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FAMILIARIS.
Il GENIO è il DIO DELLA GENEALOGIA DOMESTICA.
È nella casa che i figli vengono generati e dati alla luce.
Il modello ideale di FAMIGLIA riunisce sotto lo stesso tetto TRE
GENERAZIONI in cui uomini restano sottomessi all’autorità del bisavolo.
Alla sua morte, la famiglia si divide in tante nuove famiglie quanti sono gli
uomini della generazione successiva.
Una casa è perciò abitata idealmente da tutti figli, nipoti e pronipoti, con le loro
spose e un antenato comune ancora in vita.
Perché TRE GENERAZIONI?
Perché questo lasso di tempo corrisponde a quello che i Romani chiamano
un’«EPOCA», MEMORIA, cioè il tempo del quale ciascuno si ricorda
personalmente.
La normale longevità dei Romani non permette loro di vivere oltre il discendente
di terzo grado: un uomo potrà conoscere al massimo il bisnonno e i pronipoti.
94
Queste sei generazioni costituiscono ciò che i Romani chiamano i PARENTES.
Durante la FESTA DEI MORTI, i PARENTALIA, sono venerati gli cui che i vivi
hanno conosciuto, il che unisce i parenti dei più giovani a quelli dei più anziani.
Al di là di questo limite, il film della memoria si spezza perché non ci sono più
testimoni diretti, e gli altri antenati formano la massa dei MAIORES, «I PIÙ
ANZIANI».
È questa stessa dimensione di TRE GENERAZIONI che si ritrova nel diritto
quando si parla di EREDITÀ e di DIVIETO D’INCESTO.
Tutte le ragazze della casa sono delle «SORELLE» e come tali non sposabili
dagli uomini della famiglia.
Questa FAMIGLIA ROMANA definita da tre generazioni si estende
orizzontalmente fino ai parenti di SESTO GRADO, cioè ai figli dei cugini primi
dei genitori (CFR. TABELLA).
A Roma conta soltanto la filiazione da parte di padre, e la famiglia comprende
esclusivamente i parenti paterni; il DIVIETO DI INCESTO non si estende al di
là dei fratelli, delle sorelle, degli zii, zie e cugini paterni.
La regola è chiara, È VIETATO SPOSARE UNA DONNA CON CUI SI
POTREBBE COABITARE SE IL MATRIMONIO FALLISSE (regola che si
modificò un po’ nel II secolo a.C., quando la famiglia si limitò al QUARTO
GRADO, e al tempo stesso si prese l’abitudine di sposare la figlia della sorella
del padre, cugina incrociata da parte di padre, con la quale non si ha nessuna
parentela).
A CAPO DELLA FAMIGLIA, non c’è che una sola autorità, quella del
GENITORE, il PADRE DI FAMIGLIA che regna sui figli, i nipoti e i pronipoti.
Che restino materialmente nella casa oppure no, o dal nonno o addirittura dal
bisnonno finché questi sono in vita.
Nessun Romano sotto patria potestà può trattare affari per proprio conto o
possedere qualcosa, a meno che il padre non lo emancipi, il che capita abbastanza
spesso. 95
Capita inoltre che il padre gli affidi un PECULIO come a uno schiavo, ma di ben
altra importanza.
In effetti, il FIGLIO può benissimo essere edile o pretore ed avere perciò bisogno
di molto denaro.
Le DONNE che si sposano in questa casa devono per forza provenire
dall’esterno, e posseggono uno statuto differente a seconda del tipo di
matrimonio che hanno contratto:
o cambiano casa, lasciando quella del padre per passare in quella del
marito, e ricevono lo statuto di figlie di quella casa,
oppure continuano a far parte della casa paterna e sono soltanto di
passaggio nella casa del marito, allo scopo di dargli dei figli.
Questo modello di CASA PATRIARCALE non è l’intenzione di un giurista
romano o la traccia fossile di abitudini arcaiche.
I Romani amano vivere con i loro parenti, e le grandi famiglie che abitano sotto
lo stesso tetto sono sempre esistite, sia tra i ricchi che tra i poveri.
Tuttavia, i GIOVANI MEMBRI della famiglia lasciano la casa paterna quando
all’improvviso la fortuna sorride loro e vedono delinearsi un destino ben
differente da quello che aspetta gli altri membri.
Spesso, l’ambizione fa anticipare la rottura con la famiglia. Vanno a stabilirsi in
dimore di fortuna, carissime ma vicine al Foro.
Però, questi giovani, lontani dai genitori e dalla loro casa, diventano facile preda
delle donne di malaffare, degli usurai, e si lasciano coinvolgere in amicizie
politiche ambigue: CESARE riunì attorno a sé molti di questi ragazzi senza un
soldo e stanchi della tutela del padre, pensando inconsciamente alla loro morte e
alla loro eredità. 96
LA FAMIGLIA, LA STIRPE E LA NOBILTÀ.
Una famiglia romana appartiene a una comunità più vasta, la STIRPE: GENS.
Ma questa comunità non possiede né un preciso luogo d’origine né una realtà
sociale.
La STIRPE appare accanto al nome.
Si dice la GENS FABIA oppure i FABII, talvolta si aggiunge un soprannome allo
scopo di distinguere per esempio i CORNELII SCIPIONI dagli altri CORNELII.
Siccome il nome viene trasmesso attraverso:
la nascita,
l’adozione o
l’affrancamento,
e a Roma c’è una grande mobilità sociale, l’appartenenza a una stirpe non
conferisce nessuna nobiltà, nessuna dignità.
L’esistenza delle STIRPI in quanto comunità si manifesta solo in due occasioni:
l’EREDITÀ e
le CERIMONIE RELIGIOSE.
Quando un Romano non ha eredi nella sua famiglia, cioè un parente almeno del
sesto grado, l’eredità torna alla stirpe.
Le STIRPI, inoltre, sono depositarie dei riti e dei culti che vanno celebrati
nell’interesse di tutti.
La nobiltà non è questione di STIRPE o di NOME, ma si costruisce o si
distrugge nell’ambito della casa, della famiglia.
«TRE PADRI», questa è la durata richiesta per consolidare la propria nobiltà: un
padre, un nonno, un bisnonno che abbiano esercitato ciascuno una
MAGISTRATURA SUPERIORE.
Per essere NOBILE, è necessario che il bambino sia stato sottomesso all’autorità
di parenti magistrati.
Una FAMIGLIA NOBILE è una casa in cui tutti gli uomini hanno esercitato
delle magistrature superiori. 97
Il letto coniugale simbolico che si trova nel TABLINO ricorda che la casa è fatta
per accogliere una donna destinata ad essere madre.
Non ha importanza che il matrimonio la faccia veramente entrare nella casa,
oppure che sia una coabitazione successiva alla firma di un contratto: questo
MATRIMONIO ha sempre la funzione di trasformare lo status di una DONNA:
da quello di RAGAZZA, VIRGO,
in quello di MADRE, MATER.
Il matrimonio si compie definitivamente alla nascita del primo bambino, e non è
altro che la procreazione dei figli: ciò che conta è che i figli nascano nella CASA,
indipendentemente dal fatto che la madre sia sottomessa all’autorità del padre o
del marito.
La SPOSA è di età variabile, a seconda che celebri il suo primo matrimonio
oppure il successivo.
I giovani Romani si sposano molto presto, anche se la legge VIETA ALLE
RAGAZZE DI SPOSARSI A UN’ETÀ INFERIORE AI 12 ANNI; matrimoni
tanto più prematuri, dal momento che le ragazze entrano nella pubertà più tardi
rispetto ai giorni nostri.
Spesso nelle famiglie nobili il matrimonio è preceduto da un lungo fidanzamento
allo scopo di avvicinare le famiglie; capita che queste giovanissime fidanzate
vengano ad abitare nella casa del futuro sposo.
Che si tratti del primo matrimonio oppure no, la SPOSA viene vestita a casa sua
dalle donne della famiglia:
il volto rimane nascosto dal velo rosso, mentre
l’abito consiste in una semplice tunica bianca trattenuta da una cinta
annodata in modo particolare, che il marito dovrà sciogliere.
I capelli sono separati in sei ciuffi, pettinati con un ferro appuntito e legati
con dei nastri.
Il marito arriva nella casa del padre e prende nella sua mano destra la mano
destra della sposa: in questo modo viene sancita la PROMESSA DI FEDELTÀ.
98
Successivamente ha luogo il BANCHETTO NUZIALE che riunisce i parenti
delle due famiglie, che attesta la loro nuova amicizia.
Alla fine del banchetto il marito finge di rapire la moglie strappandola dalle
braccia della madre; un corteo conduce la ragazza nella casa del marito.
La SPOSA porta un fuso e una conocchia, e tiene per mano due bambini che
hanno ancora i genitori, mentre un terzo bambino fa loro strada agitando una
torcia di biancospino.
Le persone del corteo ridono e dicono delle sconcerie.
Arrivata alla soglia di casa, la giovane SPOSA circonda la porta con dei fioli di
lana e la spalma di lardo e d’olio.
Lo SPOSO, che l’aspetta all’interno, le chiede il suo nome di battesimo; siccome
le donne non portano il nome di battesimo, gli risponde: «Dove sarai Gaio io sarò
Gaia».
Allora la sposa viene sollevata da terra affinché non tocchi con i piedi la soglia di
casa.
Questo perché soltanto gli estranei entrano in casa, mentre i membri della
famiglia non sono mai entrati per la prima volta, ma vi sono nati.
L’indomani mattina, la sposa porta il costume delle matrone, cioè delle madri o
delle donne incinte, e fa un’offerta ai Lari e ai Penati.
Ormai due destini l’attendono:
potrà avere la fortuna di essere feconda e di mettere al mondo tre o più
bambini; sarà quindi una madre rispettata, una sposa invidiabile, e
apparterrà alla comunità.
Altrimenti sarà sterile e potrà presto venire ripudiata. Tornata a casa del
padre con la sua dove, diventerà alla morte di quest’ultimo una donna
quasi libera che dimenticherà negli affari e nei divertimenti amorosi il suo
fallimento di matrona.
Ma molte spose muoiono prima di conoscere uno di questi due destini.
I parti e le loro conseguenze patologiche fanno strage delle donne di età
compresa fra i 16 e i 35 anni. 99
La lista delle giovani madri morte di parto è lunga, anche se tuttavia si conoscono
poche storie di donne romane.
I parti uccidono più delle guerre. 100
LE MADRI.
Questo disequilibrio fra il numero di uomini desiderosi di sposarsi e le donne che
potevano aver figli, ebbe come conseguenza a partire dal II secolo il moltiplicarsi
dei divorzi e dei matrimoni successivi delle donne in età feconda, a tutti i livelli
sociali.
Una sposa che ha dato prova della sua fecondità andrà di casa in casa per mettere
al mondo dei figli.
Certamente, i numerosi matrimoni sono per la nobiltà un modo di ingrandire la
rete delle relazioni e degli aiuti politici.
Ma questo non serve a spiegare il fenomeno nelle famiglie della plebe e dei
piccoli notabili di provincia, presso le quali divorzi e matrimoni successivi sono<