi ci si potrà render conto della verità scientifica.
Principio della relatività del moto: afferma che le leggi della fisica sono sempre della stessa forma nei
sistemi di riferimento inerziali. Afferma quindi l’assoluta equivalenza fisica di tutti i sistemi di
riferimento inerziali. Le leggi della fisica sono identiche in tutti i sistemi inerziali.
Qualità primarie/secondarie: qualità è la determinazione qualsiasi di un oggetto. Di questa famiglia
Aristotele distinse quattro membri: 1. abiti (temperanza, scienza, virtù) e disposizioni (salute, malattia,
caldo, freddo, ecc.); 2. capacità o incapacità naturali; 3. determinazioni geometriche o misurabili (figura,
forma, numero, estensione, ecc.); 4. determinazioni sensibili, cioè che sono fornite da strumenti
organici (colori, suoni, sapori). Le qualità 3. e 4. sono quelle tradizionalmente distinte come primarie
(quantificabili e oggettive) e secondarie (non quantificabili e soggettive). Questi termini rimontano a
Boyle, ma la distinzione rimonta a Democrito. Dopo molti secoli fu ripresa da Galilei, da Cartesio e da
Locke.
Dal “perché” al “come”: scelta consapevole o forzata?
Una delle differenze più significative tra il pensiero della maturità di G. e la produzione precedente è
costituita da una netta separazione tra la cinematica (ramo della fisica che descrive quantitativamente il
moto dei corpi, senza porsi il problema di prevedere il moto futuro a partire da grandezze note; è detta
anche "geometria del movimento") e la dinamica (parte della meccanica che studia le circostanze e le
cause che determinano e modificano il moto dei corpi).
Sin da giovane G. era stato affascinato dall’idea di giungere ad un’elaborazione unitaria della dinamica e
della statica. Dopo molti sforzi inutili G. giunse a convincersi che la statica (parte della meccanica che
studia le condizioni necessarie affinché un corpo, inizialmente in quiete, resti in quiete anche dopo
l'intervento di forze esterne) costituiva un campo d’indagine sostanzialmente indipendente della
dinamica.
Infine giunse al rifiuto di andare alla ricerca delle cause dei fenomeni per concentrarsi sulle leggi che
legano tra di loro i fenomeni stessi.
In questo aspetto dell’opera di G. molti storici hanno visto il tratto più caratteristico della scienza
moderna, che con il grande pisano abbandona la ricerca del “perché” dei fenomeni per concentrarsi sul
“come” essi avvengono.
Avendo separato la ricerca sulle cause del movimento da quella sugli effetti fenomenici, avendo cioè
distinto la dinamica dalla cinematica, G. non poté mai esprimersi con chiarezza sul rapporto esistente
tra la forza (gravità) che causa la caduta e la legge di caduta dei gravi.
G. non giunse mai a fare esplicitamente un passaggio che a noi pare elementare: quello che porta dalla
legge di caduta dei gravi al secondo principio della dinamica; se un peso costante produce un
movimento di caduta uniformemente accelerato, allora si può sostenere che ogni forza costante
applicata ad un corpo genera un’accelerazione costante. Questo passaggio fu invece compiuto dagli
allievi di G. Baliani e Torricelli.
Il secondo principio della dinamica veniva a completare la riformulazione della dinamica aristotelica dei
moti violenti avviata dal principio d’inerzia: mentre per Aristotele una forza costante produce una
velocità costante e in assenza di forza non vi può essere movimento, per la dinamica originata
dall’opera di G. un movimento uniforme non ha bisogno di alcuna forza per mantenersi e l’intervento
di una forza produce una variazione di velocità.
Il metodo della scienza
La rilevanza di G. dipende anche dall’aver indicato un nuovo metodo scientifico. Come per tutti gli
aspetti dell’opera galileiana, anche a proposito del metodo, le interpretazioni proposte dagli storici sono
molteplici e divergenti.
L’aspetto metodologico più interessante è stato l’abbandono della ricerca di nature essenziali e cause
ultime, per limitarsi alla descrizione dei nessi costanti tra i fenomeni.
La scoperta delle leggi fenomeniche, delle “cause prossime”, avviene in G. partendo dalle osservazioni e
ritornando poi alle osservazioni tramite un metodo di “risoluzione e composizione”. Analizzando
l’esperienza, variando le condizioni osservative al fine di isolare di essa gli aspetti rilevanti, si arriva a
formulare delle teorie generali, che vanno poi dimostrate vere o false mediante l’esperimento.
Rispetto alla tradizione dei logici dell’aristotelismo rinascimentale, G. compie un passo avanti,
richiedendo che gli elementi in cui l’esperienza viene analizzata possano essere definiti
quantitativamente, ed espressi in termini matematici, quindi sottoponibili a misurazioni precise.
Pur ammettendo che G. abbia effettivamente compiuto misurazioni di decisiva importanza, nella forma
che si è vista trattando della legge di caduta dei gravi, è indubbio che nel complesso dei suoi scritti
predomini l’argomentazione teorica, la dimostrazione razionale.
G. fu comunque il primo a proporsi di compiere alcune esperienze quantitative per controllare in
maniera non episodica, bensì critica e metodica, le proprie idee, inaugurando così una nuova era per la
scienza, quella della ma tematizzazione anche attraverso la misurazione.
La matematizzazione della natura operata da G. è stata interpretata dagli storici in vari modi. Una
tradizione vi ha visto una decisiva influenza di Platone, del filone platonico-pitagorico. Altri studiosi
hanno invece interpretato i richiami a Platone presenti nei testi galileiani come artifici retorici: per
intaccare il preteso monopolio di Aristotele nell’antichità.
Nel matematizzare il mondo G. aveva piuttosto in mente il “divino”Archimede e andava alla ricerca di
teorie assiomatizzate, euclidee, con le quali descrivere il mondo reale.
Tutti gli storici, in ogni caso, concordano nel ritenere che con la faticosa elaborazione di una scienza
matematizzata G. ha indicato alla scienza moderna la sua via maestra.
CAPITOLO III
LA FILOSOFIA DELLA SCIENZA:
IL MECCANICISMO
Il meccanicismo è un termine filosofico e scientifico usato per indicare una concezione del mondo che
evidenzia la natura esclusivamente corporea, e quindi meccanica, di tutti gli enti, unita al loro
comportamento motorio esclusivamente di tipo meccanico.
Il meccanicismo può essere considerato:
1- come una concezione filosofica del mondo: secondo questa, il meccanicismo si è presentato sin
dall’antichità come una forma di atomismo, corrente che concepiva il mondo come un sistema di corpi
in movimento, e come una corrente deterministica, secondo la quale tutto ciò che esiste o accade,
comprese le conoscenze e le azioni umane, è determinato in modo causale da una catena ininterrotta di
eventi avvenuti in precedenza.
Questa concezione è caratterizzata appunto dalla negazione di ogni ordine finalistico: il finalismo è
quella dottrina che ammette che ci sia un progetto, uno scopo, una direttiva, un principio o una finalità
nelle opere e nei processi naturali, unita allo studio filosofico di tale scopo. Il fine è inteso come la causa
totale dell’organizzazione del mondo e dei singoli eventi. Il finalismo implica due tesi: da una parte che
il mondo è organizzato in vista di un fine; dall’altra parte che la spiegazione di ogni evento del mondo
consiste nell’esporre il fine cui l’evento è diretto.
2- come un metodo o un principio direttivo della ricerca scientifica: secondo questo, nella fisica il
meccanicismo consiste nella tesi che tutti i fenomeni della natura debbano essere spiegati con le leggi
della meccanica e con le sue grandezze (es. la forza, la massa, l’energia).
Nella scienza seicentesca l’universo fu concepito come una grande macchina, un insieme composto da
parti in movimento, un universo-macchina perfettamente determinato in tutti i suoi comportamenti
dalle leggi del moto, perfettamente comprensibile attraverso le medesime leggi.
Cartesio
(1596 - 1650)
C. è colui che più di ogni altro fece per contribuire a far affermare questa concezione meccanicistica del
mondo. Con la sua fondamentale distinzione tra res cogitans e res extensa, tra pensiero e materia
(estensione), C. separa le questioni che riguardano l’anima da quelle che hanno a che fare con i corpi,
rende autonoma la scienza dalla religione e indica alla ricerca scientifica un nuovo grande compito,
quello di comprendere il mondo impiegando solo i concetti di estensione (forma geometrica) e
movimento. Il mondo così ridotto a materia in movimento era un mondo assolutamente chiaro alla
ragione umana.
Il meccanicismo cartesiano rompe dunque decisamente non solo con la tradizione aristotelica, ma
anche con la scienza rinascimentale, che faceva ampio ricorso alle forza occulte.
Ammettendo per il mondo fisico il solo attributo dell’estensione, C. afferma anche in modo nettissimo
quella che fu forse la concezione più caratteristica del nuovo pensiero scientifico: il mondo fisico non è
necessariamente simile al mondo sensibile, la scienza non tratta di oggetti definiti dai sensi, non si fonda
sulle qualità sensibili.
Il mondo cartesiano è una macchina composta da corpi privi di principi attivi, corpi inerti soggetti alla
necessità fisica. Poiché la materia è del tutto inerte, essa non può essere causa del proprio moto.
L’origine del movimento è Dio, che all’atto della creazione ha conferito ai corpi il movimento. Questo
movimento si conserva poi eternamente poiché vale il principio d’inerzia: il movimento di un corpo è
uno stato che si mantiene fino a che non interviene una causa esterna a modificarlo. Il principio
d’inerzia è un principio basilare della fisica cartesiana in quanto esso consente di pensare a un mondo
materiale inerte, privo di principi attivi, eppure in continuo movimento. C. fu il primo a concepire il
moto inerziale come rettilineo: ogni corpo si muove con velocità rettilinea e uniforme fino a quando
non urta in un altro corpo.
L’urto tra i corpi è l’unica forma di interazione che C. ammette nel proprio mondo. Allo studio dei
fenomeni d’urto dedica molta attenzione, proprio perché in essi egli vedeva la strada per individuare le
leggi fondamentali della natura. La sua analisi parte da un principio di conversazione della quantità di
moto: poiché intende la quantità di moto come una quantità scalare, non vettoriale, la maggior parte
delle sue conclusioni sulle leggi dell’urto appaiono oggi sbagliate, ma ciò non toglie che i suoi studi a
riguardo siano stati il punto di partenza ineludibile per quelli successivi.
Il principio d’inerzia e quello della conservazione della quantità di moto sono sufficienti a erigere
un’immagine scientifica dell’universo capace di spiegare qualsiasi genere di fenomeni.
L’aspetto più caratteristico della macchina del mondo cartesiana è costituito dai moti vorticosi, senza i
quali nessun movimento potrebbe avere luogo. Infatti l’identificazione tra materia ed estensione
compiuta da C. implica che ogni porzione di spazio si debba pensare come riempita di materia. Se non
esiste alcun vuoto in cui un corpo si possa muovere, allora un qualsiasi movimento può avvenire solo se
lo spazio lasciato libero da un corpo che si sposta è immediatamente occupato da un altro corpo. Ogni
particella in moto in un pieno deve partecipare di una catena chiusa di materia in movimento, deve
inscriversi in un moto vorticoso. L'universo è il risultato di un numero infinito di vortici.
Un vortice importante è quello formato dal sistema solare, che ha al centro il Sole. Gran parte del
vortice è riempita dal “secondo elemento”, particelle a forma sferica, mentre particelle estremamente
sottili (“primo elemento”) riempiono tutti gli interstizi tra le sfere del secondo elemento e qualsiasi
poro. I pianeti sono formati dalla riunione di una terza forma di materia, particelle grandi che originano
i corpi macroscopici. Il vortice incentrato nel Sole trascina i pianeti e li fa ruotare: è questa la prima
teoria dall’apparenza plausibile che va a sostituire le antiche sfere cristalline e che propone una causa
fisica per i moti planetari.
Per Galileo i moti planetari erano moti circolari naturali, ma per C. il movimento di un pianeta, così
come accade per ogni movimento circolare, non è naturale, in quanto, a causa del principio d’inerzia
rettilineo, ogni corpo esercita costantemente una tendenza ad allontanarsi dal centro intorno al quale
ruota. Per compiere un tragitto curvo deve essere soggetto a qualche vincolo esterno, che C. indica
nell’azione della materia in rapido movimento che si trova nella parte più esterna del vortice, la quale
tende a forzare il pianeta verso l’interno. L’orbita percorsa da un pianeta è dunque il risultato di un
equilibrio tra una tendenza a sfuggire verso l’esterno e una controtendenza a riportare il pianeta verso il
centro.
La teoria dei vortici è applicata da C. alla spiegazione dei principali fenomeni fisici: la luce, la gravità dei
corpi; neppure il magnetismo, che nella scienza rinascimentale era stato l’emblema di tutte le facoltà
occulte, sfugge al processo di riduzione alle leggi del movimento.
Metodo: nella costruzione dei propri meccanismi C. procede con la ragione e con l’immaginazione;
l’esperienza ha per lui un ruolo marginale ed è la ragione che pone i principi costitutivi del mondo, le
leggi di natura, ed è essa che elabora modelli meccanici capaci di simulare i fenomeni. Impiegando solo
la ragione ci si può imbattere in varie possibilità teoriche parimenti plausibili ed allora interviene
l’esperimento a suggerire la scelta tra le alternative. C. non cerca un contatto puntuale tra le proprie
teorizzazioni e l’esperienza. I suoi modelli si limitano a fornire spiegazioni in linea di principio. La sua
fisica parla di figure in movimento, dunque è in via di principio interamente matematizzabile, ma di
fatto non è matematizzata.
La scienza di Galileo tutta protesa alla comprensione matematizzata dei dettagli della natura appariva a
C. una scienza filosoficamente inaccettabile in quanto priva di un fondamento, di principi generali
unificanti. I meccanicismi fantastici descritti da C. sono assurdi, ma esprimono un desiderio di
conoscere i meccanicismi della natura.
Per quanto molto influente, il cartesianesimo non fu l’unica versione di meccanicismo circolante
attorno alla metà del secolo. Un’alternativa forte fu quella rappresentata da Pierre GASSENDI (1592 -
1655), che si fece banditore dell’antica corrente atomistica.
Contro la materia infinitamente divisibile e l’universo pieno di Cartesio, G. sostenne l’esistenza di
particelle indivisibili che si muovono in spazi vuoti. G. e Cartesio concordavano comunque su un
principio fondamentale che costituiva il principale connotato della posizione meccanicistica: la natura è
composta da materia priva di attributi qualitativi e tutti i fenomeni naturali sono prodotti da parti di
materia in movimento.
Questo accordo tra i due pensatori consentì a Robert BOYLE (1627 - 1691), massimo esponente degli
scienziati della generazione successiva, di unificare cartesianesimo e atomismo, concependoli come due
espressioni della medesima “filosofia meccanicistica”, la quale fa risalire tutti i fenomeni naturali ai “due
principi universali”: materia e movimento.
Non facilmente unificabili erano invece le concezioni metodologiche di Cartesio e G. Alla convinzione
cartesiana secondo cui, procedendo razionalmente, per idee chiare e distinte, la scienza può raggiungere
una conoscenza certa dell’essenza della materia, G. oppose una concezione più prudente e scettica: per
G. solo Dio può conoscere le essenze ultime, ma l’uomo deve rinunciare a questa pretesa, che è invece
comune ad Aristotele e Cartesio.
Non si deve dimenticare che, se dal punto di vista filosofico la parte centrale del XVII sec. fu dominata
dal razionalismo meccanicista di Cartesio, questo stesso periodo vide anche il fiorire di una robusta
corrente di ricerca empirica la quale affrontava lo studio diretto della natura tramite nuovi strumenti e
nuovi atteggiamenti intellettuali.
Solo nell’opera di Newton si realizzerà una fusione tra razionalismo e sperimentalismo, tra matematica
ed esperienza, che rappresenterà il culmine della rivoluzione scientifica.
CAPITOLO IV
NUOVI STRUMENTI PER LA SCIENZA
La nuova matematica
Il risultato più significativo raggiunto dalla matematica seicentesca fu il calcolo delle grandezze variabili
con continuità, o calcolo infinitesimale, corpo di conoscenze matematiche che studia il
"comportamento locale" di una funzione tramite la nozione di limite.
ITALIA
In Italia il problema del calcolo infinitesimale venne affrontato col metodo degli indivisibili.
Il pisano Galileo affrontò tale problema nell’ambito della caduta dei gravi, mostrando che i corpi
materiali cadono nel vuoto, escludendo quindi qualunque effetto di attrito tutti con la stessa
accelerazione e indipendentemente dalla loro massa. In questo caso il calcolo infinitesimale si collegava
al calcolo del rapporto tra aree di figure diverse, ricorrendo a considerazioni sugli elementi
infinitamente piccoli in cui si può pensare di suddividere tali aree.
A sua volta, il milanese Cavalieri (1598 - 1647) nella Geometria indivisibilibus propose l’idea di ricavare le
misure delle aree dal confronto degli indivisibili in cui esse si possono scomporre. Il suo principio
suonava così: se due aree piane, tagliate da un sistema di rette parallele, intercettano sopra ognuna di
esse due corde uguali, le due aree sono eguali; se intercettano corde che hanno tra loro un rapporto
costante, anche le due aree hanno tra loro questo rapporto. Allo stesso modo, se due volumi, tagliati da
un sistema di piani paralleli, intercettano sopra ognuno di essi sezioni uguali, anche i due volumi sono
uguali; se intercettano sezioni che stanno tra loro in rapporto costante, anche i due volumi stanno tra di
loro in questo rapporto. Da ciò si può dedurre che in realtà gli indivisibili rettilinei di Cavalieri (corde
per le aree e sezioni per i volumi) non sono delle entità infinitamente piccole, ma delle grandezze
geometriche rigorosamente confrontabili tra di loro.
FRANCIA
In Francia alla nascita del calcolo infinitesimale contribuì la geometria analitica. Con essa venne creata
una tecnica per trattare i problemi geometrici in forma algebrica, per tradurre una qualsiasi curva in una
equazione e per studiare le proprietà della curva attraverso le proprietà dell’equazione.
In Cartesio, o Descartés, la geometria analitica, esposta nella Géometrie, è concepita come un progetto di
grande significato filosofico, come un metodo generale applicabile a tutti i problemi geometrici.
Traducendo i problemi geometrici in termini algebrici, la nuova geometria consentiva di usare
automaticamente gli schemi risolutivi già scoperti dagli algebristi. In questo modo Cartesio pensava di
aver trovato la soluzione della questione filosofica di fondo che egli intendeva affrontare, quella di dare
un fondamento assoluto da cui far derivare ogni verità scientifica.
Fermat (1601 - 1665), al contrario, vedeva nella geometria analitica un particolare metodo, senza dubbio
elegante ed efficacissimo, per dare forma algebrica ai problemi geometrici; la sua validità non è provata
da alcun ragionamento a priori, ma solo dai successi verificati in moltissimi casi.
Nel giro di pochi anni, la geometria analitica divenne il nucleo centrale dell’indagine matematica.
INGHILTERRA
Nell’inglese Newton (1643 - 1702) il calcolo infinitesimale, noto come “calcolo delle flussioni”, fu
concepito come uno strumento della fisica, ed è proprio per questo che egli non si preoccupò mai di
darne una fondazione teorica ma solo di esporne le regole pratiche.
Newton concepisce le linee come descrivibili mediante il movimento continuo di punti, le superfici
descrivibili dal movimento di linee e i volumi descrivibili dal movimento di superfici. A parità di tempo,
le quantità che vengono generate dal movimento di punti, rette e superfici dipendono dalla velocità con
la quale punti, rette e superfici si muovono. A queste velocità Newton attribuisce il nome di flussioni,
mentre chiama fluenti le quantità generate dai movimenti continui. Moltiplicando la velocità (flussione)
di una variabile x (fluente) per un intervallo di tempo, si ottiene l’incremento conseguito dalla variabile
in quell’intervallo.
GERMANIA
Ben diversa da quella di Newton fu la considerazione che ebbe del calcolo infinitesimale il tedesco
Leibniz (1646 - 1716). L’algebra per Leibniz è un simbolismo adatto a esprimere i rapporti tra
grandezze finite. Essa, tuttavia, non è in grado di esprimere le sfumature, o variazioni infinitesime;
occorre perciò un calcolo simbolico delle grandezze infinitesime. Di qui la necessità di creare un’algebra
infinitesimale.
Leibniz studiò i problemi degli infinitesimi con l’obiettivo principale di stabilire simboli capaci di
esprimere con esattezza e semplicità anche le più complesse relazioni tra le differenze infinitamente
piccole. Stabiliti i simboli per gli integrali (aree) e i differenziali (variazioni infinitesime), Leibniz mise in
evidenza l’algebra particolare cui questi nuovi simboli obbediscono, ad esempio le regole per la somma
degli integrali, o del prodotto o del quoziente di differenziali.
Il simbolismo leibniziano dava una metodologia generale per trattare le grandezze infinitesime, che
facilitava enormemente le procedure calcolistiche e ne eliminava molte incertezze.
Fra Leibniz e Newton vi fu una accanita disputa circa la priorità dell’invenzione del calcolo
infinitesimale. Il tedesco cominciò a occuparsi della questione nel 1675, pubblicando però una memoria
nove anni dopo, comunque prima di una qualsiasi pubblicazione di Newton in merito. La disputa
scoppiò apertamente solo nel 1699: Leibniz capì l’importanza di mettere a punto un simbolismo
adeguato e lo realizzò; Newton capì l’importanza del calcolo solo con ritardo, e probabilmente questo
spiega come mai egli si sia deciso ad avviare la disputa ben quindici anni dopo la pubblicazione del
primo lavoro del tedesco.
La scoperta di nuovi strumenti
Grazie all’invenzione di un buon numero di strumenti, la scienza sperimentale compì una vera e propria
rivoluzione. Fra essi, vanno ricordati:
il cannocchiale: dopo quello di Galileo del 1608, divenne lo strumento fondamentale
• dell’astronomo.
il telescopio: venne creato per aumentare l’ingrandimento, scrutare oggetti lontani e ridurre le
• anomalie prodotte da lenti che risultavano sempre cariche di imperfezioni. Furono montati
telescopi lunghi fino a 60m.
Con i giganteschi telescopi vennero fatte scoperte importantissime: l’inglese Halley, ad esempio,
studiò i movimenti delle comete, convincendosi che il loro moto non è parabolico ma ellittico,
dunque ricomparendo nel cielo secondo periodi calcolabili.
I telescopi servirono anche a precisare e ampliare le carte stellari, ma non fu possibile andare al
di là di una catalogazione e passare a uno studio delle stelle. Comunque, era convinzione
generale che l’universo fosse infinito e che le stelle riempissero questo spazio.
Molti ammettevano anche l’esistenza di vari sistemi simili a quello solare, con pianeti che
potevano essere abitati.
il microscopio: venne creato per scrutare nell’infinitamente piccolo. I migliori microscopi del
• tempo di Newton furono quelli dell’olandese Leeuwenhoek, che consentivano di scorgere
oggetti del diametro di un ventimillesimo di centimetro, senza però poterne apprezzare i
dettagli. Leeuwenhoek nel 1674 vide nell’acqua prelevata da uno stagno i protozoi liberamente
viventi.
Il microscopio non diede immediatamente grandi risultati teorici, poiché esso veniva quasi
sempre impiegato per scoprire cose nuove e curiose, piuttosto che per dare risposte a precisi
interrogativi scientifici.
Solo in campo anatomico le osservazioni microscopiche contribuirono a un accrescimento
sostanziale della conoscenza: il romano Malpighi fu il più importante tra coloro che applicarono
il microscopio agli studi anatomici. In particolare, egli applicò il microscopio ai tessuti viventi,
compiendo un’ingente quantità di osservazioni su tessuti umani, animali e sulle piante.
il termometro.
• il barometro.
• l’orologio di precisione.
• la pompa per produrre il vuoto.
•
La nascita delle accademie
Le accademie erano istituzioni culturali create in opposizione alle università a cominciare dal XIV
secolo, che fino alla seconda metà del Cinquecento non si erano mai interessate alla scienza.
Fu nel Seicento che nacquero le accademie specificatamente dedicate allo studio della scienza. I
maggiori scienziati del secolo non furono professori universitari, salvo poche eccezioni come Newton,
ma studiosi che operavano privatamente e che iniziarono a riunirsi in circoli e associazioni, per
scambiarsi informazioni, discutere e organizzare esperimenti comuni.
ITALIA
La prima accademia scientifica sorse a Roma nel 1609 e fu quella dei Lincei, una associazione
puramente privata che nacque ad opera del suo mecenate Federico Cesi, che ebbe fra i suoi membri
Galileo e che si sciolse alla morte di Cesi nel 1630.
Erede di essa fu l’accademia del Cimento, sorta a Firenze per volontà di Leopoldo, fratello del granduca
Ferdinando II, nel 1657, e stipendiata dai Medici. Essa cessò di esistere nel 1667, quando Leopoldo
divenne cardinale.
FRANCIA
In Francia la prima importante associazione scientifica si configurò a Parigi nel 1654 nel salotto di De
Monmort. In essa si facevano soprattutto delle discussioni, mentre pare che non vi fosse l’interesse per
l’organizzazione di esperimenti in comune.
Altra accademia francese da ricordare è la Académie Royale des Sciences fondata da Colbert col consenso di
Luigi XIV e finanziata dallo stato, che alla sua morte passò al Marchese di Louvois. I suoi accademici
ricevevano uno stipendio, avevano a disposizione la biblioteca reale e un osservatorio, ed erano in
genere lasciati liberi di perseguire i propri programmi. Per dar lustro all’accademia furono chiamati
anche studiosi stranieri, come l’italiano Cassini e l’olandese Huygens.
INGHILTERRA
In Inghilterra esistevano vari gruppi di scienziati all’interno dei quali si svolgevano sporadiche attività in
comune. I principali erano il Collegio invisibile e il Mersenne dell’Inghilterra. Da questi due gruppi
nacque ufficialmente nel 1662 la Royal Society.
A differenza di quella francese, l’accademia inglese rimase una associazione sostanzialmente privata, che
si manteneva in vita con le sottoscrizioni dei soci. Ma priva di fondi, la Royal Society lasciò cadere nel
giro di pochi anni l’iniziale ambizione di svolgere ricerche collettive e si limitò a far conoscere, verificare
e criticare le ricerche che nel suo seno venivano riferite.
Dal 1665 le lettere con cui gli scienzati riferivano i propri risultati al segretario della Royal Society,
l’attivissimo Oldenburg, furono pubblicate nel mensile Philosofical Transactions, che divenne così il primo
esempio di rivista scientifica.
Le accademie non furono centri di ricerca né il luogo della scoperta, ma l’ambiente delle idee; esse
offrirono un ambito dove uno scienziato poteva misurare le proprie concezioni in un dibattito
pubblico, e contribuirono moltissimo a far crescere nella pubblica opinione l’interesse per la scienza,
facendo leva sul suo valor pratico.
Che la scienza potesse e dovesse essere una grande forza di emancipazione e di incivilimento dei popoli
era stato il grande messaggio lanciato da Francesco Bacone, o Francis Bacon (1561 - 1626). In Bacone
questo ideale legava indissolubilmente l’utilità della scienza alla conoscenza della proprietà della materia,
fondata sull’applicazione del metodo sperimentale. Per questo motivo, la Royal Society, che nei suoi
primi anni di vita manifestò grandi entusiasmi per il valore pratico della scienza, poté rapidamente
cambiare atteggiamento e dedicarsi a ricerche più speculative.
Particolare infine da ricordare è una lunga disputa, la cosiddetta “battaglia dei libri”, circa la superiorità
dei moderni sugli antichi. Fino al XVII secolo, infatti, si era convinti che la scienza antica fosse stata
superiore a quella moderna, principio che nel corso del secolo cadde in modo definitivo sotto la spinta
dei nuovi risultati scientifici. Uno dei testi più significativi di questo dibattito fu il Plus Ultra di Glanvill
che sostenne la tesi della superiorità dei moderni.
CAPITOLO V
LE SCIENZE EMPIRICHE
L’empirismo è quell’indirizzo filosofico che fa appello all’esperienza come criterio o norma della verità.
In generale tale indirizzo è caratterizzato dai seguenti tratti: in primo luogo nega l’assolutezza della
verità o almeno della verità che è accessibile all’uomo; in secondo luogo riconosce che ogni verità può e
deve essere messa alla prova, e quindi eventualmente modificata, corretta o abbandonata.
Al contrario, il razionalismo è l’atteggiamento di chi si affida alla ragione per la determinazione di
credenze o di tecniche in un dato campo. In campo filosofico il tedesco Kant fu il primo ad assumere
questo termine come insegna della propria dottrina trascendentale, mentre nel suo significato generico il
tedesco Hegel lo adoperò per caratterizzare l’indirizzo che va da Cartesio a Leibniz.
La fisica sperimentale
Con la fisica sperimentale si è in presenza di esperimenti condotti sulla base di teorizzazioni precise, che
analizzano minutamente un aspetto particolare del mondo fisico e che mirano a fornirne spiegazioni
esaustive.
La fisica sperimentale seicentesca è rappresentata da due capitoli molto importanti: la pneumatica, a cui
si occupò principalmente nella prima metà del secolo, e l’ottica.
1- LA PNEUMATICA
Vi erano alcuni fenomeni noti da tempo ma che però non avevano assunto un ruolo significativo nella
scienza, come il fatto che l’acqua non esce da una bottiglia con il collo stretto quando la si rovescia,
oppure che le pompe aspiranti impiegate nelle miniere non riescono a far salire l’acqua al di sopra di
9m. La spiegazione di questi fenomeni veniva data tramite l’idea di una impossibilità del vuoto in
natura.
Il romano Berti costruì il primo barometro con un tubo lungo oltre 9m, chiuso in alto e riempito
d’acqua; liberando l’estremità inferiore, l’acqua scendeva ai soliti 9m circa.
Il romagnolo Torricelli (1608 - 1647) ebbe invece l’idea di mettere alla prova questa ipotesi impiegando
un liquido più pesante dell’acqua, che per il suo maggior peso, essendo immutata la pressione
atmosferica, avrebbe dovuto scendere più in basso. Costruì dunque nel 1644 un barometro a mercurio,
quattordici volte più denso dell’acqua. Secondo la previsione, la colonna di mercurio scese appunto fino
a un’altezza di circa 76cm. Il metodo sperimentale rivelò così tutta la sua forza.
La teoria di Torricelli per affermarsi pienamente aveva però bisogno di altri supporti: grande parte per
l’accoglimento della spiegazione ebbe il francese Pascal (1623 - 1662), che escogitò numerose
esperienze con liquidi diversi e differenti tubi barometrici, sia per confermare in vari modi l’idea di
Torricelli, sia per confutare le ipotesi alternative.
L’esperienza più celebre di Pascal fu quella che egli, malaticcio, fece compiere al cognato Périer, il quale
si arrampicò sul vulcano Puy-de-Dôme nel 1648 con un barometro, per dimostrare che, all’aumentare
dell’altitudine, il peso dell’aria sovrastante, cioè la pressione, deve diminuire.
Inoltre, egli si sforzò di dimostrare agli scettici l’esistenza del vuoto.
Dal punto di vista pratico, la creazione di spazi vuoti divenne possibile grazie all’invenzione della
pompa pneumatica. Ad essa dedicò molta attenzione l’inglese Boyle (1627 - 1691), che compì
numerosissime esperienze che evidenziarono l’elasticità dell’aria. Per Boyle l’aria è un fluido elastico
composto da particelle, che si espande quando si eliminano i vincoli esterni; a causa della sua elasticità,
l’aria esercita una pressione ed è questa pressione, e non solo il suo peso, a sostenere la colonna di
liquido in un barometro.
Secondo Boyle l’aria può essere compressa: esiste una relazione numerica precisa fra la pressione cui è
sottoposta una massa d’aria e il volume da essa occupato, relazione che diverrà a tutti nota come “legge
di Boyle”.
2- L’OTTICA
L’ottica moderna iniziò con il tedesco Kepler, che si interessò di problemi ottici in relazione
all’astronomia.
Prima di Keplero l’ottica partiva dallo studio di una piramide visiva il cui vertice era l’occhio e la cui
base era l’oggetto visivo; l’oggetto trasmetteva la propria immagine come un tutt’uno, emettendo in
continuazione dei “simulacri” che, viaggiando lungo le linee della piramide visiva e rimpicciolendosi, si
diceva penetrassero nell’occhio. Keplero rovesciò questo approccio: egli divide l’oggetto visibile in un
numero infinito di punti, ognuno dei quali è concepito come una sorgente di raggi luminosi che si
propagano lungo linee rette. La figura complessiva dell’oggetto è la somma dei raggi che sono emessi
dai punti-sorgente componenti l’oggetto stesso e che raggiungono l’occhio dell’osservatore. In questo
modo la piramide visiva è rovesciata e viene ad avere il vertice non più nell’occhio ma sull’oggetto.
Quando Cartesio, nella sua Dioptrique si occupò diffusamente di ottica, poté inglobare l’approccio
kepleriano.
Un gran merito dell’ottica di Cartesio fu quello di aver reso lo studio dei colori una parte dell’ottica.
Sino ad allora luce e colore erano ritenute due entità diverse: i colori erano considerati qualità reali dei
corpi, resi visibili dalla luce ma distinti da essa. Colori che comparivano in fenomeni come l’arcobaleno,
che non erano evidentemente appartenenti alla superficie di un qualche corpo, erano considerati colori
apparenti, distinti da quelli reali e attribuiti a modificazioni che la luce subisce passando attraverso un
mezzo non perfettamente trasparente.
Cartesio abolisce la distinzione fra colori reali e colori apparenti, e li interpreta in generale come
sensazioni causate dalla rotazione delle piccolissime sfere che formano la materia; le diverse velocità di
rotazione determinano le diverse sensazioni colorate.
L’approccio all’ottica di Cartesio era teorico e poco rivolto alla sperimentazione. Chi riuscì a portare il
problema dei colori nell’ambito della sperimentazione fu Newton.
Newton propose una concezione differente da quella cartesiana: i mezzi trasparenti non modificano i
raggi luminosi, ma si limitano a separare i vari raggi colorati. La luce bianca è in realtà un miscuglio di
raggi di vari colori che vengono separati l’uno dall’altro passando attraverso mezzi trasparenti diversi
dall’aria.
Per dimostrare la sua ipotesi Newton compì alcune esperienze con dei prismi di vetro: un sottile raggio
di luce solare attraversava un prisma e lo spettro colorato prodotto veniva messo in evidenza su uno
schermo sufficientemente lontano da permettere la separazione dei raggi. Questo esperimento però non
escludeva l’ipotesi che il prisma, anziché limitarsi a separare i raggi preesistenti, li modificasse, facendo
loro assumere anche direzioni differenti. Per eliminare ogni ambiguità Newton realizzò un secondo
esperimento: subito dietro al prisma pose uno schermo forato che lasciava passare un solo raggio.
Dietro allo schermo forato pose un secondo schermo forato, in modo che esso fosse attraversato dal
raggio uscente dal primo schermo. Questo raggio alla fine colpiva un secondo prisma che lo rifrangeva.
Newton poté accertare che ogni colore veniva rifratto dal secondo prisma esattamente dello stesso
angolo con cui era stato rifratto dal primo prisma. I due prismi intervenivano su ogni raggio allo stesso
modo, sia che il raggio fosse isolato, sia che fosse mescolato ad altri. Per Newton questo era un vero e
proprio esperimento cruciale che dimostrava, contro la millenaria convinzione che la luce bianca sia una
entità semplice e primitiva, che essa è in realtà un miscuglio di raggi di differenti colori.
Newton si occupò a fondo anche di altri aspetti del mondo dei colori, studiando ad esempio le
apparenze colorate che si manifestano nelle cosiddette lamine sottili, come le bolle di sapone o gli strati
d’olio distesi sull’acqua. Newton scoprì che, illuminando con luce monocromatica una pellicola di
spessore variabile (ad esempio quella formata dall’aria compresa tra un vetro piano e una lente premuta
contro di esso) compaiono anelli colorati alternati ad anelli scuri, detti “anelli di Newton”, il cui
diametro è legato matematicamente allo spessore della pellicola nel punto corrispondente all’anello.
Questo era un nuovo metodo per misurare con precisione gli spessori di lamine sottili.
Gli anelli di Newton, con la loro precisa alternanza di zone luminose e zone scure, cioè alternanza di
zone in cui la luce viene trasmessa e altre in cui viene riflessa, mettevano in evidenza la presenza di una
qualche periodicità nei fenomeni luminosi. Newton spiegava tale periodicità concependo il substrato
fisico della luce come un insieme di minuscoli corpuscoli che si muovono di moto inerziale rettilineo a
velocità elevatissima. Fu così che durante gli anni settanta Newton elaborò una complessa teoria nella
quale interveniva l’idea di un etere che riempie tutto lo spazio, entro il quale si muovono i corpuscoli
luminosi; questo etere è soggetto a vibrazioni periodiche che ne fanno cambiare la densità in modo
ondulatorio. Le variazioni periodiche dell’etere servono a spiegare la periodicità degli anelli di Newton.
Si avrà un’alternanza di luce e di buio in corrispondenza dell’alternanza della densità dell’etere.
Il carattere periodico presente nei fenomeni luminosi, evidenziato dagli anelli di Newton, poteva
trovare facili spiegazioni anche ammettendo che la luce, anziché consistere di corpuscoli, sia composta
da onde. L’ipotesi ondulatoria ebbe una precisa formulazione solo nel 1690 con l’olandese Huygens
(1629 - 1695).
La maggiore difficoltà della teoria ondulatoria consisteva nello spiegare come, partendo da un’onda, si
possa giungere a parlare di percorso rettilineo di un raggio luminoso. Huygens la superò con il concetto
di “fronte d’onda”. Egli suppose l’esistenza di un etere corpuscolare nel quale si propaga un’onda di
disturbo causata dal moto delle particelle di un corpo luminoso; ogni particella d’etere, disturbata,
diventa a sua volta il centro di una minuscola onda. Solo quando molte onde si uniscono per rafforzarsi
a vicenda il moto diviene abbastanza intenso da farsi percepire. Il fronte d’onda è il luogo dove avviene
questa sommatoria di piccole onde. Esso si forma soltanto lungo linee rette che partono dalla sorgente
luminosa, ed è per questo che la luce percepibile appare propagarsi in modo rettilineo.
La chimica
Mentre la chimica precedente si limitava a catalogare le reazioni e i metodi di preparazione dei prodotti
chimici, l’approccio meccanicista seicentesco si propose di inserire i fatti in un corpo teorico, e questo
fu una spinta decisiva per la sua affermazione.
Significativa è l’opera del maggior chimico francese del secolo, Lemery, con il Cours de chimie. Lemery
svolge una costante polemica contro le spiegazioni solo apparenti della tradizione chimica: la natura di
una cosa per lui non può essere spiegata in modo migliore che attribuendo alle sue parti forme tali da
corrispondere agli effetti che produce.
I fenomeni chimici venivano tutti spiegati ricorrendo ai semplicissimi principi di “materia” e
“movimento”. È evidente comunque che spiegazioni di questo genere non offrivano alcuna teoria
chimica né alcune indicazioni specificatamente chimiche, ma servivano unicamente a mettere d’accordo
la chimica con la filosofia meccanicista divenuta dominante al tempo.
Il più importante chimico del secolo fu Boyle. Il tema centrale di tutta la sua opera, esposto nello
Sceptical Chymist, è rappresentato dalla convinzione che la materia consista di una moltitudine di
corpuscoli piccoli e uniformi, che si uniscono a formare particelle più grandi, che a loro volta
costituiscono i corpi trattati dalla chimica. Il fine di Boyle era quello di dimostrare che la chimica
conferma la validità della concezione meccanicista della natura.
Boyle sottopose a critica serrata la teoria chimica tradizionale, in particolare la concezione di
“principio” o “elemento”, che sosteneva che l’analisi chimica separa i corpi misti nei principi. Per la
filosofia meccanicista era inammissibile l’idea di principi qualitativamente distinti, e Boyle si sforzò di
dimostrare che corpi differenti producono sostanze differenti e che la medesima sostanza può essere
divisa in componenti diverse.
Per compiere questa ricerca Boyle diede enorme impulso alle prove di identificazione delle varie
sostanze. L’impiego delle prove di identificazione chimica si basava su un’idea nuova e importante,
quella secondo cui le sostanze esistenti hanno caratteristiche ben definite, evidenziabili da prove
chimiche. Per i chimici di inizio secolo, al contrario, non esisteva un numero di composti ben definibile
e riconoscibile. L’impiego che fa Boyle delle prove di identificazione implica l’esistenza di un numero
preciso di sostanze identificate e identificabili mediante una precisa serie di prove. Boyle non poté
enunciare esplicitamente questa idea poiché la sua concezione meccanicista di materia, formata in
ultima analisi di corpuscoli uniformi, lo spingeva a credere che si potesse produrre ogni cosa da
qualunque altra cosa. La sua pratica chimica risultò dunque ostacolata dalla sua filosofia meccanicista.
Gli scritti di Boyle ebbero grande influenza anche su Newton. Anche in Newton gli studi chimici erano
strettamente associati a una concezione meccanicista della natura, che si caratterizzava per
l’ammissione, accanto ai principi di materia e di movimento, di un terzo principio, quello di “forza”.
Newton vedeva nei fenomeni chimici la prova dell’esistenza di forze attrattive e repulsive esercitate
reciprocamente dalle particelle materiali.
Newton non si occupò di ampie classi di sostanze, ma di prodotti chimici specifici e di reazioni
altrettanto specifiche. Egli era convinto che le particelle di ogni sostanza avessero attrazioni e repulsioni
con altre particelle, che esistessero cioè delle affinità tra le varie sostanze.
La conoscenza del vivente
In campo biologico il Seicento fu caratterizzato da un aumento enorme di dati osservativi, di
informazioni legate all’uso di nuovi strumenti come il microscopio, di attività di ricerca.
Si possono individuare vari campi di studio.
1- LA BOTANICA
Negli erbari dei secoli precedenti le piante erano organizzate secondo la loro utilità per l’uomo
(purgative, velenose, sonnifere, ecc.), ma nel Seicento ci si rese conto che questo era un criterio troppo
ristretto. Vennero così elaborati schemi di classificazione che tenevano conto di un solo carattere delle
piante e cominciò a farsi strada l’idea della ricerca di una classificazione naturale che mettesse in luce un
ordinamento dei viventi oggettivo.
Si ampliò enormemente il numero delle piante studiate: se all’inizio del secolo negli erbari si
descrivevano circa 6.000 specie, la Historia plantarum generalis di fine secolo del britannico Ray (1627 -
1705) ne riportava più di 18.000. Ray fu uno dei maggiori botanici del secolo e a lui si deve la
fondamentale distinzione tra piante che germinano con una sola foglia e piante che germinano con due
foglie.
Con Ray va ricordato anche il francese De Tournefort, il quale divise tutte le piante in ventidue classi, a
loro volta divise in famiglie e queste in generi.
2- LA ZOOLOGIA
La classificazione degli animali compì progressi minori di quelli della botanica. Notevole anche in
campo zoologico fu il contributo di Ray, che nella Synopsis methodica animalium presentò una
classificazione nella quale per la prima volta si tentava di distinguere i gruppi animali sulla base dei
caratteri anatomici più importanti, come le zampe e i denti.
In tutti i naturalisti era presente la convinzione che le specie non sono soggette ad alcuna evoluzione.
Ray affermò in proposito: «Il numero delle specie esistenti in natura è fisso e limitato, ed è ragionevole
credere che sia anche costante, cioè che non sia cambiato dal giorno della creazione ad oggi».
3- L’ANATOMIA
- La circolazione del sangue
La scoperta anatomica più significativa del secolo fu la scoperta della circolazione del sangue.
Nella fisiologia galenica il sangue non circola; esso è continuamente prodotto dal fegato e consumato
nelle varie parti del corpo. Sistema venoso e sistema arterioso sono considerati due sistemi di vasi
separati.
La rivoluzione avvenne ad opera dell’inglese Harvey (1578 - 1657), che espose la sua teoria del
movimento del sangue nel volume De motu cordis.
Harvey comincia con l’analisi dei movimenti e dei caratteri del cuore: stabilisce che esso è un muscolo e
che la sua funzione consiste nell’espellere il sangue.
Con un gran numero di prove anatomiche compiute su un’ampia varietà di animali, Harvey passa poi ad
analizzare le modalità di svolgimento della circolazione polmonare: prese in considerazione le
dimensioni del ventricolo, il volume di fluido che esso espelle ad ogni contrazione e il ritmo delle
pulsazioni, Harvey calcola che la quantità di sangue inviata dal cuore nelle arterie in mezz’ora è
maggiore della quantità di sangue contenuta in tutto il corpo e che, in un giorno, il cuore espelle una
massa di sangue superiore a quella dell’intero corpo. Questi dati sono clamorosamente incompatibili
con il fondamento della fisiologia galenica. Conclusione: considerando gli effetti prodotti da opportune
legature che occludono le vene e le arterie, Harvey prova che in questi vasi il sangue si muove
rispettivamente dalla periferia al centro e dal centro alla periferia, e che il sangue passa dal sistema
arterioso a quello venoso con comunicazioni piccolissime. L’esistenza di vasi capillari sarà confermata
sperimentalmente in seguito.
Nonostante il suo trattato abbondi di analogie meccaniche con il sangue paragonato all’acqua e il cuore
a una pompa, l’approccio complessivo di Harvey non era meccanicista. Harvey fu molto influenzato
dall’aristotelismo: in Aristotele egli vide un autorevolissimo sostenitore della dottrina della supremazia
del cuore, da opporre al galenico primato del fegato. Il cuore, in particolare, è paragonato al Sole, è il re
e l’ordinatore del microcosmo; il sangue è considerato una sostanza spirituale, in altre parole qualcosa di
analogo al cielo. Con la circolazione, il sangue ripete nel microcosmo il ciclo cosmico di generazione e
corruzione.
Cartesio reinterpretò Harvey in termini puramente meccanicisti, assimilando la struttura e la funzione
del cuore a quelli di una macchina e il sangue a un fluido analogo all’acqua.
Questa sua interpretazione influenzò notevolmente gli studi biologici nel corso del Seicento e diede
origine a una scuola di biologia meccanicista nota come “iatromeccanica”. Il suo più prestigioso
esponente fu Borelli, che applicò sistematicamente i principi delle macchine semplici allo studio di
diversi movimenti dell’uomo, di uccelli e di pesci.
Gli iatromeccanici non si limitarono allo studio del movimento, ma calcolarono anche la velocità di
scorrimento del sangue e la resistenza che esso incontra nei diversi vasi; interpretarono il calore animale
con la frizione del sangue lungo le pareti dei vasi; elaborarono una teoria delle secrezioni basata sulla
velocità di circolazione dei fluidi in un intricato sistema di tubi e conclusero che la salute è data dai moti
regolari dei fluidi e che le malattie sono il prodotto di un’alterazione di tali moti.
La fisiologia iatromeccanica si rivelò sterile e nel corso del Settecento fu abbandonata.
- La respirazione umana
Una continuità di progressi si verificò nello studio della respirazione umana in qualità di fenomeno
chimico simile alla combustione. Vari studi chiarirono che durante la respirazione avviene nei polmoni
una reazione chimica che serve a rivitalizzare il sangue. Rimaneva oscuro quale fosse l’impoverimento
subito dal sangue durante la circolazione e dunque di quale sostanza esso si dovesse arricchire durante
la respirazione.
Un passo avanti nel chiarimento di questo problema fu compiuto dall’inglese Mayow (1645 - 1679), che
realizzò un esperimento nel corso del quale venivano rinchiusi in un vaso rovesciato sopra dell’acqua
alternativamente un topo e una candela accesa. Mayow osservò che l’acqua saliva fino a riempire la
quattordicesima parte del volume d’aria prima che la candela si spegnesse o il topo morisse. Questo
esperimento dimostrò che durante la respirazione e durante la combustione veniva utilizzata solo una
frazione dell’aria.
- La generazione dei viventi
Il capitolo forse più discusso della biologia nel corso del secolo fu il problema della generazione dei
viventi. Harvey fu uno dei protagonisti anche in questo campo. Nel De generatione animalium egli
presentò una concezione unitaria della generazione della vita animale, secondo la quale ogni forma
vivente nasce da un uovo: l’uovo era per lui il sacco amniotico per i grandi mammiferi ma anche il
bozzolo da cui esce la farfalla; esso non era il prodotto di un’ovaia femminile ma un punto omogeneo
di materia che un principio formativo innato modella e trasforma in un individuo articolato.
Il seme maschile per Harvey non svolge alcun ruolo materiale: esso fornisce solo uno stimolo all’uovo
addormentato che, risvegliato, si modifica sotto la direzione del principio innato in lui presente. Per
definire questo processo di formazione, Harvey coniò il termie di “epigenesi”.
Il francese Gassendi, o Gassend (1592 - 1655), reinterpretò l’epigenesi in termini meccanici: per
Gassend il seme, sia quello degli animali che quello delle piante, non è materia omogenea, ma contiene
le particelle di tutti gli organi del futuro individuo. La direzione del processo generativo è affidata al
concetto di “attrazione del simile per il simile”: in un seme le particelle simili si riuniscono e attirano
altre particelle simili. Secondo questa dottrina il risultato finale della generazione, ovvero l’individuo, è
già in qualche misura presente nel seme, è già preformato, e da qui la teoria del “preformismo”.
La teoria di Gassendi fu sviluppata su basi sperimentali dal massimo studioso di embriologia del
periodo, il romano Malpighi, che introdusse l’uso del microscopio in embriologia studiando lo sviluppo
del pulcino: steso un uovo appena aperto su un vetro, Malpighi distinse la regione cefalica e la spina
dorsale dopo solo sei ore; i profili delle vertebre comparvero dopo dodici ore; il secondo giorno vide il
cuore che batteva, la testa e l’embrione degli occhi.
Le evidenze parvero a Malpighi schiaccianti: il pulcino è presente nell’uovo fin dall’inizio come
preformato. Occorre comunque ammettere che nel pulcino preformato dentro un uovo ci sono anche
uova preformate e che dentro queste ci sono pulcini preformati, e così via all’infinito. Si affermò così la
teoria dell’”inscatolamento” o dell’”emboitement”, la quale, applicata all’uomo, portò necessariamente a
sostenere che nelle uova di Eva esistevano preformati tutti gli individui della razza umana.
Il cosiddetto “ovismo”, teoria secondo la quale tutti gli organismi derivano da un uovo, durò pochi
anni, precisamente fino al 1677, quando l’olandese Leeuwenhoek osservò per la prima volta gli
spermatozoi. Il seme maschile soppiantò così rapidamente l’uovo femminile (teoria
dell’”animalculismo”).
- La generazione spontanea
Rimaneva ancora una possibile minaccia quella rappresentata dalla generazione spontanea di alcune
forme di vita, come vermi e mosche, dalla materia inerte, non da altri organismi. Questa minaccia fu
scongiurata dal toscano Redi, il quale nel 1688 mostrò che, protetto dal contatto delle mosche, un
pezzo di carne si putrefaceva senza produrre larve, mentre le larve brulicavano in altri pezzi di carne
non protetti, cosa che dimostrava efficacemente che le larve nascono dalle mosche, non per
generazione spontanea. CAPITOLO VI
LA MECCANICA, SCIENZA REGINA
La meccanica prima di Newton
1- GALILEO E CARTESIO
Negli studi di meccanica di Galileo e di Cartesio, la meccanica è sostanzialmente ridotta a cinematica,
essendo escluso il concetto di forza esterna ad un corpo. La cinematica, infatti, è quel ramo della fisica
che si occupa di descrivere quantitativamente il moto dei corpi, senza porsi il problema di prevedere il
moto futuro a partire da grandezze note, mentre la dinamica studia le forze che provocano il
movimento.
In particolare, Galileo parla di “forza della percossa”, intendendo con ciò la proprietà che risiede in un
corpo in movimento, dovuta alla sua velocità. Cartesio da parte sua ammette come unica interazione tra
corpi l’urto, e, quando parla di “forza”, anche lui non la intende come agente esterno al corpo ma come
proprietà che il corpo possiede in quanto è in movimento.
2- TORRICELLI
Torricelli, allievo di Galileo, fu il primo ad applicare una serie di considerazioni dinamiche alla
cinematica. Egli, in particolare, per spiegare che cosa conferisce a un corpo in caduta la capacità di
spezzare ad esempio un tavolo che lo sopporta perfettamente quando esso è fermo, assimila la gravità
del corpo a una fontana, sorgente continua di impulso che, istante dopo istante, durante la caduta,
conferisce al corpo una velocità crescente, quindi una “forza”.
Torricelli considera dunque la gravità come una forza esterna al corpo, che produce il suo movimento
di caduta accelerato, e riconosce che vi deve essere proporzionalità tra forza e accelerazione.
Egli enunciò così in termini generali il secondo principio della dinamica:
F (uniforme) • ∆t = ∆m (quantità di moto) • v
3- HUYGENS
L’olandese Huygens, riguardo l’urto, afferma che in un sistema di due o più corpi che si urtano, il
centro di gravità del sistema si muove sempre di moto rettilineo uniforme.
Nella trattazione delle leggi dell’urto compiuta nel De motu corporum ex percussione, Huygens si mantiene
entro un ambito cinematico senza far intervenire la nozione di forza esterna ad un corpo.
La forza è sempre una proprietà del moto, espressa da: 2
m (quantità di moto) • v
Huygens si accorse tuttavia che, prendendo come misura della forza la quantità di moto e
considerandola come una quantità scalare, cioè indipendente dalla direzione della velocità, non vale in
generale il principio di conservazione della quantità di moto su cui Cartesio aveva edificato la propria
meccanica. Egli notò però che nell’urto di corpi perfettamente duri esiste un’altra quantità che rimane
costante, ed è la somma dei prodotti delle masse dei corpi per le loro rispettive velocità elevate al
quadrato.
Oltre a risolvere il problema degli urti, Huygens affrontò anche la questione del moto circolare. Già
Cartesio aveva evidenziato la tendenza dei corpi durante il moto circolare a sfuggire verso l’esterno.
Huygens coniò per questa tendenza il nome di “forza centrifuga”.
Contrariamente a quanto aveva fatto trattando degli urti, nello studio del moto circolare Huygens non
esita a impiegare il concetto di forza agente su un corpo, in quanto ritiene che la forza centrifuga sia
analoga al peso statico: così come attaccando un peso a una corda noi sentiamo il peso tendere verso il
basso, allo stesso modo ruotando una fionda sentiamo la corda tendere verso l’esterno. Huygens non
considera la forza centrifuga come una forza che agisce sul corpo, ma come una tendenza che il corpo
possiede in una determinata situazione.
L’analisi geometrica del moto circolare condusse Huygens a determinare un’espressione quantitativa per
la forza centrifuga: 2
F = mv /r
Huygens ottenne anche altri brillanti risultati meccanici, come il calcolo del periodo del pendolo
cicloidale, che gli consentì di progettare il primo orologio di precisione del mondo occidentale.
4- LEIBNIZ
L’allievo più brillante di Huygens fu il tedesco Leibniz. Come già aveva fatto il maestro, Leibniz portò
lo scompiglio nelle file dei cartesiani. Nel 1686 egli pubblicò la Brevis demonstratio erroris memorabilis
Cartesii, nella quale sosteneva la tesi che la quantità di moto non può essere considerata la misura della
forza posseduta da un corpo in movimento.
Leibniz chiama le forze statiche “forze morte”, che sono l’inizio o la fine di una tendenza al moto; e
“forze vive” le forze dei corpi in movimento.
Per evidenziare questa nuova meccanica incentrata sul concetto di forza, Leibniz coniò il termine di
“dinamica”: la forza viva leibniziana corrisponde alla moderna “energia cinetica”; essa non è una forza
esterna al corpo che agisce su di esso, ma una proprietà che il corpo possiede in quanto è in
movimento.
Al di là delle parole, Leibniz rimaneva molto vicino al concetto di forza cartesiano. La decisa rottura di
questa tradizione avvenne con Newton.
La meccanica di Newton
Con la sua opera Newton riuscì a comporre una sintesi di due tradizioni scientifiche che erano
compresenti ma non armonizzate nel Seicento: da una parte la tradizione che cercava nella scienza
l’espressione esatta matematizzata nei fenomeni, che aveva in Keplero e Galileo i suoi esponenti più
prestigiosi, e dall’altra parte la corrente cartesiana con alle spalle l’aristotelismo, che ricercava
spiegazioni sistematiche dei fenomeni. Per conseguire questo risultato di enorme valore, Newton
dovette arricchire del meccanicismo tanto la filosofia della natura, quanto il linguaggio matematico,
elaborando il calcolo infinitesimale.
- L’idea di etere
Nella prima parte della sua attività Newton espose una filosofia della natura basata sul concetto di etere
composto da particelle minuscole e priva del concetto di forza.
Le spiegazioni eteree non soddisfacevano Newton che le lasciò cadere per giungere alla prima edizione
latina dell’Opticks del 1706 con spiegazioni fondate su forze attrattive e repulsive agenti tra corpi a
distanza, e non solo tra corpi macroscopici ma anche tra ipotetiche particelle che compongono tali
corpi. Per Newton le forze sono la fonte di attività del mondo, sono “principi attivi” la cui causa diretta
è Dio; esse sono la manifestazione dell’intervento della divinità nella natura. La più celebre delle forze a
distanza è naturalmente la forza gravitazionale, forza attrattiva che Newton pose a fondamento della
propria fisica astronomica, la quale agisce tra qualsiasi coppia di corpi. L’introduzione di forze agenti a
distanza veniva ad aggiungere alla meccanica una modalità di interazione tra i corpi ovviamente
differente dall’urto.
- Il moto circolare
Negli anni sessanta Newton studiò il moto circolare, partendo dall’ipotesi che il corpo in moto urtasse
un numero n di corpi identici che lo obbligavano a deviare costantemente dal proprio moto rettilineo
inerziale, costringendolo a muoversi lungo un poligono che, per n che diventa infinito, si approssima a
un cerchio. L’analisi del moto gli permise di trovare un’espressione per la forza centrifuga agente sulla
Luna per effetto del suo moto rotatorio attorno alla Terra equivalente a quella di Huygens, ma che
questi non aveva ancora pubblicato.
Supposte le orbite planetarie circolari, Newton ricavò facilmente che le forze centrifughe agenti sui
pianeti sono inversamente proporzionali al quadrato delle loro distanze dal Sole. Questo risultato aveva
un’importanza enorme, in quanto significava che un’unica forza attrattiva, posta nel Sole, di intensità
decrescente con il quadrato delle distanze, era sufficiente a mantenere i pianeti nelle loro orbite
circolari, controbilanciando le varie forze centrifughe. Anche la Luna, come i pianeti, poteva
approssimativamente venire mantenuta nella propria orbita circolare da una forza attrattiva decrescente
con il quadrato della distanza, questa volta incentrata sulla Terra.
- Che cosa fa muovere i pianeti lungo le loro orbite?
Nel 1666 il napoletano Borelli, nelle Theoricae mediceorum planetarum, avanzò l’idea che i pianeti siano
mossi da una forza che nasce dal Sole, effetto di raggi luminosi. Un anno dopo anche l’inglese Hooke
presentò alcune ipotesi per la spiegazione del “sistema del mondo”, la prima delle quali sosteneva che
tutti i corpi celesti possiedono un’attrazione, o potere gravitazionale, grazie alla quale attraggono tutte le
loro parti e tutti gli altri corpi che sono presenti nella loro sfera d’azione. Si trattava della prima
enunciazione della gravitazione universale, ma Hooke non fu mai in grado di elaborare
matematicamente questa idea. Anche lui comunque, come Newton ed altri cultori precedenti, vide con
chiarezza che nello studio del moto circolare assume grande importanza la forza attrattiva diretta verso
il centro, che controbilancia la forza centrifuga.
Newton riuscì a dimostrare che quando un corpo ruota seguendo un’orbita ellittica intorno ad un
centro di attrazione situato in un fuoco, la forza di attrazione deve variare inversamente al quadrato
della distanza dal fuoco. Nel 1684 l’inglese Halley gli pose l’annoso problema circa l’orbita che avrebbe
percorso un corpo soggetto a una forza attrattiva variabile. Newton rispose che l’orbita sarebbe stata
ellittica, ma non riuscì a ritrovare i calcoli. Promise così ad Halley una nuova dimostrazione e mantenne
la promessa in un intero trattato sul moto, pubblicato nel 1687 con il titolo Philosophiae naturalis principia
mathematica, il libro più importante della storia della scienza.
Esso è diviso in tre libri:
I- è uno scritto di meccanica che tratta dell’applicazione delle leggi del moto ai punti materiali,
particolarmente a quelli che ruotano intorno a centri attrattivi. Per designare la forza attrattiva, viene
introdotto il termine di “forza centripeta”. Qui la meccanica seicentesca è elevata al suo massimo livello
di perfezione, in quanto fondata appunto sulle tre leggi del moto: la prima legge è il principio d’inerzia
derivante da Galileo e da Cartesio; la seconda legge segna l’ingresso in meccanica del concetto di forza
esterna ad un corpo, del quale vengono distinti massa e peso; la terza legge è il principio di azione e
reazione proprio di Newton.
II- si occupa di corpi che sono in moto in mezzo a fluidi resistenti e dei movimenti di questi stessi
fluidi. L’obiettivo principale di questo secondo libro è l’analisi dei vortici cartesiani: Newton dimostra
che nessun sistema planetario mosso da un vortice può muoversi e che un vortice non può mantenersi
in moto autonomamente ma che persiste solo se una forza esterna lo fa ruotare.
III- qui Newton applica la teoria dinamica al sistema solare. Suo scopo è quello di dimostrare che tutte
le forze che mantengono in orbita i pianeti attorno al Sole e i satelliti attorno a Giove e alla Terra sono
identiche; non solo, ma sono identiche anche alla forza di gravità terrestre.
Alla fine del suo trattato Newton riuscì finalmente ad enunciare la legge della gravitazione universale,
impiegata soprattutto per spiegare vari fenomeni complessi, come le maree, le anomalie del moto
lunare, la precessione degli equinozi e l’orbita delle comete. Essa afferma che «due corpi si attraggono
con una forza di intensità direttamente proporzionale al prodotto delle loro masse ed inversamente
proporzionale al quadrato della distanza che li separa, e tale forza ha la direzione parallela alla retta
congiungente i baricentri dei corpi considerati». In formula: 3
F (r) = [(Gm m ) / r ] • r
2,1 1 2
dove F è la forza con cui l’oggetto 1 è attratto dall’oggetto 2, G è la costante di gravitazione
2,1
universale, m e m sono le masse dei due corpi, r è la distanza del corpo dal centro della Terra e r = r –
1 2 1
r dove gli indici si riferiscono alle due masse.
2
- Scienza e religione
Newton aveva sempre considerato l’universo meccanicista un argomento contro l’ateismo. Il suo dio
non era quello cristiano né quello di qualche altra religione, ma era un dio della scienza, dio della legge e
costruttore intelligentissimo e perfettissimo della meccanica del mondo.
Newton riteneva che concetti puramente scientifici, ovvero quelli di tempo e di spazio, rinviassero in
maniera precisa alla divinità: egli distingue nettamente fra le quantità spazio-temporali misurate, che
sono relative e basate sul confronto fra corpi, e le quantità assolute, che sono le quantità vere.
In un universo in cui sono concepibili soltanto moti relativi, nessuno, neppure Dio, può stabilire quali
corpi siano in movimento e quali in quiete. Questo appariva un limite inaccettabile imposto a Dio, una
bestemmia per Newton. A suo parere, Dio doveva avere la possibilità di sapere se è il Sole a girare
attorno alla Terra o viceversa. Questo bisogno metafisico trovava fortunatamente soddisfazione in un
argomento fisico: la forze d’inerzia.
Le forze inerziali, in primo luogo la forza centrifuga, sono la manifestazione sensibile dell’azione dello
spazio assoluto sui corpi, sono le prove della sua esistenza che consentono di stabilire che cosa è fermo
e cosa si muove. I pianeti del sistema solare posseggono una forza d’inerzia, altrimenti cadrebbero sul
Sole; dunque bisogna riconoscere che i moti planetari sono assoluti, mentre il Sole e le stelle sono fissi.
PARTE VI
IL SETTECENTO:
TRIONFO DEL NEWTONIANESIMO
Rispetto al secolo che lo ha preceduto, il Settecento si presenta meno movimentato e meno ricco di
novità. Per lungo tempo la storiografia lo ha ritenuto un secolo poco interessante dal punto di vista
della scienza, vedendo tutto questo periodo come una fase di lineare espansione del grande lascito
intellettuale newtoniano.
Il centro dell’attività scientifica si spostò durante il XVIII secolo dall’Inghilterra, dove operò Newton,
alla Francia: in Inghilterra non vi fu alcun potenziamento delle istituzioni interessate alla scienza; la
scienza inglese venne istituzionalizzata, trasformandosi in attività di ricerca delle verità naturali, svolta
da curiosi dilettanti o curiosi insegnanti. In Francia, invece, la Corona diede un forte sostegno alla
Académie, offrendo ai migliori ingegni l’occasione di elevarsi in una posizione di prestigio ed
economicamente vantaggiosa. Il movimento illuminista fece della scienza l’asse portante del proprio
programma di trasformazione della cultura e della società: l’Illuminismo fu visto come un tentativo di
estendere il modello metodologico newtoniano dalla fisica alla natura, all’uomo e alla società.
CAPITOLO I
LA COMPLESSITA’ DEL PENSIERO NEWTONIANO
L’importanza dell’opera di Newton fu talmente grande che per quasi due secoli la scienza e la filosofia
europee si sono evolute assumendo il pensiero del grande inglese come punto di riferimento
privilegiato.
I multiformi aspetti della sua opera, però, non furono unificati in un unico schema, ma rimasero sospesi
in un sistema ambiguo. Già i due suoi maggiori lavori, i Principia e l’Opticks, affrontando ambiti di ricerca
giunti a ben differenti stadi di maturità, sembravano offrire insegnamenti opposti riguardo la natura di
una corretta spiegazione scientifica: nel primo testo è presentata una scienza deduttiva che si risolve
nella costruzione di rigorosi schemi matematici astratti, da interpretare poi fisicamente e da confrontare
con i fenomeni quantificati; nell’Opticks, invece, prevale la visione di una scienza non deduttiva
matematizzata in modo elementare, ricca di ipotesi filosofiche. Fu proprio questo secondo testo, che
poteva essere letto da tutti, ad essere il più diffuso ed influente nel Settecento.
In Newton questo duplice approccio alla ricerca era il riflesso dei differenti problemi che venivano
affrontati nei due testi: i Principia si occupano di astronomia e di meccanica, mentre l’Opticks si occupa,
oltreché di ottica, anche di elettricità, magnetismo, chimica, coesione, capillarità, fermentazione, dunque
problemi che non erano mai stati sottoposti ad uno studio sperimentale adeguato, né tantomeno
tradotti in linguaggio matematico.
Il privilegiare l’uno o l’altro aspetto dell’opera di Newton portava con sé differenti atteggiamenti
riguardo importanti aspetti della metodologia, in primo luogo quello della funzione della matematica:
nei Principia la matematica è strumento ordinatore dell’esperienza, che procede nelle sue dimostrazioni
in modo indipendente da considerazioni fisiche e che solo alla fine si confronta con l’esperienza;
nell’Opticks, invece, la matematica compare (quando compare!) con funzioni sussidiarie all’esperienza e
alle considerazioni fisiche, e l’ordine della natura è dettato o comunque suggerito dall’esperienza.
Anche la funzione dei modelli risultava soggetta a valutazioni contrapposte: il modello è lo strumento
che permette di applicare la teoria alla comprensione dell’esperienza. La teoria fissa le regole di
comportamento comuni a vari mondi possibili, mentre il modello specifica i caratteri di uno di questi
mondi possibili e permette di ricavare dalla teoria dichiarazioni controllabili sperimentalmente.
Entrambi, modello e teoria, sono poi ben distinti dalla realtà. Ma, mentre nella costruzione della teoria
si devono rispettare alcuni “vincoli esterni”, come le regole della matematica, nella costruzione del
modello si è completamente liberi.
Questa concezione complessa dei rapporti fra teoria, modello ed esperienza era possibile nei Principia in
quanto qui Newton aveva a disposizione un corpo di teorie (la dinamica e l’astronomia) già maturo,
largamente matematizzato e ben fondato, su cui lavorare. Tutt’altra era invece la situazione quando si
trattava di affrontare i problemi oggetto dell’Opticks, quali potevano essere i fenomeni elettrici o
magnetici: qui teoria e modello venivano a confondersi e a identificarsi. Il modello non faceva più da
tramite tra una teoria (che non esisteva!) e la realtà, ma era esso stesso applicato direttamente
all’ordinamento dell’esperienza.
Dal punto di vista della teoria, poi, la fisica di Newton conteneva una serie di dualismi non risolti:
I- continuo vs discontinuo, azione a distanza vs azione per contatto: è il dualismo più famoso. Nel corso della sua
produzione, Newton assunse posizioni differenti sul problema, considerando spiegazioni tramite fluidi
eterei in gioventù, cercando di eliminare la questione in quanto non scientifica nelle prime edizioni dei
Principia e dell’Opticks, reintroducendo poi nuovamente considerazioni fluidistiche nei suoi ultimi lavori.
A complicare ancor più il problema, l’etere newtoniano, che a prima vista sembrava fondare una fisica
del continuo, poteva anche essere interpretato come un fluido discontinuo, composto da particelle
piccolissime, capaci di esercitare forze molto intense.
II- materia vs forza: nei Principia i corpi materiali sono considerati puntiformi, dei centri di forza. Il
problema della struttura della materia e dei suoi rapporti con la forza è affrontato nell’Opticks: qui
Newton, partendo da esperienze sulle proprietà ottiche delle pellicole sottili, arrivò a sostenere l’estrema
piccolezza delle particelle materiali. Da queste affermazioni partiranno vari newtoniani per sostenere la
“teoria del guscio di noce”, secondo la quale tutte le particelle presenti nell’universo potrebbero essere
ammassate in un piccolo guscio di noce. Da qui a far completamente scomparire tutta la materia e fare
della forza il concetto fondamentale della fisica approdando a una concezione puramente dinamista
della realtà il passo è breve.
III- quantità vs qualità: la materia è concepita da Newton inerzialmente omogenea, qualitativamente
indifferenziata, quantitativamente differenziabile. Tuttavia, il postulato della omogeneità inerziale della
materia fu esplicitamente contraddetto da Newton quando questi postulò, nella seconda edizione
dell’Opticks, due tipi di particelle non trasmutabili l’una nell’altra: le particelle pesanti e le particelle
eteree responsabili della gravità; queste ultime, a differenza di quelle pesanti, esercitano forze che sono
inversamente proporzionali alle loro dimensioni, ed è dubbio se debbano essere considerate dotate di
inerzia. L’etere diede dunque avvio al processo di introduzione di un tipo di materia qualitativamente
differente e aprì la via ai successivi fluidi portatori di qualità specifiche.
IV- scienza vs metafisica vs religione: Newton si era pubblicamente raccomandato di non mescolarle. In
realtà gli scritti inediti e i carteggi hanno rivelato un Newton che elabora la propria fisica in polemica
con la metafisica cartesiana, fortemente interessato allo studio della teologia e all’uso encomiastico delle
proprie scoperte. Alcuni critici recenti sono arrivati addirittura a sostenere che il metodo dei “Principia”
non è altro che la trasposizione sul piano scientifico del metodo seguito da Newton nei suoi studi
interpretativi del libro dell’Apocalisse.
Newton, inoltre, stimolava e aiutava teologi di professione a sistemare le grandi acquisizioni teoriche dei
Principia in una nuova apologetica cristiana e a formulare una fisica pia da contrapporre alla fisica empia
dei cartesiani.
Tanto la creazione quanto l’ordine del mondo venivano affrontati da Newton in modo matematico e
rinviavano quasi matematicamente a un Dio assai esperto in meccanica e geometria: egli sostenne che la
causa dei vari tipi di forze presenti in natura sta in certi principi attivi (l’etere è un esempio di principio
attivo), che a loro volta sono la manifestazione del potere spirituale di Dio nella realtà. Senza il costante
intervento di Dio il mondo non potrebbe mantenersi.
Nei primi anni del Settecento vi fu chi, come il filosofo irlandese Toland, sviluppò l’idea di moto come
essenziale alla materia e mirò così a spogliare la meccanica di Newton del suo sfondo metafisico per
togliere di mano agli apologeti un’arma decisiva. Sarà questa linea che prenderà il sopravvento nel corso
del secolo. CAPITOLO II
VARIANTI DEL NEWTONIANESIMO
La scienza inglese
I primi discepoli inglesi di Newton erano per la maggior parte pensatori di non grande valore
matematico o sperimentalisti puri, che o produssero lavori di fisica teorica ricalcata sull’Opticks o si
sforzarono di tradurre sperimentalmente quelle idee che Newton non era ancora riuscito ad agganciare
a una solida base sperimentale: si ha ad esempio il britannico Cheyne per la chimica e l’inglese di origini
francesi Desaguliers per le ricerche sulle forze elettriche, sulle forze magnetiche, sulla capillarità e
sull’attrito.
La figura più importante da ricordare è comunque l’inglese Hales. La sua Vegetable staticks raccoglie
moltissime esperienze importanti tanto per la fisiologia delle piante quanto per la chimica. Egli fu il
primo a mettere in rilievo le enormi quantità di aria che si può ottenere per distillazione distruttiva da
moltissime sostanze solide e liquide; studiando le proprietà dell’aria, Hales introdusse con decisione
nella scuola newtoniana le forze repulsive, concependo la natura come un dinamico equilibrio tra
attrazione e repulsione.
La visione newtoniana del mondo fondata sulla azione a distanza si trova nel celebre Course of
experimental philosophy di Desaguliers (1683-1744), il quale fu per molti anni il più famoso sperimentatore
e divulgatore newtoniano. Nelle sue mani il metodo newtoniano subì un profondo rimaneggiamento: la
via alla conoscenza del mondo non è più quella matematica, ma la via dell’esperimento. La matematica
non ha più funzioni ordinatrici, l’ordine del mondo è scoperto con la sperimentazione e la matematica
interviene a posteriori a precisare tale ordine.
La scienza olandese
Nel terzo decennio del Settecento la scienza olandese conobbe un periodo di grande splendore,
destinato però a oscurarsi rapidamente. Come in Desaguliers, conosciuto assai bene anche in Olanda,
nei maggiori scienziati di questo paese l’esperimento scopre l’ordine del mondo, la matematica è solo
uno strumento di precisazione di quell’ordine di cui si può persino fare a meno.
Rispetto agli inglesi, gli olandesi reintrodussero spiegazioni fluidistiche e l’idea di materia composta da
elementi qualitativamente differenti. Ciò fu in buona parte dovuto all’influenza della chimica tedesca di
Stahl, medico che, contro il programma newtoniano basato sulla omogeneità della materia, rivendicò un
ritorno alla chimica dei principi e all’idea di elementi chimici differenziati qualitativamente e portatori di
qualità specifiche.
Particolare fu la teoria di Stahl dei processi di combustione, calcinazione e respirazione: Stahl spiegava
questi fenomeni ipotizzando l’esistenza nei corpi combustibili di un principio di combustione detto
“flogisto”, il quale durante la combustione viene emesso dai corpi e assorbito dall’aria; quando l’aria è
satura di flogisto la combustione non si può mantenere.
La scienza francese
La teoria newtoniana fu conosciuta in Francia attraverso la mediazione dei fisici olandesi, ma già in
precedenza Newton era stato accolto qui come grande matematico e grande sperimentatore grazie a
Varignon e a Geoffroy e della sua lettura si fece banditore Volteire. Si pensi che l’Opticks fu tradotto in
francese già nel 1720.
Il dibattito sulla forma della Terra cominciò nel 1732 con l’intervento di Maupertuis, che sostenne
davanti all’Acedémie l’opinione di Newton secondo la quale la Terra, per effetto del proprio moto,
dovrebbe essere uno sferoide appiattito ai poli, opponendosi così all’italiano Cassini che già nel 1718
aveva pubblicato delle misure che confermavano l’idea cartesiana di una Terra allungata ai poli.
Per porre fine alla questione furono organizzate due spedizioni allo scopo di compiere misurazioni sulla
curvatura della Terra all’equatore e al circolo polare artico. La prima spedizione partì nel 1735 per la
regione sudamericana dell’Ecuador sotto la direzione di La Condamine; la seconda, invece, fu guidata
da Maupertius e Clairaut. Con queste due spedizioni furono ottenute misure che diedero ragione a
Newton.
La discussione teorica avviata da questi dibattiti produsse una più attenta ricognizione della meccanica
newtoniana che negli anni ’30 cominciò in tutto il continente a essere studiata, approfondita, rielaborata
in un processo che condusse alla edificazione della meccanica razionale.
La meccanica razionale e l’analisi
La meccanica razionale, o meccanica analitica, è la parte della fisica matematica che studia il moto dei
sistemi meccanici con un numero finito di gradi di libertà, nonché un numero finito di variabili
indipendenti necessarie per determinare la posizione di un punto nello spazio (coordinate). L'attenzione
della disciplina è diretta verso lo studio, la sistematizzazione e la generalizzazione delle strutture
matematiche utilizzate in questi modelli.
La costruzione della meccanica razionale fu opera di scienziati continentali di formazione
prevalentemente matematica e quasi sempre scarsamente interessati alla sperimentazione. Studiosi come
i francesi Maupertuis e Clairaut non compirono una semplice estensione delle leggi del moto di
Newton, ma formularono principi nuovi ed elaborarono nuovi metodi per la loro applicazione a nuovi
settori.
L’inserimento dell’empirismo newtoniano nella concezione razionalista di scienza avvenne in un primo
tempo con l’assunzione della meccanica in un quadro filosofico razionalista: i principi della meccanica
furono intesi come verità di ragione, dimostrabili a priori, e tutta la meccanica fu ritenuta garantita non
dal controllo dell’esperienza ma dalla deduzione analitica. Il razionalismo garantiva alla meccanica quella
certezza che Newton non sembrava in grado di conferirle.
In nessun altro periodo della storia della scienza la matematica fu tanto strettamente legata a problemi
fisici. La matematica dominante fu l’analisi. L’analisi era concepita come il metodo per risolvere
problemi matematici riconducendoli ad equazioni, e comprendeva l’algebra, il calcolo differenziale e
integrale e le loro applicazioni alla meccanica.
Nel corso del Settecento l’analisi si legò sempre più strettamente alla meccanica e i maggiori analisti del
secolo furono tutti grandi studiosi di meccanica razionale. Studiando problemi meccanici, si aprirono
nuovi campi per l’analisi, come accadde con la nascita del calcolo delle variazioni, elaborato per
risolvere il problema di trovare una traiettoria che massimizza o minimizza alcune proprietà.
L’applicazione dell’analisi a vari problemi meccanici complessi richiese non solo lo sviluppo della
matematica, ma anche una ristrutturazione della meccanica. Le formulazioni newtoniane erano adatte a
descrivere i movimenti di punti-massa individuali, ma mal si prestavano a trattare un corpo rigido o un
fluido, e, per questi fini, la meccanica dei Principia dovette essere riplasmata alla ricerca di una forma
delle sue equazioni, più generale e adattabile ai casi concreti più diversi.
La Mécanique analitique del francese De Lagrange rappresenta l’apice di questo processo di
generalizzazione: fondendo i vari principi enunciati in precedenza, Lagrange fornì un metodo analitico
generale di risoluzione dei problemi meccanici di straordinaria potenza, in cui non si impiegano
ragionamenti geometrici o meccanici ma solo operazioni algebriche.
Tra i nuovi concetti messi a punto nel corso di questo sviluppo delle tecniche matematiche spiccano
quelli di “forza viva” e di “azione”. La forza viva era un’idea introdotta dal tedesco Leibniz ed
esprimeva la quantità dinamica che è conservata nel corso delle trasformazioni dell’universo; il concetto
di azione fu posto dal francese Maupertuis nel 1745 al centro di un principio metafisico estremamente
generale, secondo cui, quando in natura avviene qualche mutamento, la quantità d’azione di questo
mutamento è la più piccola possibile. Lunga fu la discussione nel Settecento su quale delle due
grandezze fosse più adatta a rappresentare la forza di un corpo in movimento e quale principio di
conservazione fosse rispettato nell’universo. Ad ogni modo, nel corso del secolo i concetti di forza viva
e di azione spodestarono il concetto newtoniano di “forza” ponendosi al centro della trattazione
meccanica dei problemi.
All’interno della meccanica analitica si ebbe un notevole mutamento anche della concezione di
“modello meccanico”. Il modello non fu più considerato, come in Newton, un costrutto provvisorio e
ipotetico che fa da tramite tra teoria ed esperienza, ma assunse la funzione di rappresentare qualche
aspetto parziale del comportamento della realtà, ma in quanto rappresentante parziale il modello è
sempre incompleto e impotente di fronte al compito di organizzare e spiegare compiutamente
l’esperienza.
Le difficoltà del meccanicismo
Lo sviluppo della meccanica newtoniana si realizzò attraverso momenti di difficoltà profonda, difficoltà
che conobbe anche il nucleo forte della scienza newtoniana, ovvero l’astronomia.
Con l’inglese Bradley (1693 - 1762) gli astronomi osservativi colsero un grande successo, raggiungendo
la prima prova del moto terrestre: nel 1728 Bradley spiegò parte degli spostamenti delle stelle fisse con
l’ipotesi che la velocità finita della luce si compone con la velocità della Terra sull’eclittica, in modo che
l’osservatore dirige il proprio cannocchiale non direttamente alla stella ma verso la direzione risultante
dalla composizione dei due moti.
Più tormentata fu la storia dell’astronomia teorica: quando negli anni quaranta si intraprese uno studio
serio e dettagliato dell’astronomia newtoniana, ci si accorse che l’immagine di un cosmo di cui Newton
aveva colto con sicurezza le leggi di funzionamento non corrispondeva alla realtà. Al centro delle
discussioni fu in particolare la teoria del moto della Luna, attorno alla quale si aprì nel 1749 una
clamorosa polemica tra i francesi Clairaut, d’Alembert e Buffon e lo svizzero Euler, durante la quale fu
posta seriamente in forse la validità della stessa legge gravitazionale.
Contemporaneamente, il concetto di “fluido sottile” divenne il fondamento esplicativo della fisica
sperimentale, ma fu impiegato anche per reinterpretare vecchie nozioni come la gravità, attribuita ora
all’azione di un etere e non più concepita quale azione a distanza. Questo passaggio al mondo del
continuo si rivelò fruttuoso soprattutto nel campo dell’elettricità.
All’inizio del secolo vi erano state infatti le notevoli ricerche sull’elettricità dell’inglese Hauksbee, il
quale aveva messo a punto i generatori di elettricità statica, che verranno poi impiegati per tutto il
secolo, realizzati con sfere o piatti di vetro rotanti e elettrizzati per strofinio.
Nel 1733 il francese Dufay enunciò le conclusioni da trarsi relativamente alla elettrizzazione: secondo
lui, esistono due tipi differenti di elettricità, quella “vetrosa” e quella “resinosa”; i corpi che possiedono
un tipo di elettricità respingono corpi con elettricità del medesimo tipo e attraggono quelli con
elettricità del tipo differente; Dufay propose di spiegare i fenomeni elettrici partendo dall’esistenza di
due correnti opposte di fluido elettrico lanciate da corpi elettrizzati. Lo statunitense Franklin avanzò
invece una teoria ispirata all’etere newtoniano, secondo la quale le azioni elettriche sono dovute a una
sola atmosfera statica che attrae e respinge per mezzo di una pressione.
La più recente scoperta in campo elettrico fu comunque compiuta dall’olandese Van Musschenbroek
nel 1746: si tratta della “bottiglia di Leida”, il primo condensatore capace di produrre scariche elettriche
fortissime.
Le scienze della vita
Nei primi decenni dei secolo prevaleva la convinzione ottimistica che sarebbe stato possibile spiegare
meccanicisticamente il vivente. Si può affermare che dopo il 1740 le scienze della vita cominciarono a
passare dal meccanicismo al vitalismo, termine ottocentesco utilizzato per indicare ogni corrente di
pensiero che esalta la vita come forza energetica e fenomeno spirituale, al di là del suo aspetto
biologico-materiale. Il vitalismo considera i fenomeni vitali irriducibili ai fenomeni fisico-chimici; questa
irriducibilità può significare in primo luogo che i fenomeni vitali non possono essere interamente
spiegati con cause meccaniche e che quindi la stessa indagine scientifica dei fenomeni vitali non
riuscirebbe mai a cogliere la forza che costituisce l’essenza della vita; in secondo luogo che un
organismo vivente non potrà mai essere prodotto artificialmente in un laboratorio di biochimica; in
terzo luogo che la vita sulla terra non ha avuto un’origine naturale o storica dovuta all’organizzarsi o
all’evolversi della sostanza nell’universo, ma è frutto di un disegno provvidenziale o di una creazione
divina.
L’animismo, da parte sua, viene usato in antropologia per classificare le tipologie di religioni o pratiche
di culto nelle quali vengono attribuite qualità divine o soprannaturali a cose, luoghi o esseri materiali; si
basa dunque sull’idea di un certo grado di identificazione tra il principio spirituale divino, ovvero
l’anima, e gli aspetti “materiali” di esseri e realtà. Il termine animismo fu usato per la prima volta nel
1720 in ambito medico dal chimico e biologo tedesco Stahl per definire una teoria secondo la quale
l’anima svolgeva una funzione diretta nel controllo di ogni funzione corporea, in particolare come
meccanismo di difesa nei confronti degli agenti patogeni.
Il più importante fisiologo del secolo fu lo svizzero Haller, il quale condusse fondamentali ricerche
sull’irritabilità e la sensibilità dei tessuti animali: l‘irritabilità è per Haller la proprietà che il tessuto ha di
contrarsi quando è toccato, la sensibilità invia invece un messaggio al cervello. Il francese Bordeu criticò
la distinzione di Haller tra irritabilità e sensibilità, sostenendo che tutta la materia vivente è sensibile e
che l’irritabilità è solo un caso speciale della sensibilità.
Il francese Diderot si convertì a un materialismo dinamico, secondo il quale la sensibilità è una
proprietà universale della materia, non vi è differenza tra l’organico e l’inorganico tranne che nel grado
di organizzazione, l’universo è un enorme corpo elastico che conserva la propria “vis viva”, e non esiste
una reale distinzione tra il dinamico e il vitale e tra la fisica e la fisiologia.
Sempre negli anni quaranta presero avvio alcune ricerche sulla generazione dei viventi che fecero di
questo tema il più studiato e discusso nella parte centrale del secolo. Il francese Bonnet dimostrò che gli
afidi, o pidocchi delle piante, si riproducono per partenogenesi, modo di riproduzione in cui lo sviluppo
dell’uovo avviene senza che questo sia stato fecondato, rafforzando così la vecchia concezione ovista
secondo cui l’embrione è preformato nella madre e passa poi attraverso un semplice processo di
crescita. Anche lo svizzero Trembley mise in luce le straordinarie capacità dell’idra, o polipo d’acqua
dolce, di rigenerarsi in un individuo completo partendo da un qualsiasi proprio pezzo.
La questione della generazione venne affrontata anche dal punto di vista dell’ereditarietà. Il tedesco
Kӧlreuter studiò gli ibridi, nonché gli individui generati dall'incrocio di due organismi che differiscono
per più caratteri, delle piante di tabacco per provare che gli ibridi sono sterili; con sua sorpresa si
accorse che gli ibridi della seconda generazione erano fertili.
Naturalmente nel campo delle scienze della vita non cessò il tradizionale lavoro di classificazione,
caratteristico della storia naturale. Grandissima importanza a questo proposito ebbe l’opera dello
svedese Linnaeus, il quale propose un sistema di classificazione con nomenclatura binaria per genere e
specie, che è poi rimasto nell’uso comune. Linnaeus credeva nella fissità della specie. Buffon attaccò il
suo sistema, ritenendo che le suddivisioni dei viventi in generi, ordini, specie, ecc. siano solo nostre
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