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3.3.2. STEREOTIPIA NELL'ANALISI DELLA SITUAZIONE

E' anche questa una modalità difensiva che viene razionalizzata con la necessità di avere una idea

precisa della situazione di base, delle abilità residue dell'alunno handicappato.

Con questo non si vuole sostenere che non sia importante per l'insegnante conoscere le potenzialità

dell'alunno se vuole intervenire e programmare in modo adeguato, ma si vuole sottolineare come una

corretta e necessaria modalità di intervento sia spesso ridotta a mera routine e sia svuotata del suo vero

significato.

La valutazione delle abilità funzionali e del potenziale di sviluppo, permette all'insegnante la

conoscenza del livello maturativi dell'alunno nelle aree (schema corporeo, lateralizzazione, ecc.) che

diventeranno i punti di forza e di debolezza del processo di apprendimento.

Nella maggioranza dei casi, però, questa conoscenza diventa un rito, ripetitivo nelle sequenze, e si

rinnova ogni volta che il ragazzo viene affidato ad insegnanti diverse, ad ogni inizio di anno scolastico e,

nella migliore delle ipotesi, ad ogni passaggio da una scuola di ordine inferiore ad uno superiore.

La famiglia, iscrivendo il figlio al primo anno di frequenza di scuola materna, accompagna in classe

un bambino che dovrà essere aiutato più degli altri nel percorso di integrazione, di sviluppo e di

apprendimento e che quasi subito si trasforma in bambino-handicappato-gomitolo: l'insegnante comincia a

svolgere il filo, ne studia le componenti, ne accerta le competenze ed i livelli di base (schema corporeo,

lateralizzazione, orientamento spazio-temporale ecc.), programma, interviene adeguatamente e poi alla fine

del triennio, avvolge il filo e “consegna” il bambino-gomitolo al collega della scuola elementare che inizia

lo stesso iter di esame e conoscenza delle abilità di base, programma, fissa gli obiettivi a breve, medio e

lungo termine e alla fine del quinto anno, riavvolge il filo e passa il bambino-gomitolo al collega della

scuola media.

Anche a questo livello, si ripete lo stesso rito e alla fine del triennio, nella maggioranza dei casi, il

ragazzo viene ridato alla famiglia che spesso a questo punto non sa cosa fare, come aiutare il figlio e,

soprattutto, spesso, per la prima volta, è costretta ad affrontare in termini realistici la presenza e il futuro del

figlio diverso.

E' importante sottolineare come queste modalità di intervento annullano il principio di continuità tra i

vari ordini di scuola e il principio di collaborazione tra i vari docenti.

3.3.3 OMOGENEITÀ E IPOVALUTAZIONE DELLE POSSIBILITÀ DI SVIUPPO.

La relazione con un aspetto della persona, la sua minorazione, è resa più semplice dal fatto che

quest'ultima, nella maggioranza dei casi, si impone percettivamente all'altro il quale se non è profondamente

motivato o ha delle resistenze che gli impediscono di superare le apparenze, può continuare un rapporto che

si qualifica come rapporto individuo-categorie di individui.

In particolare, nell'ambito scolastico i due poli della relazione prendono il nome di insegnante-alunni

normali, insegnante - alunni con insufficienza mentale, alunni mongoloidi, non vedenti ecc..

Quando l’insegnante si relaziona con la categoria, rischia di non cogliere le differenze che possono

essere minime, ma non per questo meno importanti, che distinguono un bambino minorato da un altro con la

stessa minorazione.

Infatti, è sempre importante ricordare che il termine handicap non designa mai una categoria

nosografica in sé omogenea, ma raggruppa individui differenti, identificati sulla base di alcuni deficit di

potenzialità. La stessa Paralisi Cerebrale Infantile (P.C.I.) la cui eziologia è stata ormai

clinicamente individuata, determina, secondo le opportunità che vengono offerte al bambino, diverse

modalità di sviluppo. 29

Sul piano operativo e relazionale questa modalità difensiva si traduce in una programmazione

ripetitiva nella quale viene sottovalutato il disagio soggettivo dell'alunno ritenendo il suo comportamento e

le sue modalità espressive come esclusive conseguenze della malattia , in interventi didattici e metodologici

che privilegiano una ripetitività asettica che si traduce in noia, disinteresse, disattenzione per l'alunno ma

anche per l'insegnante che non riesce di conseguenza a trovare nuovi stimoli.

3.3.4. DELEGA DELLE DECISIONI

Un intervento didattico e metodologico effettuato all'interno di tecniche difensive, non trova, al

momento della verifica, la possibilità di essere quantificato e qualificato perché mancano i presupposti

teorici ed allora, per risolvere la situazione, per cercare di uscire dall'immobilismo al quale inevitabilmente

si giunge, la scuola adotta il principio del rivolgersi ad esperti dando loro una delega, la più ampia possibile,

pur di trovare una risposta immediata al problema.

A differenza di ciò che normalmente avviene in altre istituzioni nelle quali la delega è demandata ai

superiori, nella scuola e solo per gli alunni in difficoltà, la delega è data, nella maggioranza dei casi, a

persone esterne la comunità (psicologi, pedagogisti, neuropsichiatri ecc.) che possono studiare il problema,

formulare una diagnosi funzionale, ma non possono assumersi altre competenze.

Lo stesso aiuto che è chiesto al pedagogista, dovrebbe essere finalizzato ad un approfondimento del

problema e non alla richiesta, esplicita e spesso unica, di un elenco di interventi da adottare che,

naturalmente. non danno i risultati attesi.

Il perché di questo fallimento didattico e metodologico, è nella natura stessa della relazione che

assume quelle e non altre caratteristiche relativamente alla personalità dei partner coinvolti: ne consegue che

cambiando i partner, cambia anche il risultato della relazione. Da questo punto di vista, allora, espressioni

del tipo “che cosa farebbe al mio posto; è semplice parlare quando non si opera e non si vive la situazione”,

non hanno alcun senso e il più delle volte sono l'espressione di una difficoltà di relazione, di interventi

didattici fondati su un impegno formale che è senz'altro faticoso da mantenere nel tempo, ma è poco

produttivo sul piano dei risultati.

3.4. IL BAMBINO CON DEFICIT DI APPRENDIMENTO

Un problema molto controverso e tra i più dibattuti, sul quale si è molto investito in termini di ricerca

psicopedagogica, è relativo ai bambini che presentano "disturbi di apprendimento".

L'inserimento nella scuola elementare, la richiesta di compiti specifici quali imparare a leggere,

scrivere, contare ecc., fa emergere problemi legati a difficoltà di apprendimento dei quali negli anni

precedenti, sia la famiglia che gli insegnanti, possono non avere avuto alcun sospetto.

Gli studi condotti in questo campo da psicologi cognitivisti, dello sviluppo e dell'educazione, hanno

reso possibile un approfondimento e una buona conoscenza di questa patologia e hanno evidenziato i

problemi che vengono conosciuti come “disturbi specifici dell'apprendimento” che riguardano “significative

difficoltà nell'acquisizione e nell'uso di abilità di ascolto, espressione orale, lettura, ragionamento e

matematica, presumibilmente dovute a disfunzioni del sistema nervoso centrale…Possono verificarsi in

concomitanza con altri fattori di disabilità o con influenze estrinseche (culturali, d’istruzione ecc.) ma non

sono il prodotto di tali condizioni ed influenze” (Cornoldi, 1999). In particolare, il disturbo di

apprendimento non è conseguente ad un ritardo mentale, a deprivazione sensoriale o a fattori culturali o di

istruzione.

Nonostante questi presupposti teorici abbastanza precisi, è ancora molto difficile delimitare gli ambiti

nei quali un soggetto manifesta i disturbi di apprendimento, soprattutto perché c'è una stretta relazione tra i

vari campi. Dunque, l'espressione viene spesso usata per indicare problemi di altra natura che possono

incidere sull'apprendimento, ma non riguardano il problema primario relativo all'acquisizione delle abilità

scolastiche.

La segnalazione del problema scatena reazioni contrastanti nella famiglia e nel corpo docente.

Per la prima non è semplice accettare che il figlio che nella scuola materna non ha avuto difficoltà di

inserimento e di apprendimento, “improvvisamente” ha difficoltà ad imparare a leggere, non sa copiare,

legge sillabando quando tutti i compagni hanno raggiunto buoni livelli di comprensione.

E non è semplice neanche per gli insegnanti che non sempre ne conoscono la specificità legata

all'eziologia e all’intervento e attendono, da una consulenza esterna, soprattutto pedagogica, le indicazioni di

un intervento idoneo. (Trotta, Valenti, Palladino, 2005)

La reazione dei genitori, increduli e incapaci di comprendere i termini del problema, le difficoltà degli

insegnanti che non riescono trovare corrette modalità di intervento didattico e metodologico, creano tensioni

proprio quando sarebbe importante, invece, trovare sinergie di forze per affrontare al meglio la situazione.

Da qui l'importanza di avviare un percorso comunicativo che permetta di trovare una sintonia e al

contempo di percorrere la strada della consapevolezza e delle esperienze comunicative che consente alle

famiglie di capire, per poi accettare il problema e agli insegnanti di modificare vincoli profondi per lavorare

serenamente con i bambini, ad entrambi di abbattere le differenze linguistiche e pragmatiche che creano

tensioni e difficoltà di comunicazione.

A questo punto, per evitare di continuare a disperdere energie senza raggiungere alcun risultato, per

abbassare il livello di esasperazione che può innescarsi nella relazione insegnanti-famiglie, è importante

avviare un dialogo che si perfeziona, secondo Ulrch (2005) , attraverso diverse tappe che vedono dapprima

famiglie e scuola in posizioni contrapposte per poi giungere ad una unità di collaborazione vera e propria.

Il primo livello (fase dello struzzo) è caratterizzato dalla mancanza di consapevolezza nei genitori che,

non conoscendo il problema, lo negano non tanto per un meccanismo di difesa, ma semplicemente perché

non hanno informazioni sufficienti “per capire cos’è una difficoltà di apprendimento” e hanno “paura dello

stigma associato a questa parola”. 31

In questa fase i genitori sono molto restii ad ascoltare qualunque suggerimento soprattutto perché non

riescono a dare una risposta logica al fatto, per esempio, che il loro figlio è in grado di fare la spesa, ma non

capisce semplici problemi di matematica.

Il passaggio a un (secondo) livello di consapevolezza più profondo “avviene in seguito a una

Dettagli
A.A. 2014-2015
51 pagine
SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-PSI/04 Psicologia dello sviluppo e psicologia dell'educazione

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher miservonoriassunti di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Psicologia dello sviluppo e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università del Salento o del prof Lecciso Flavia.