Riassunto esame filosofia della mente, Prof. Pietro Perconti. Testo consigliato Come funziona la mente, S. Pinker, cap 1, 2, 3, 6
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persona non deliberatamente concentrata su una regione, per esempio,
dovrebbe ignorare se essa contiene una X rossa e una O verde o una X
verde e una O rossa: colore e forma dovrebbero fluttuare in piani separati
finché l’elaboratore conscio non li lega insieme in un determinato punto.
Treisman ha scoperto che è proprio questo che accade. Quando le persone
sono distratte da qualche lettera colorata, sanno riferire le lettere e sanno
riferire i colori, ma riguardo a quale colore si accompagna a quale lettera si
sbagliano. Tali combinazioni illusorie sono un’incisiva dimostrazione dei limiti
della computazione visiva inconscia, e non sono infrequenti nella vita di tutti i
giorni. Quando cerchiamo di riportare alla mente un ricordo, i suoi elementi
giungono alla consapevolezza uno per volta, alla spicciolata, spesso a
intervalli sfibranti se l’informazione è vecchia o insolita. In un sistema di
recupero d’informazione progettato al meglio, un elemento va recuperato solo
quando la sua rilevanza supera il costo di recuperarlo. Anderson osserva che
noi ricordiamo eventi comuni e recenti meglio che eventi rari e passati da
tempo. Un terzo elemento di rilievo della coscienza-accesso è la coloritura
emotiva dell’esperienza. Noi non ci limitiamo a registrare eventi, ma li
registriamo come piacevoli o dolorosi, il che ci induce a prendere iniziative
per accrescere il numero dei primi e diminuire quello dei secondi. Le cose
che divengono oggetti di desiderio sono i generi di cose che hanno portato, in
media, a più alte probabilità di sopravvivenza e riproduzione nell’ambiente in
cui ci siamo evoluti: acqua, cibo, sicurezza, ecc. Il quarto elemento della
coscienza è l’incanalarsi del controllo verso un processo esecutivo: qualcosa
che noi esperiamo come sé, volontà, «Io». Recentemente, il sé è stato preso
di mira. Secondo il pioniere dell’intelligenza artificiale Marvin Minsky, la mente
è una società di agenti. E secondo Daniel Dennett, è un grande insieme di
abbozzi parzialmente finiti. Sulle strutture cerebrali che ospitano il circuito
decisionale abbiamo addirittura qualche indizio. Il neurologo Antonio Damasio
ha notato che danni al solco cingolato anteriore, che riceve input da molte
aree percettive superiori ed è connesso ai livelli superiori del sistema motorio,
lasciano il paziente in uno stato apparentemente vigile ma stranamente
indifferente. Esercitare la volontà, cioè concepire e mettere in atto progetti, è
compito dei lobi frontali. Ned Block ha cercato di fare chiarezza sulla
distinzione fra accesso e facoltà senziente pensando a scenari in cui il primo
potrebbe prodursi senza la seconda e viceversa. Un esempio di accesso
senza facoltà senziente lo si può trovare nella strana sindrome detta sguardo
cieco. Quando una persona ha un grande punto cieco a causa di un danno
alla corteccia visiva, negherà ostinatamente di poter vedere un oggetto, ma,
forzato a immaginare dove si trovi, risponderà molto meglio che tirando a
indovinare. Un’interpretazione è che ha accesso agli oggetti, ma non ne è
senziente. La presenza di facoltà senziente senza accesso potrebbe prodursi
quando si è impegnati in una conversazione e, all’improvviso, ci si rende
conto che fuori dalla finestra c’è uno che lavora con un martello pneumatico,
che è da qualche tempo che lo si sente, ma senza notarlo. Prima di
rendersene conto si era senzienti del rumore, ma senza avervi accesso.
Block, tuttavia sospetta che in realtà accesso e facoltà senziente procedano
di pari passo. Le esperienze senzienti (i qualia) sono un’illusione cognitiva.
Una volta isolati i correlati computazionali e neurologici della coscienza-
accesso, non c’è più niente da spiegare. Il concetto di facoltà senziente è
sotteso alla nostra certezza che la tortura è sbagliata e che mettere fuori uso
un robot è danneggiamento, mentre mettere fuori uso una persona è
omicidio. È la ragione per cui la morte di una persona cara ci dà anche il
dolore di sapere che i suoi pensieri e piaceri sono svaniti per sempre.
3.LA VENDETTA DEI BUONI A NULLA
1.Fatti intelligente: All’inizio degli anni Novanta la NASA ha destinato cento
milioni di dollari a un programma decennale volto alla ricerca di intelligenza
extraterrestre (Search for Extraterrestrial Intelligence, o SETI). Gli scienziati
dovevano stare in ascolto tramite antenne radio di eventuali segnali che
potessero provenire solo da extra terrestri intelligenti. Com’era prevedibile,
qualche parlamentare ha trovato da ridire. Uno ha obiettato che mettersi a
«cercare ometti verdi con teste di forma strana» rappresentava uno spreco di
denaro federale. Per minimizzare il «fattore ridicolo», la NASA ha ribattezzato
il progetto High-Resolution Microwave Survey. Attualmente esso è finanziato
da donazioni di privati, fra cui Steven Spielberg. Trovare vita intelligente
altrove nel cosmo sarebbe la scoperta più entusiasmante della Storia umana,
ma i biologi hanno l’impressione che gli entusiasti della SETI ragionino a
partire da credenze popolari prescientifiche. Il biologo Ernst Mayr aveva
osservato che solo una fra cinquanta milioni di specie sulla Terra aveva
sviluppato delle civiltà e, quindi, non c’erano molte probabilità che la vita su
un dato pianeta includesse una specie intelligente. In molti casi,
naturalmente, gli animali sono diventati di discendente in discendente più
complessi. Ma in molti altri casi gli animali non sono diventati più complessi.
Gli organismi raggiungono un livello ottimale e si fermano lì, spesso per
centinaia di milioni di anni. E quelli che invece diventano più complessi non
sempre diventano più intelligenti. L’evoluzione è una questione di fini, non di
mezzi. Gli organismi non evolvono verso ogni immaginabile vantaggio. Se lo
facessero, ogni creatura sarebbe più veloce di una pallottola, più potente di
una locomotiva, e in grado di saltare grattacieli d’un balzo. Un organismo che
dedica parte della sua materia ed energia a un solo organo deve sottrarle a
un altro. Deve avere ossa più sottili o meno muscoli o meno uova. Gli organi
evolvono solo quando i loro benefici superano i loro costi. Svantaggi si
troverebbe di fronte qualunque creatura che dovesse decidere se evolvere un
cervello di tipo umano: Primo, il cervello è ingombrante; il cervello richiede
energia (rappresenta soltanto il 2 per cento del peso corporeo ma, quanto a
energia e sostanze nutritive, ne consuma il 20 per cento); Terzo, per imparare
a usare il cervello ci vuole tempo; Quarto, compiti semplici diventano lunghi.
L’intelligenza non fa per tutti, non più della proboscide, il che dovrebbe dare
da riflettere agli entusiasti della SETI. La mente è un organo. Abbiamo la
mente perché il modo in cui essa è fatta dà dei risultati i cui benefici
superavano i costi nella vita dei primati africani del plio-pleistocene. Per
capire noi stessi, occorre capire il come, perché, dove e quando di questo
episodio della Storia. 2. Il progettista della vita: Richard Dawkins ha
sostenuto che la vita, ovunque possa venire trovata nell’universo, sarà
sempre un prodotto della selezione naturale darwiniana. Se come penso, ha
ragione, essa è indispensabile per capire la mente umana. Gli animali vedono
e le rocce no perché gli animali hanno gli occhi. L’occhio ha così tante parti, e
assemblate con tanta precisione, che sembra essere stato progettato fin
dall’inizio con l’obiettivo di mettere assieme qualcosa che vedesse. Lo stesso
vale per gli altri nostri organi. Darwin ha identificato un processo fisico di
causazione in avanti che ha l’aspetto paradossale della causazione
all’indietro, o teleologia. Il trucco si chiama replicazione. Un replicatore è
qualcosa che può fare una copia di sé, con la maggior parte dei suoi tratti
duplicati nella copia, compresa la capacità di replicarsi a propria volta. La
prole ha occhi perché vedevano bene gli occhi dei genitori (causazione in
avanti, ordinaria, giusta). Gli occhi della prole assomigliano a quelli dei
genitori, per cui è facile prendere quel che è successo per causazione
all’indietro. Darwin spiega la comparsa di un progetto senza un progettista
usando la causazione ordinaria, in avanti, applicata ai replicatori. La storia
per intero è questa: In principio c’era un replicatore. I replicatori, per le loro
copie, consumano materia, e, per la replicazione, energia. Il mondo è limitato,
quindi essi devono competere per le sue risorse. Poiché nessun processo di
copiatura è perfetto al cento per cento, saltano fuori degli errori, e non tutte le
figlie sono dei duplicati esatti dei genitori. La maggior parte degli errori di
copiatura si rivelano cambiamenti in peggio, e ne risulta un utilizzo meno
efficiente di materia ed energia, o un ritmo di copiatura più lento, o minori
probabilità di replicazione. Ma, grazie alla cieca fortuna, alcuni errori
rappresentano dei cambiamenti in meglio, e i replicatori che ne sono
portatori, proliferano. Il replicatore che ne risulta, con il suo corpo
apparentemente ben progettato, è ciò che chiamiamo un organismo. La
selezione naturale non è l’unico processo che cambia gli organismi nel
tempo. Ma è l’unico che, nel tempo, apparentemente li progetta. I due princìpi
che hanno finito per essere associati al predecessore di Darwin, Jean-
Baptiste Lamarck, uso e disuso ed ereditarietà dei caratteri acquisiti, non
sono neanch’essi all’altezza del compito. Molte parti degli organismi, è vero,
rispondono adattivamente all’uso: i muscoli esercitati si gonfiano, ecc. Ma
queste risposte sono parte della struttura, frutto di evoluzione, dell’organismo.
Quanto all’ereditarietà dei caratteri acquisiti, è ancora peggio, perché la
maggior parte dei caratteri acquisiti sono tagli, graffi, cicatrici. Un’ulteriore
teoria che non sta in piedi è quella che fa appello alla macromutazione: un
macroscopico errore di copiatura che genera, d’un sol colpo, un nuovo tipo di
organismo adattato. In realtà, per dare all’organismo un occhio deve essersi
accumulata una lunga sequenza di piccole mutazioni. Una quarta alternativa
è la deriva genetica casuale. I caratteri benefici sono tali solo nella media.
Proprio a causa della sua natura fortuita, la deriva casuale non può spiegare
la comparsa di un carattere improbabile e utile come la capacità di vedere o
di volare. Le mutazioni sono del tutto indifferenti ai benefici che apportano a
un organismo. Esse non possono essere adattive in generale. L’altra sfida
viene dai fautori della teoria della complessità, che cerca i princìpi matematici
dell’ordine sotteso a numerosi sistemi complessi: galassie, cristalli, sistemi
meteorologici, cellule, organismi, cervelli, ecosistemi, società. La teoria della
complessità solleva questioni interessanti. La selezione naturale presuppone
che in qualche modo sia venuto fuori un replicatore, e la teoria della
complessità potrebbe contribuire a spiegare quel «qualche modo». Gli
organismi sono macchine, e la loro «complessità» è struttura funzionale,
adattiva: complessità al servizio di qualche obiettivo degno d’interesse. La
selezione naturale resta l’unica teoria che spieghi come possa sorgere la
complessità adattiva: essa è infatti l’unica teoria non miracolosa, rivolta in
avanti, nella quale il buon funzionamento di una cosa gioca un ruolo causale
nel modo in cui si è formata.
Darwin fece notare il potere dell’allevamento selettivo, che è in diretta
analogia con la selezione naturale, nel modellare gli organismi. Le differenze
fra i cani, per esempio (chihuahua, terrier scozzesi, san bernardo), sono frutto
di un allevamento selettivo dei lupi durato appena qualche migliaio di anni. La
selezione naturale si può vedere in azione facilmente anche in natura. Un
esempio classico è quello della farfalla bianca screziata di nero che, nella
Manchester del Diciannovesimo secolo, dopo che la fuliggine delle fabbriche
ebbe coperto il lichene su cui usava posarsi, rendendola troppo visibile agli
uccelli, lasciò il posto a una forma mutante scura. Quando, negli anni
Cinquanta, grazie alle leggi anti-inquinamento, il lichene ridivenne chiaro, la
forma bianca, ormai rara, tornò a imporsi. Due dei prerequisiti della selezione
naturale, abbastanza variazione e abbastanza tempo, sono sotto gli occhi di
tutti. Le popolazioni di organismi che vivono in modo naturale mantengono
un’enorme riserva di variazioni genetiche che possono servire da materia
prima alla selezione naturale. E, per evolversi sulla Terra, la vita ha avuto a
disposizione oltre tre miliardi di anni, e la vita complessa un miliardo, secondo
una stima recente.
Si vuole disperatamente che il darwinismo sia sbagliato. La diagnosi di
Dennett, in L’idea pericolosa di Darwin, è che la selezione naturale implica
che non vi sia alcun piano nell’universo, natura umana inclusa. Un’altra
ragione di tanta ostilità è che chi studia la mente preferirebbe non dover
pensare a come essa è evoluta, perché ciò fa precipitare nel caos teorie
amatissime. Gli sforzi compiuti dagli accademici per impugnare il darwinismo
sono veramente degni di nota. Uno di questi sforzi consiste nel pretendere
che l’ingegneria inversa, il tentativo di scoprire le funzioni degli organi (cosa
che io sostengo si dovrebbe fare con la mente umana), sia un sintomo
dell’«adattamentismo». A quanto sembra, chi crede che qualche aspetto di un
organismo abbia una funzione deve assolutamente credere che ogni aspetto
ha una funzione, che le scimmie sono marroni per nascondersi fra le noci di
cocco. Poiché gli adattamentisti ritengono che le leggi della fisica non bastino
a spiegare la struttura degli animali, si immagina che sia loro sempre vietato
fare appello alle leggi della fisica per spiegare qualsiasi cosa. Un’altra accusa
è che la selezione naturale è uno sterile esercizio di narrazione a posteriori,
ma la complessità organizzata di un organismo è al servizio della sua
sopravvivenza e riproduzione. La selezione naturale non gode della
lungimiranza degli ingegneri, ma questo ha i suoi vantaggi oltre che i suoi
svantaggi: non ha i loro blocchi mentali, la loro scarsa immaginazione, il loro
conformismo nei confronti della sensibilità borghese e degli interessi delle
classi dirigenti. Guidata solo da ciò che funziona, la selezione può giungere a
soluzioni brillanti. Da millenni i biologi vanno scoprendo i geniali apparati del
mondo vivente: la perfezione biomeccanica dei ghepardi, gli stenoscopi a
raggi infrarossi dei serpenti, il sonar dei pipistrelli, ecc. L’evoluzione è
vincolata dai lasciti degli antenati e dai tipi di macchinari che si possono
sviluppare a partire dalle proteine. La simmetria ha tutto a che vedere con la
selezione. Gli organismi che si muovono secondo linee rette hanno forme
esterne bilateralmente simmetriche perché altrimenti, muovendosi,
girerebbero su se stessi. La simmetria è così improbabile e difficile da
raggiungere che una qualsiasi malattia o difetto può distruggerla. Molti organi
che oggi vediamo hanno conservato la loro funzione d’origine. L’occhio è
sempre stato un occhio, ma altri organi invece hanno mutato funzione.
Darwin ne ha portato molti esempi, come le pinne pettorali dei pesci divenute
gli arti anteriori dei cavalli, le pinne natatorie delle balene, le ali degli uccelli,
gli unghioni delle talpe e le braccia degli esseri umani. Ai suoi tempi le
somiglianze erano una potente prova dell’evoluzione, e lo restano tuttora.
Prima che un organo venisse selezionato per assumere la sua forma attuale,
era un adattamento a un altro fine, dopo di che ha attraversato uno stadio
intermedio in cui ha adempiuto a entrambi i compiti. La delicata catena degli
ossicini dell’orecchio medio (martello, incudine, staffa) ebbe inizio nella
giuntura della mascella dei rettili. Spesso i rettili sentono le vibrazioni
appoggiando le mascelle contro il terreno, e certe ossa servivano loro sia da
giunture della mascella sia da trasmettitori di vibrazioni. Il che aprì la strada
perché le ossa si specializzassero sempre di più come trasmettitori di suono.
Darwin chiama le forme anteriori «preadattamenti», anche se non manca di
sottolineare che non si tratta di anticipazioni proposte dall’evoluzione sul
modello futuro. Dal punto di vista dell’ingegneria, è ben poco probabile che
un organo progettato per uno scopo sia utilizzabile, appena tirato fuori dalla
scatola, per qualche altro scopo, a meno che il nuovo scopo non sia molto
semplice. Se la nuova funzione è difficile da svolgere, bisogna che la
selezione naturale prima ristrutturi considerevolmente e collaudi il pezzo,
come ha fatto per le ali degli insetti moderni. L’evoluzione delle ali degli insetti
è un argomento a favore della selezione naturale, non contro di essa.
Qualunque cosa che mostrasse segni di progettazione ma non provenisse da
una lunga dinastia di replicatori non potrebbe essere spiegata dalla teoria
della selezione naturale, anzi, la confuterebbe. Inoltre, le funzioni benefiche
devono essere tutte in ultima istanza al servizio della riproduzione. 3. Il
programmatore cieco: Molto spesso maggiori informazioni si hanno, meglio
è, fino a un punto in cui il gioco non vale più la candela, e per questo alcune
specie di animali hanno evoluto sistemi nervosi sempre più complessi. La
selezione naturale può solo selezionare fra i geni. Ma i geni costruiscono
cervelli, e geni diversi costruiscono cervelli che elaborano informazione in
modi diversi. I geni possono modificare le serrature e le chiavi molecolari che
incoraggiano i neuroni a connettersi gli uni agli altri. Le modificazioni sono
valutate strettamente sulla base dell’efficacia degli algoritmi del cervello nel
guidare la percezione, il pensiero e l’azione dell’intero animale. Grazie a
questi processi, la selezione naturale è in grado di costruire un cervello che
funziona sempre meglio. A toccare, più specificamente, il problema di come
una mente umana può evolversi è l’applicazione di algoritmi genetici a reti
neurali. Una rete può essere collocata in un ambiente virtuale fornito di
«cibo» sparso e di molte altre reti che competono per conquistarselo. Le reti
che ne conquistano di più lasciano dietro di sé, prima della successiva
tornata di mutazione e selezione, la maggior parte di copie. Le mutazioni
sono modifiche casuali nei pesi di connessione, seguite in qualche caso da
ricombinazioni sessuali fra le reti. Se una rete può soltanto apprendere il
segnale didattico ambientale si affievolisce nel propagarsi a ritroso agli strati
nascosti. Ma se una popolazione di reti può evolversi, anche se non può
apprendere, mutazioni e ricombinazioni possono riprogrammare gli strati
nascosti in modo diretto, e portare la rete a una combinazione di connessioni
innate molto più vicina a quella ottimale. C’è una selezione della struttura
innata. Nelle reti neurali, insomma, l’evoluzione può guidare l’apprendimento.
Ma anche l’apprendimento può a sua volta guidare l’evoluzione. Nelle
simulazioni di Hinton e Nowlan le reti hanno evoluto, così, sempre più
connessioni innate. Tuttavia, esse non sono mai divenute completamente
innate. Nella misura in cui venivano impostate sempre più connessioni, infatti,
la pressione della selezione per impostare quelle restanti diminuiva, perché,
con solo poche connessioni da apprendere, ogni organismo poteva essere
sicuro di apprenderle in fretta. L’apprendimento porta all’evoluzione
dell’innato, non all’interamente innato. Che l’apprendimento potesse guidare
l’evoluzione esattamente in quel modo l’aveva già ipotizzato lo psicologo
James Mark Baldwin, creando un’illusione di evoluzione lamarckiana. Ma
nessuno aveva dimostrato che l’ipotesi, nota come effetto Baldwin, potesse
realmente funzionare. Hinton e Nowlan lo hanno fatto. La capacità di
apprendere modifica il problema evoluzionistico facendolo passare dalla
ricerca di un ago in un pagliaio alla ricerca dell’ago con qualcuno che ti dice
quando gli sei vicino. 4. Istinto e intelligenza: I calcoli della navigazione
stimata sono svolti a livello inconscio, e i loro risultati emergono alla nostra
coscienza (e a quella delle formiche, se ne hanno una) come astratta
sensazione che la casa è da quella parte, a quella distanza. Altri animali
eseguono sequenze di operazioni aritmetiche, logiche, e di
immagazzinamento e recupero di dati, ancora più complicate. Molti uccelli
migratori volano per migliaia di chilometri, di notte, e mantengono la direzione
guardando le costellazioni. Le api mellifiche eseguono una danza che
comunica alle loro compagne di sciame direzione e distanza di una fonte di
cibo rispetto al sole. La danzatrice, per compensare il movimento compiuto
dal sole fra il momento in cui ha scoperto la fonte di cibo e il momento in cui
trasmette l’informazione, si serve di un orologio interno. Se è nuvoloso, le
altre api stimano la direzione basandosi sulla polarizzazione della luce nel
cielo(Von Frisch). I cervelli sono specializzati e frutto di buona ingegneria non
meno dei corpi. Sono strumenti di precisione che permettono di usare
l’informazione per risolvere i problemi posti dal modo di vivere. Poiché i modi
di vivere degli organismi sono diversi, e le interconnessioni fra le specie
hanno la forma di un grande cespuglio, non è possibile stabilire una gerarchia
delle specie in base al QI o alla percentuale di intelligenza umana che hanno
raggiunto.
I cervelli dei mammiferi, come i loro corpi, seguono un piano generale
comune. Molti dei medesimi tipi di cellule, sostanze chimiche, tessuti, sotto-
organi, si trovano ovunque, tra di essi, e le maggiori differenze visibili sono
ingrossamenti o contrazioni di parti. Il numero di aree corticali varia
moltissimo, da venti o meno nei topi a cinquanta o più negli esseri umani. I
primati differiscono dagli altri mammiferi per il numero di aree visive, le loro
interconnessioni e il loro collegamento con le regioni motorie e decisionali dei
lobi frontali. Quando una specie è dotata di uno spiccato talento, esso si
riflette nell’anatomia globale del cervello, a volte in modi visibili a occhio
nudo. Ad esempio i pipistrelli che si affidano al sonar dispongono di aree
cerebrali addizionali designate all’ascolto ultrasonico. Anche il cervello umano
racconta una storia evoluzionistica. Il nostro cervello è circa tre volte troppo
grande per una scimmia generica delle nostre dimensioni corporee.
L’ingrossamento si compie perché la crescita fetale del cervello si prolunga
per un anno dopo la nascita. Se il nostro corpo, nello stesso periodo,
crescesse in proporzione, saremmo alti oltre tre metri e peseremmo mezza
tonnellata. I lobi e le zone maggiori del cervello sono stati anch’essi
ristrutturati. All’interno del sistema visivo, la prima fermata dell’informazione,
la corteccia visiva primaria, occupa una percentuale minore del cervello,
mentre le aree più tarde addette all’elaborazione di forme complesse si sono
ingrandite, e così le aree temporo-parietali, che instradano l’informazione
visiva verso le regioni del linguaggio e concettuali, ecc. Certe aree cerebrali
dei primati, inoltre, sono state adibite a nuove funzioni. L’area di Broca, che
ha a che vedere con la facoltà di parlare, ha un equivalente evoluzionistico
nelle scimmie, le quali tuttavia non se ne servono per parlare e nemmeno,
sembra, per produrre squittii, latrati e altri richiami. Nessuna creatura
razionale può consultare regole dall’inizio alla fine: questa «fine» porterebbe
a un regresso all’infinito. A un certo punto chi pensa deve eseguire una
regola, perché non può farne a meno: è così che funzionano gli esseri umani,
è un istinto. 5. La nicchia cognitiva: gli esseri umani raggiungono i loro
obiettivi tramite complesse catene comportamentali. Essi pianificano il
comportamento usando modelli cognitivi che apprendono nel corso della vita
e comunicano tramite il linguaggio, che consente il cumularsi della
conoscenza. A parte la ristrutturazione dello scheletro da cui ci viene la
posizione eretta e la precisione di manipolazione, ciò che ci rende inusuali è il
comportamento e i programmi mentali che lo organizzano. Malgrado diversi
handicap, sono gli esseri umani a decidere del destino delle tigri, non
viceversa. L’evoluzione umana è l’originale vendetta dei buoni a nulla. La
selezione naturale volta alla soluzione di un problema specifico tende a
modellare un idiot savant quanto formiche capaci di navigazione stimata e
uccelli che osservano le stelle. L’unica teoria dimostratasi all’altezza della
sfida è dovuta a John Tooby e all’antropologo Irven DeVore. Tooby e DeVore
iniziano osservando che le specie evolvono a spese l’una dell’altra. Ogni cibo
è parte del corpo di qualche organismo, che se lo terrebbe volentieri per sé.
Per evitare d’essere mangiati, gli organismi evolvono delle difese, e i
potenziali commensali, a loro volta, evolvono armi per vincerle, spingendo le
potenziali portate a evolvere difese migliori, e così via. Tali armi e difese si
modificano con lentezza. Gli esseri umani, suggeriscono Tooby e DeVore,
hanno occupato la «nicchia cognitiva». Imparando quali manipolazioni
raggiungono quali obiettivi, gli esseri umani ricorrono a linee d’azione
orientate all’obiettivo e innovative per superare la linea Maginot di organismi
che possono reagire soltanto in tempi evoluzionistici. Vivendo di espedienti, i
gruppi umani sviluppano tecnologie sofisticate e interi corpus di scienza
popolare. Tutte le culture umane documentate possiedono parole per
designare spazio, tempo, moto, velocità, stati mentali, utensili, flora, fauna,
condizioni meteorologiche e connettivi logici (non, e, stesso, opposto, parte-
tutto, generale-particolare). Essi combinano le parole in costrutti grammaticali
e ne usano i contenuti per ragionare su entità invisibili quali malattie, forze
meteorologiche e animali assenti. Tutti i popoli di cacciatori-raccoglitori
fabbricano coltelli, mortai, contenitori, cordame, reti, ceste, leve, lance e altre
armi. Usano fuoco, ripari e sostanze medicinali. La loro ingegneria testimonia
spesso notevole intelligenza: sfrutta i veleni, si serve del fumo per snidare gli
animali, fa uso di trappole a base di colla o di lacci, reti da pesca di vario tipo,
lenze ed esche, recinti per le bestie, ecc. La ricompensa è la capacità di
scassinare le casseforti di molti altri esseri viventi: animali nascosti in tane,
organi di immagazzinamento sotterranei di piante, noci, semi, midollo osseo,
animali e piante corazzati, uccelli, pesci, molluschi, tartarughe, ecc. Gli esseri
umani godono dell’iniquo vantaggio di poter attaccare, nel corso di una vita,
organismi che potranno potenziare le loro difese soltanto in vite successive.
Molte specie non sono in grado di evolvere difese neanche in tempi
evoluzionistici da difendersi contro di loro. La nicchia cognitiva comprende
molti dei caratteri zoologicamente inconsueti della nostra specie. La
fabbricazione e l’uso di utensili rappresentano l’applicazione di conoscenze
su cause ed effetti fra oggetti nello sforzo di raggiungere obiettivi. Il
linguaggio è un mezzo di scambio di conoscenze. Esso moltiplica i benefici
del sapere, che diviene possibile anche scambiare con altre risorse, e ne
abbassa il costo: permette di acquisire conoscenze grazie al sapere
duramente conquistato, ai colpi di genio e ai tentativi per prove ed errori
altrui, piuttosto che solo con rischiose esplorazioni e sperimentazioni in
proprio. L’informazione può essere condivisa a un costo trascurabile: se vi do
un pesce, non ce l’ho più, ma se vi do l’informazione su come pescarlo,
quest’informazione continuo ad averla. Uno stile di vita che sfrutti
l’informazione si addice al vivere in gruppo e al mettere in comune le
competenze, alla cultura cioè. 6. Perché noi?: io tenderei a pensare che i
nostri antenati avessero 4 caratteri che rendevano particolarmente facile e
remunerativo evolvere migliori capacità di ragionamento causale. Innanzi
tutto i primati sono animali visivi. Colore e profondità hanno stimolato il
cervello dei primati a dividere il flusso d’informazione visiva in due correnti: un
sistema «che cosa», per gli oggetti e le loro forme e composizioni, e un
sistema «dove», per le loro posizioni e movimenti. Un secondo possibile
prerequisito, che troviamo negli antenati comuni di esseri umani, scimpanzé e
gorilla, è la vita in gruppo. La maggior parte delle scimmie sono esseri sociali,
anche se non lo sono la maggior parte dei mammiferi. Vivere insieme ha dei
vantaggi. Un gruppo di animali non è molto più individuabile, da parte di un
predatore, di un animale singolo, e se viene individuato, la possibilità per ogni
singolo individuo di essere preso si distribuisce. Un secondo vantaggio sta
nell’efficienza nel procurarsi il cibo. Il vantaggio è evidente soprattutto nella
caccia cooperativa dei grandi animali, lupi e leoni per esempio, ma anche
quando si tratta di condividere e difendere risorse elementari deperibili troppo
grosse per essere consumate dall’individuo che le ha trovate, come un albero
carico di frutti maturi. Un animale più astuto, a vivere in gruppo, gode di un
doppio vantaggio: quello del sapere e quello di scambiare il sapere con
qualcos’altro. L’altro modo nel quale un gruppo può essere una fucina di
intelligenza sta nel fatto che vivere in gruppo pone nuove sfide cognitive. Gli
animali sociali rischiano il furto, il cannibalismo, che il partner li tradisca,
l’infanticidio, l’estorsione e altre perversità. Ogni creatura sociale sta in
equilibrio fra il godere i benefici e il subire i costi del vivere in gruppo, il che
crea una pressione che induce a cercare, diventando intelligenti, di stare
dalla parte giusta del confine. In molti tipi di animali, le specie dal cervello più
grande e dal comportamento più intelligente sono sociali: api, pappagalli,
delfini, elefanti, lupi, leoni marini e, naturalmente, scimmie, gorilla e
scimpanzé. Gli animali sociali inviano e ricevono segnali intesi a coordinare la
predazione, la difesa, la raccolta di cibo e l’accesso sessuale collettivo. Essi
si scambiano favori, pagano e pretendono il pagamento di debiti, puniscono
gli imbroglioni e aderiscono a coalizioni. Gli esseri umani non sono
eccezionali solo per intelligenza sociale, ma anche per intelligenza
meccanica e biologica. In una specie che funziona grazie all’informazione,
ogni facoltà moltiplica il valore delle altre. Un terzo prerequisito
dell’intelligenza è la mano. Le mani sono leve per influire sul mondo, e
rendono l’intelligenza qualcosa di cui vale la pena disporre. Mani di
precisione e intelligenza di precisione si sono evolute parallelamente nella
Storia umana. Mani finemente modellate sono inutili se si è costretti a
camminare su di esse tutto il tempo, e non avrebbero potuto evolversi da
sole. Ogni osso del nostro corpo è stato rimodellato per darci la posizione
eretta, che lascia libere le mani per i compiti di portare e manipolare cose. È
possibile che la posizione pienamente eretta si sia evoluta sotto più pressioni
della selezione: sbirciare sopra l’erba, mantenersi freschi, ecc. Ma stimoli
cruciali devono essere stati il trasporto e la manipolazione. Con le mani
libere, è possibile mettere insieme utensili con materiali reperiti in luoghi
diversi e portarli dove sono più utili, e cibi e bambini possono essere portati al
sicuro o in zone produttive. Un’ultima spinta propulsiva verso l’intelligenza
venne dalla caccia. La caccia, l’uso di utensili e l’andatura bipede costituivano
per Darwin la speciale, trinità che aveva reso possibile l’evoluzione umana. Si
pensa che la «donna raccoglitrice» fornisse una buona percentuale delle
calorie sotto forma di vegetali commestibili altamente elaborati, e questo
richiede acume meccanico e biologico. In una specie che vive in gruppo,
l’intelligenza sociale è un’arma non meno importante di lance e clave. Anche
nelle stime più conservatrici la carne, nella dieta degli esseri umani cacciatori-
raccoglitori, ha una parte molto maggiore che in quella di qualunque altro
primate. Può essere una delle ragioni per cui abbiamo potuto permetterci il
nostro costoso cervello. I nostri antenati sono stati a volte definiti dei miti
saprofagi, esseri che si nutrivano di carogne, piuttosto che degli arditi
cacciatori. Ma se è possibile che gli ominidi abbiano in qualche caso praticato
la saprofagia, probabilmente non vivevano di essa per i microrganismi che
avvelenano la carne, per i concorrenti, ecc. In mancanza di frigoriferi, un
buon posto in cui conservare la carne per i periodi di magra è il corpo di altri
cacciatori, che, quando la fortuna girerà, ricambieranno il favore. Il che
agevola le coalizioni maschili e lo scambio diffuso onnipresenti nelle società
di cacciatori-raccoglitori. La caccia è un’attività quasi del tutto maschile. Ne
consegue che i maschi possono investire la carne in eccedenza nei figli,
approvvigionando le donne incinte o le madri nutrici. Inoltre possono
barattare la carne con le femmine ottenendo in cambio cibi vegetali o favori
sessuali. Naturalmente, nessuno in realtà sa se il campo base per l’ascesa
all’intelligenza umana sia stato costituito da questi quattro prerequisiti. Se tali
requisiti spiegassero perché la specie cui appartengono i nostri antenati è
stata l’unica fra cinquanta milioni a seguire questa strada, ne seguirebbero
gravi implicazioni per la ricerca di intelligenza extraterrestre. 7. La moderna
famiglia dell’età della pietra: Milioni di anni prima che il nostro cervello si
ingrandisse, alcuni discendenti dell’antenato comune di scimpanzé e esseri
umani camminavano eretti. Liberate le mani, le specie successive fanno
passi avanti, uno dopo l’altro, nelle caratteristiche che ci contraddistinguono:
abilità delle mani, utensili sofisticati, dipendenza dalla caccia, dimensione del
cervello, varietà di habitat. La crescita graduale del cervello è una buona
dimostrazione che l’intelligenza è un prodotto della selezione naturale per lo
sfruttamento della nicchia cognitiva. Secondo la cronologia standard della
paleoantropologia, il cervello umano si è evoluto fino a giungere alla sua
forma moderna in un arco di tempo compreso fra la comparsa dell’Homo
habilis, due milioni di anni fa, e quella dell’«essere umano anatomicamente
moderno», l’Homo sapiens sapiens, fra i 200.000 e i 100.000 anni fa. La
svolta più sensazionale archeologicamente documentata, la transizione del
paleolitico superiore, detta anche Grande balzo in avanti o Rivoluzione
umana, dovette aspettare altri 50.000 anni. Quindi, si dice, la rivoluzione
umana dev’essere stata una svolta culturale. Il modo di vivere può
velocemente cambiare anche senza alcun mutamento biologico, come nelle
più recenti rivoluzioni agricola, industriale e dell’informazione. Il che è
specialmente vero quando una popolazione cresce al punto che le intuizioni
di migliaia di inventori possono essere messe insieme. Ma la prima
rivoluzione umana non fu una valanga di mutamenti innescata da invenzione
chiave. L’invenzione fu l’ingegnosità in sé, che si manifestò in centinaia di
innovazioni distanti le une dalle altre decine di migliaia di chilometri e di anni.
Non necessariamente i nostri antenati diretti sono rappresentati dalla
minuscola frazione di individui immortalati come fossili. I fossili
«anatomicamente moderni» sono più vicini a noi che a chiunque altro, ma, o
avevano ancora dell’evoluzione da compiere, o erano ai margini della
corrente di mutamento. E’ probabile e sospetto che la rivoluzione abbia avuto
inizio ben prima dello spartiacque di 40.000 anni fa. L’Eva mitocondriale di
200.000-100.000 anni fa ha reso molti altri tempi e luoghi non speciali. Se
europei e asiatici del Ventesimo secolo hanno un mDNA che è una variante
dell’mDNA africano di 200.000 anni fa, devono essere i discendenti di una
popolazione africana di allora. Gli europei e asiatici contemporanei di Eva
non hanno lasciato alcun mDNA negli europei e asiatici di oggi, e quindi
presumibilmente non ne sono gli antenati. La diaspora delle razze, e la fine di
una significativa evoluzione umana, dev’essere avvenuta molto dopo. Eva
non è la nostra più recente antenata comune. La data di nascita del più
recente antenato comune dell’Umanità lungo una linea tutta femminile, l’Eva
mitocondriale, allontana troppo nel tempo l’epoca in cui fra tutti gli esseri
umani era ancora in corso un processo di ibridazione. Secondo alcuni
genetisti circa 65.000 anni fa i nostri antenati, forse a causa di un
raffreddamento globale innescato da un vulcano a Sumatra, si ridussero ad
appena una decina di migliaia di persone. La razza umana si trovò in pericolo
come i gorilla di montagna di oggi. Poi si ebbe in Africa un’esplosione
demografica che vide la popolazione dividersi in piccole bande che migrarono
in altri angoli del mondo, forse accoppiandosi qua e là con altri esseri umani
incontrati nel corso delle loro migrazioni. Molti genetisti ritengono che
l’evoluzione sia particolarmente rapida quando popolazioni sparse si
scambiano occasionali migranti. La selezione naturale può adattare con
rapidità ogni gruppo alle condizioni locali, facendo sì che uno o più gruppi si
trovino all’altezza di qualsiasi nuova sfida si presenti, e i loro geni utili a tali
fini vengono poi fatti propri dai vicini. Forse questo periodo vide un’ultima
fioritura nell’evoluzione della mente umana. 8. E ora?: Se la specie si sta
evolvendo, lo sta facendo in modo troppo lento e imprevedibile perché si
possa sapere in che direzione. «Funzionalisti», quali gli psicologi Elizabeth
Bates e Brian MacWhinney, vedono «i processi selettivi in atto nella selezione
e i processi selettivi in atto nell’apprendimento come parte di un unico
uniforme tessuto naturale». Il funzionalismo è lamarckiano (bisogno sentito):
le giraffe allungano il collo quando adocchiano con l’acquolina in bocca foglie
al di là della loro portata. Un bisogno trova appagamento solo quando si
producono mutazioni capaci di costruire un organo che lo appaga, quando
l’organismo si trova in un ambiente nel quale il suo appagamento si traduce
in più figli che sopravvivono. I vizi umani sono la prova che l’adattamento
biologico è qualcosa che appartiene al passato. La nostra mente è adattata
alle piccole bande di cacciatori-raccoglitori nelle quali la nostra famiglia ha
passato il novanta per cento della sua esistenza, non al mondo sottosopra
che abbiamo creato a partire dalle rivoluzioni agricola e industriale. Non
siamo noi a indovinare che cosa sia adattivo per noi o i nostri geni; sono i
geni che ci danno pensieri e sensazioni che erano adattivi nell’ambiente in cui
i geni stessi furono selezionati.
La mia personale opinione è che i cervelli umani si siano evoluti in base a
una serie di leggi, quelle della selezione naturale e della genetica, e ora
interagiscano fra loro in base ad altre serie di leggi, quelle della psicologia
cognitiva e sociale, dell’ecologia umana e della Storia. A tracciare nel modo
più chiaro l’analogia fra selezione di geni e selezione di unità di cultura, da lui
chiamate «memi», è stato Richard Dawkins. Memi quali motivi musicali, idee
e storie, viaggiano da un cervello all’altro e a volte, nel trasmettersi, mutano.
Nuovi caratteri di un meme come il fatto di essere orecchiabile, seducente,
divertente o irrefutabile, faranno sì che esso diventi più condiviso. Le idee,
insomma, si evolvono per divenire più adatte a diffondersi. Un meme
complesso viene fuori grazie al fatto che qualcuno si mette al lavoro, chiama
a raccolta il suo ingegno e compone, scrive, dipinge, inventa qualcosa. I
modelli di trasmissione culturale gettano sì luce su altri aspetti della
trasformazione culturale, in particolare quelli demografici: come dei memi
possano divenire popolari o impopolari. Ma l’analogia è più con
l’epidemiologia che con l’evoluzione: essi vedono le idee come malattie
contagiose che causano epidemie, piuttosto che come geni proficui che
causano adattamenti. E spiegano come le idee divengano popolari, non da
dove nascono. La selezione naturale ha progettato la mente perché fosse un
elaboratore d’informazione, e ora la mente percepisce, immagina, simula e
pianifica. Quando le idee circolano vengono valutate, discusse, migliorate o
respinte. Una mente che accettasse passivamente memi ambientali sarebbe
facile oggetto di sfruttamento altrui, e dalla selezione sarebbe stata
velocemente scartata. Il genetista Theodosius Dobzhansky ha scritto, com’è
arcinoto, che nulla in biologia ha senso se non alla luce dell’evoluzione.
Possiamo aggiungere che nulla nella cultura ha senso se non alla luce della
psicologia. L’evoluzione ha creato la psicologia, ed è così che essa spiega la
cultura. Il più importante vestigio dei primi esseri umani è la mente moderna.
6. TESTE CALDE
1. Passione universale: Le culture, certo, differiscono per la frequenza con
cui questa o quell’emozione viene espressa, fatta oggetto di discorso o
seguita da un’azione. Questo, tuttavia, non dice nulla su quello che gli
appartenenti ai vari popoli provano. I più accessibili segni delle emozioni sono
le espressioni facciali spontanee. Darwin giunse alla conclusione che «in tutto
il mondo lo stesso stato d’animo viene espresso con notevole uniformità. Lo
psicologo Paul Ekman raccolse una serie di fotografie di persone che
esprimevano sei emozioni, le mostrò a membri di numerose culture e chiese
loro di dare un nome a ogni emozione o di raccontare che cosa poteva
essere successo a ognuna di quelle persone. Tutti riconobbero la felicità, la
tristezza, l’ira, la paura, il disgusto e la sorpresa. Nonostante varie polemiche,
tra cui l’accusa di fascismo, in Ekman ha trovato conferma un’altra
osservazione di Darwin: nel volto dei bambini sordi e ciechi dalla nascita si
esprime tutta o quasi la gamma delle emozioni. Nuove parole che designano
emozioni fanno presa in fretta, senza bisogno di tortuose definizioni. Le
emozioni delle persone sono così simili che per crearne una davvero aliena ci
vuole un filosofo. Per noi l’orina di mucca è qualcosa di contaminante, mentre
le secrezioni mammarie delle mucche sono qualcosa di nutriente; in un’altra
cultura le categorie possono essere invertite, ma tutti proviamo disgusto per
ciò che contamina. In ogni caso, la mancanza di rispetto genera ira. Margaret
Mead ha propagato l’incredibile tesi che i samoani non conoscono passioni:
niente accessi di collera fra genitori e figli o fra un marito tradito e il seduttore,
niente vendette, nessun amore o lutto duraturo, niente preoccupazioni
materne, nessuna tensione nella vita sessuale, nessun turbamento
adolescenziale. Derek Freeman e altri antropologi hanno scoperto che nella
società samoana erano in realtà diffusissimi il risentimento e la delinquenza
fra gli adolescenti, il culto della verginità, lo stupro, le rappresaglie da parte
della famiglia della donna violentata, la frigidità, le dure punizioni inferte ai
bambini, la gelosia sessuale e intensi sentimenti religiosi. Ekman ha mostrato
che le culture differiscono soprattutto per come le emozioni sono espresse in
pubblico. Ha filmato di nascosto le espressioni di studenti americani e
giapponesi mentre guardavano un raccapricciante documentario su un rito di
pubertà primitivo. Se a intervistarli, nella sala, c’era un ricercatore in camice
bianco, gli studenti giapponesi sorridevano educatamente alle scene di fronte
alle quali gli americani inorridivano. Ma, da soli, giapponesi e americani
mostravano nel volto lo stesso raccapriccio. 2.Macchine emotive: Il
problema, quando si parla di emozioni è che sono state progettate per
diffondere copie dei geni che le hanno prodotte, piuttosto che per promuovere
felicità, sapienza o valori morali. Paul MacLean ha preso la dottrina romantica
delle emozioni e l’ha tradotta in una teoria famosa, ma sbagliata, detta del
«cervello trino»(gangli della base, sistema limbico e neocorteccia). Un
problema della teoria del cervello trino è che le forze dell’evoluzione non si
limitano ad accumulare strati su fondamenta immutate. La selezione naturale
deve lavorare con ciò che c’è già, ma può modificare quanto trova. Può darsi
che la selezione naturale non abbia avuto una piena libertà di riprogrammare
le emozioni, ma ne ha avuta parecchia. Le emozioni possono essere
scatenate dal leggere una lettera in cui l’innamorata ti comunica di essersi
messa con un altro o dal tornare a casa e trovare un’ambulanza davanti al
portone. Esse, inoltre, aiutano ad architettare complessi piani di fuga,
vendetta, carriera, corteggiamento. Il primo passo per fare ingegneria inversa
sulle emozioni consiste nel cercare di immaginare come sarebbe una mente
senza di esse. Si suppone che Mr Spock, il cervellone di Vulcano in Star
Trek, non abbia emozioni (tranne che per occasionali intrusioni dal suo lato
umano e un desiderio intenso che ogni sette anni lo riporta a Vulcano). Ma la
mancanza di emozioni di Spock significa solo che mantiene il controllo, non
perde la testa, dice freddamente spiacevoli verità, ecc. Deve avere impulsi
che lo spingono a usare l’intelletto per il perseguimento di certi obiettivi
piuttosto che di altri. L’intelligenza è il perseguimento di obiettivi al di là di
ostacoli. Senza obiettivi, lo stesso concetto di intelligenza è senza significato.
Nei sistemi di intelligenza artificiale l’obiettivo viene dal programmatore. Il
programmatore progetta il tutto per diagnosticare le malattie della soia o
predire l’indice Dow Jones del giorno dopo. Negli organismi viene dalla
selezione naturale. Il cervello fa di tutto per mettere il suo padrone in
condizioni simili a quelle che hanno fatto sì che i suoi antenati si
riproducessero. La chiave del perché noi abbiamo delle emozioni sta qui. Un
animale non può perseguire tutti i suoi obiettivi contemporaneamente. Deve
impegnare il suo corpo su un obiettivo per volta, e gli obiettivi vanno messi in
corrispondenza con i momenti migliori per raggiungerli. Le emozioni sono
meccanismi che impostano gli obiettivi supremi del cervello. Una volta
innescata da un momento propizio, un’emozione innesca pensiero e azione.
Fra pensiero ed emozione non c’è un confine netto. La maggior parte dei
ricercatori nel campo dell’intelligenza artificiale ritiene che per programmare
dei robot capaci di comportamento autonomo si debba dotarli, di qualcosa di
simile alle emozioni. Ogni emozione umana mobilita mente e corpo perché
affrontino una delle sfide poste dal vivere e riprodursi nella nicchia cognitiva.
3.La savana suburbana: Alcuni luoghi sono invitanti, rasserenanti o belli;
altri deprimono o incutono timore. Ciò che in biologia è chiamato «selezione
di habitat» corrisponde, nel caso dell’Homo sapiens, a ciò che in geografia e
architettura è detto «estetica ambientale»: in quali tipi di posto ci piace stare.
L’Homo sapiens è adattato a due habitat. Uno è la savana africana, in cui si è
compiuta la massima parte della nostra evoluzione. Il nostro habitat di
seconda scelta è il resto del mondo. Se abbiamo potuto permetterci di
vagabondare così, è grazie al nostro intelletto. Quando esplorano un nuovo
territorio, gli esseri umani disegnano delle sue risorse una mappa mentale,
ricca di dettagli per quanto concerne acqua, piante, animali, itinerari e rifugi.
Inoltre, se possono, trasformano la loro nuova patria in una savana. Il biologo
George Orians ha avanzato la tesi che il meccanismo che ha spinto i nostri
antenati in habitat adatti è il nostro senso della bellezza naturale. È innato in
noi trovare le savane belle, ma ci piacciono anche i territori facili da esplorare
e ricordare, e dove abbiamo vissuto abbastanza a lungo da conoscerli a
fondo. I paesaggi ritenuti più belli erano ritratti perfetti di una savana ideale:
spazi semiaperti, rivestimenti erbosi omogenei, vedute fino all’orizzonte,
grandi alberi, acqua e molti sentieri di uscita. Il geografo Jay Appleton ha
colto ciò che rende un paesaggio attraente: veduta panoramica e rifugio. Per
Stephen e Rachel Kaplan invece: sentieri che girano attorno a colline, ruscelli
serpeggianti, radure nella vegetazione, vedute parzialmente coperte ci
attraggono perché suggeriscono che potrebbe esserci qualcosa di importante
da scoprire. La gente, inoltre, ama guardare gli animali e le piante, specie i
fiori. I fiori sono messaggeri di crescita: segnano, per creature abbastanza
intelligenti da ricordarlo, il punto in cui apparirà più avanti il frutto, la noce o il
tubero. Certi accadimenti naturali, come il calare del sole, il tuono, parlano di
un imminente e significativo cambiamento: il giungere delle tenebre, di un
temporale, il divampare di un incendio. L’estetica ambientale è per noi
fondamentale. Lo stato d’animo dipende da ciò che ci circonda. 4. Cibo del
pensiero: Il disgusto è un’emozione umana universale, segnalata da una
specifica espressione facciale e codificata ovunque in tabù alimentari. Il
disgusto è palesemente irrazionale. Chi prova nausea all’idea di mangiare
qualcosa di disgustoso dirà che fa male. Ma troverà uno scarafaggio
sterilizzato rivoltante tanto quanto uno tirato fuori vivo dalla credenza, e se
quello sterilizzato viene immerso anche solo per un istante in una qualunque
bevanda, rifiuterà di berla. Il disgusto è la paura di introdurre nel proprio
corpo una sostanza nociva. Mangiare è il modo più diretto per introdurre nel
corpo una sostanza e infatti il pensiero più orripilante che una sostanza
disgustosa possa suscitare è quello di mangiarla. Il disgusto dissuade dal
mangiare certe cose o, se è troppo tardi, induce a sputarle o vomitarle.
Quando qualcuno si astiene dal mangiare dei vegetali, fave o cime di rapa
per esempio, è perché hanno un gusto amaro o acre. Non solo ciò che
disgusta viene sempre da animali, ma ciò che viene da animali quasi sempre
disgusta. Le parti di animali non disgustose sono l’eccezione. Di tutte le parti
di tutti gli animali del creato, gli uomini mangiano una frazione infinitesimale,
e tutto il resto è intoccabile. Ciò che è disgustoso contamina tutto quello che
tocca, per quanto il contatto sia breve o gli effetti invisibili. L’idea che sta
dietro il rifiuto di una bevanda rimestata con un acchiappamosche o in cui si
sia immerso uno scarafaggio sterilizzato è che vi sono rimasti dentro degli
invisibili elementi contaminanti, quelli che a volte chiamiamo germi. Rozin
stesso fa notare, tutti gli animali sono disgustosi tranne i pochi permessi. A
nessun bambino c’è bisogno di insegnare a provare repulsione per cose
come budella di marmotta o carne di scimmia. Cashdan ha avuto un’idea
migliore. I primi due anni, è la sua ipotesi, costituiscono un periodo cruciale
per l’apprendimento in materia alimentare. In questo periodo le madri
controllano i cibi che i figli ingeriscono e i bambini mangiano tutto ciò che è
loro permesso. Poi i loro gusti conoscono una spontanea contrazione, e
tollerano solo i cibi consentiti in quegli anni cruciali. Tali avversioni possono
durare fino all’età adulta. Rozin ha avanzato l’ipotesi che il disgusto sia un
adattamento che è servito a dissuadere i nostri antenati dal mangiare
sostanze animali pericolose. Negli escrementi, nelle carogne e nelle parti
molli e umide degli animali, i microrganismi nocivi si trovano a casa loro, e
quindi bisogna tenerli fuori dal corpo. I bambini usano i loro più anziani
familiari come i re usavano una volta gli assaggiatori: se mangiano qualcosa
e non muoiono, non è veleno. Per questo i bambini molto piccoli sono
recettivi a qualunque cosa i genitori diano loro da mangiare, e quando
diventano abbastanza grandi da mangiare da soli, evitano tutto il resto. L’idea
che ciò che è disgustoso contamini tutto quello che tocca è un puro e
semplice adattamento a un dato di fatto fondamentale riguardante il mondo
vivente: i germi si moltiplicano. Nella maggior parte degli habitat, non solo
mangiare animali grandi è più efficiente, ma i piccoli vanno proprio evitati: il
tempo che richiede raccoglierli è meglio spenderlo cacciando qualcosa di più
remunerativo. Nella mente dei mangiatori tutto ciò che non è permesso è
vietato, quindi queste culture li trovano disgustosi. Harris osserva che i tabù
alimentari hanno spesso un senso ecologico ed economico. Ebrei e
musulmani erano tribù del deserto, e i maiali sono animali della foresta. Essi
competono con gli uomini per l’acqua e cibi nutrienti come noci, frutta e
verdura. In ogni gruppo i membri più giovani, più poveri e con meno diritti
possono essere tentati di disertare a favore di altri gruppi. I potenti, specie se
parenti, hanno interesse a non farli andar via. Ovunque le persone formano
alleanze mangiando insieme. Spesso i tabù alimentari proibiscono un cibo
preferito da una tribù vicina; è così, per esempio, per molte leggi dietetiche
ebraiche. Il che fa pensare che essi siano armi per tenere nel gruppo i
potenziali disertori. Gli alimenti tabù sono assenti nel periodo cruciale in cui si
apprende a preferire dei cibi piuttosto che altri, e questo basta perché i
bambini crescano trovandoli disgustosi. I bambini diventano poi genitori e
fanno la stessa cosa con i propri figli. 5. L’odore della paura: Paure e fobie
compongono una lista breve e universale. Fanno sempre paura serpenti e
ragni. Ricerche sulle fobie degli studenti universitari hanno rivelato che sono
l’oggetto più comune di spavento e ribrezzo, ed è così da lungo tempo nella
nostra storia evoluzionistica. Altre paure comuni sono quelle suscitate
dall’altezza, dai temporali, dai grandi carnivori, dal buio, dal sangue, dagli
estranei, dal trovarsi imprigionati, dalle acque profonde, dal giudizio sociale e
dal lasciare la famiglia d’origine per andare a vivere da soli. Il filo che le lega
è evidente. Si tratta delle situazioni che mettevano in pericolo i nostri antenati
nell’evoluzione. Lo psichiatra Isaac Marks ha mostrato come le persone
reagiscano diversamente a seconda della fonte di paura, adeguando ogni
reazione al rischio. La prova migliore che le paure sono adattamenti e non
semplici capricci del sistema nervoso è che gli animali che si sono evoluti su
isole prive di predatori perdono la paura e diventano facile preda di
qualunque invasore. I bambini sono inquietati dai topi, e i topi dalle stanze
luminose, ancor prima di qualunque condizionamento, e facilmente li
associano con il pericolo. Secondo lo psicologo Martin Seligman, un animale
può essere condizionato ad avere paura solo quando è evoluzionisticamente
preparato a una certa associazione. Marks e lo psichiatra Randolph Nesse
sostengono che le fobie sono paure innate che non sono mai state
disimparate. Le paure si sviluppano spontaneamente nei bambini. Nel primo
anno di vita, essi temono gli estranei e la separazione, ed è giusto che sia
così, perché infanticidio e predazione sono gravi minacce per i piccoli
cacciatori-raccoglitori. La maggior parte delle fobie adulte sono paure infantili
mai passate. Per questo sono gli abitanti delle città ad avere più paura dei
serpenti. Come avviene nel caso dell’apprendimento dei cibi sicuri, le migliori
guide ai pericoli di uno specifico ambiente sono coloro che vi sono
sopravvissuti. I bambini hanno paura di ciò di cui vedono che hanno paura i
genitori, e spesso disimparano le loro paure quando vedono altri bambini farvi
fronte. La capacità di vincere selettivamente la paura è un’importante
componente dell’istinto. Dal passare attraverso eventi relativamente sicuri
che assomigliano a pericoli ancestrali, e come tali vengono percepiti,
vengono l’emozione detta «euforia» e tutta una serie di svaghi. 6.Ingrata
felicità: La funzione della felicità consisterebbe nel mobilitare la mente alla
ricerca delle chiavi del benessere darwiniano. Perché l’ottimo non sia nemico
del bene, occorre che il perseguimento della felicità sia tarato su ciò che è
ottenibile con sforzi ragionevoli nell’ambiente in cui ci si trova a vivere. Una
buona fonte di informazioni è ciò che hanno ottenuto gli altri. Se possono
averlo loro, forse possiamo averlo anche noi. Le persone sono felici quando
stanno meglio del loro prossimo, infelici quando stanno peggio. Le persone si
adattano alle circostanze, buone o cattive, come gli occhi si adattano al sole
o al buio. Da questo punto neutro in poi, il miglioramento è felicità, la perdita
infelicità. La gente arriva a sentirsi allo stesso modo attraverso una gamma
impressionante di fortune e disgrazie. La condizione standard cui si adatta,
tuttavia, è la soddisfazione. La correlazione fra ricchezza e soddisfazione è
positiva, ma bassa. Chi vince alla lotteria, una volta passato l’accesso di
felicità, torna allo stato emotivo di prima. E lo stesso avviene, in senso
opposto, a coloro che hanno subìto terribili perdite. La tragedia della felicità
ha un terzo atto. Le emozioni negative (paura, dolore, ansia e via dicendo)
sono il doppio di quelle positive, e le perdite vengono sentite più acutamente
dei guadagni equivalenti. Man mano che la situazione migliora, i ricavi in
termini di accresciuto benessere diminuiscono: più cibo è meglio, ma solo
fino a un certo punto. Man mano che la situazione peggiora, invece, il
decrescere del benessere può finire per escluderti dal gioco. Donald
Campbell: «Il perseguimento diretto della felicità è la ricetta di una vita
infelice». 7.Il canto delle sirene: È razionale scontare il futuro: consumare
una risorsa oggi, a meno che investirla non porti remunerazione abbastanza
alta. Il tasso d’interesse che dovreste chiedere dipende da quanto sono
importanti per voi i soldi oggi, da quante probabilità avete di riaverli e da
quanto vi aspettate di vivere. La lotta per riprodursi è una sorta di economia,
e tutti gli organismi, persino le piante, devono «decidere» se usare le risorse
subito o metterle da parte per il futuro. La maggior parte delle decisioni sul
futuro è presa dalla mente. A volte la decisione razionale è «ora», specie
quando la vita è breve o non c’è domani. Perlopiù siamo abbastanza sicuri di
non morire nel giro di pochi minuti. Ma un giorno tutti moriremo, e tutti
rischiamo di rinunciare alla possibilità di godere qualcosa, se lo
procrastiniamo troppo a lungo. Con tutta probabilità noi abbiamo evoluto un
meccanismo per valutare la nostra longevità e le opportunità e i rischi
presentati da differenti scelte, e sintonizzarvi le emozioni. Lo studioso di
scienze politiche James Q. Wilson e lo psicologo Richard Herrnstein hanno
fatto notare che molti criminali agiscono come se scontassero radicalmente il
futuro. I due studiosi attribuiscono tale comportamento dei criminali a scarsa
intelligenza, ma gli psicologi Martin Daly e Margo Wilson ne danno una
diversa spiegazione. Nei quartieri degradati delle città americane la speranza
di vita per i maschi giovani è bassa, ed essi lo sanno. Inoltre, l’ordine sociale
e i diritti di proprietà a lungo termine che garantirebbero il ritorno degli
investimenti sono inaffidabili. Più difficile da interpretare è lo scontare il futuro
quando è una scelta miope: la tendenza che abbiamo tutti a preferire una
grande ricompensa dopo a una piccola prima, per poi, man mano che il
tempo passa e le due ricompense si avvicinano, invertire la preferenza.
Schelling: di fronte alla tentazione di rompere la dieta con un dolce, possiamo
sentire lottare dentro di noi due specie di motivazioni ben diverse, una che
reagisce alla vista e al profumo, l’altra ai consigli del medico. 8. Io e tu: La
selezione naturale è l’effetto cumulativo dei successi relativi di replicatori
diversi. Favorisce i replicatori che si replicano meglio, cioè quelli egoisti.
L’ineludibile dato di fatto che gli adattamenti vanno a beneficio del replicatore
è stato esposto per la prima volta dal biologo George Williams e in seguito
sviluppato da Richard Dawkins in Il gene egoista. Gli animali si comportano
da egoisti a causa del modo in cui i loro circuiti emotivi sono cablati. È degno
d’interesse dal punto di vista psicologico, che gli animali non sentano in
genere il benessere osservabile di altri animali come un proprio piacere. E
ancora più interessante è che a volte lo sentano. Se gli organismi fossero
replicatori, tutti gli organismi dovrebbero essere egoisti. Ma a replicarsi
veramente sono stati solo i geni e frammenti di geni le cui copie sono arrivate
a voi, alcune delle quali voi passerete a vostra volta ai vostri figli, e così via.
Sono i geni a replicarsi e sono i geni, non i corpi, a dover essere egoisti. Il
DNA «egoista» significa «che agisce in modo da rendere la propria
replicazione più probabile». Il modo di un gene di farlo, in un animale dotato
di cervello, consiste nel cablare il cervello affinché piaceri e dolori
dell’animale lo inducano a comportamenti che hanno come esito più copie del
gene. Un gene che ha costruito un cervello che ha fatto sì che il suo
proprietario facesse del bene ai propri consanguinei ha indirettamente
contribuito a replicare se stesso. Quando un animale agisce a beneficio di un
altro animale con un costo per se stesso, i biologi parlano di altruismo.
Quando l’altruismo si evolve perché l’altruista è imparentato con il
beneficiario e quindi il gene generatore di altruismo beneficia se stesso,
parlano di kin selection, o selezione di parentela. In realtà ciò è amore. I geni
«cercano» di disseminare se stessi cablando i cervelli degli animali in modo
che questi ultimi amino i loro consanguinei e cerchino di tenerli al caldo, dar
loro da mangiare e offrire loro sicurezza. I geni vivono in un universo
parallelo, sparsi fra i corpi, con i loro propri ordini del giorno. Vorrei offrire
perciò un modo più ottimistico di pensare al gene egoista. Il vostro mal di
denti non mi fa male come fa male a voi. I geni, però, non sono imprigionati in
corpi: lo stesso gene vive nei corpi di molti membri della famiglia nello stesso
tempo. Amore, compassione ed empatia sono fibre invisibili che collegano
geni di corpi diversi. Gli animali non sono amabili solo con i loro
consanguinei. L’altruismo reciproco è effettivamente praticato da alcune
specie, non da molte però, perché si evolve solo in speciali condizioni. Un
animale dev’essere in grado di garantire un grande beneficio a un altro a un
costo limitato per sé, e i ruoli devono ruotare in continuazione. Il nostro modo
di vivere e la nostra mente sono particolarmente adattati alle richieste
DESCRIZIONE APPUNTO
Riassunto per l'esame di filosofia della mente, basato su appunti personali e studio autonomo del testo consigliato dal docente Pietro Perconti: Come funziona la mente? di S. Pinker(cap 1-2-3-6). Gli argomenti trattati sono: funzionamento robot, funzionamento mente, psicologia evoluzionistica, MSSS, macchina di Turing, connettoplasma, coscienza, selezione naturale, emozioni, autoinganni.
I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher inzaghino di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Filosofia della mente e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Messina - Unime o del prof Perconti Pietro.
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