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ONOMASIA FEMMINILE:
il PRIMO è rappresentato dalle donne indicate con un solo nome:
ANICIA, ROSCIA, AULIA, PLAUTIA. Un nome unico, dunque, che di
regola è il nome della gens femminilizzato, e di cui l’esempio più antico è
il nome VETUSIA, inciso su una coppa argentea rinvenuta a Preneste
nella tomba Bernardini, databile al 670 a.C.;
un SECONDO tipo di onomasia, poi, è rappresentato dal NOMEN
gentilizio accompagnato dal patronimico, vale a dire dal prenome del
pater al genitivo, a volte seguito da FILIA (ad esempio: CLAUDIA GAII
FILIA);
un TERZO, è quello che fa seguire il nome della donna dal gamonimico: il
nome del marito, in genere al genitivo, ma a volte anche femminilizzato
(ad esempio: CURTIA ROSCI o DINDIA MALCONIA);
un QUARTO, più complesso, da seguire il nome della donna sia dal
patronimico sia dal gamonimico (SERVIA M. FILIA CINSI UXOR);
e per finire, accanto a queste donne, la cui identificazione era legata a
quella del padre o del marito, ne esistevano altre che venivano indicate
con un PRENOME.
Quali erano questi PRENOMI FEMMINILI?
Alcuni sono ricordati:
da VARRONE (MANIA, LUCIA, POSTUMA) e
da FESTO (COECILIA e TARACIA, LUCIA e TITIA).
Nel liber incerti auctoris de praenominibus, de cognominibus... epitomato
da GIULIO PARIDE, inoltre, leggiamo che tra gli antichi nomi di donne,
alcuni erano tratti dai colori (come RUTILIA, COESELLIA, MURRULA,
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BURRA) o da prenomi maschili (come GAIA, LUCIA, PUBLIA,
NUMERIA).
Concludendo:
la maggior parte delle donne veniva indicata in vita e ricordata nelle
epigrafi con i ben più diffusi sistemi di onomasia familiare,
alcune donne avevano un nome individuale.
In quest’ultimo caso, tuttavia, spesso i nomi di queste donne segnalano
chiaramente la bassa collocazione sociale di chi li portava, che non solo spesso
lavorava, ma non di rado esercitava una professione che non conferiva certo
rispettabilità sociale.
Nomi come BURROSA o RUBIA, “LA ROSSA”, sono un evidente richiamo a
un certo genere di donne: il rosso a Roma era il colore di cui erano tinti i capelli
delle prostitute.
Se non erano prostitute di mestiere, insomma, le donne indicate con il prenome,
evidentemente, erano donne considerate di facili costumi o comunque
socialmente poco qualificate.
A volte forse, semplicemente, perché, per sopravvivere, svolgevano un’attività
lavorativa che, mettendole a contatto con una vasta clientela maschile,
autorizzava ogni illazione sul loro conto: come, ad esempio, nel caso della
celebre ASELLINA, la bottegaia che vendeva bevande calde in una taverna di
il cui nome significava “asinella”.
Pompei,
I PRENOMI FEMMINILI dunque indicavano:
donne “facili”,
donne su cui e con cui ci si poteva permettere di scherzare,
donne a torto o a ragione poco stimate.
Il prenome delle donne “rispettabili”, ammesso che ne avessero uno, non veniva
pronunziato al di fuori della cerchia familiare. Per ciò vale la spiegazione del
“pudore sociale”.
Per i Romani, la gloria delle donne richiedeva che venisse taciuto il loro nome.
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2. LE STORIE ESEMPLARI.
Per indurre le donne a tenere comportamenti corretti i Romani erano soliti
prospettar loro degli esempi: veri o leggendari che fossero, di personaggi
femminili dalle virtù integerrime, riproposti all’ammirazione della cittadinanza
da un’abilissima e continua propaganda, e circondati da un rispetto che li poneva,
con le loro virtù, al centro della storia della città.
TRE erano i MODELLI ESEMPLARI.
SCHEMA.
DONNE ESEMPLARI:
Per indurre le donne a tenere comportamenti corretti i Romani erano soliti
prospettar loro degli esempi di personaggi femminili dalle virtù
integerrime, riproposti all’ammirazione della cittadinanza da un’abilissima
e continua propaganda;
TRE erano i modelli esemplari:
a) Lucrezia, la moglie:
1) Lucrezia si toglie la vita dopo aver riferito alla propria
famiglia della violenza subita da Tarquinio il Superbo;
b) Orazia, la sorella:
1) venne uccisa poiché pianse la morte del fidanzato (uno dei
fratelli Curiazi) invece di piangere i due fratelli Orazi morti
e di gioire per il ritorno dell’ultimo sopravvissuto;
c) Virginia, la figlia:
1) uccisa dal padre affinché non cadesse schiava di un romano
che, invaghitosi di lei, la aveva fatta dichiarare schiava solo
per appropriarsi di lei e soddisfare le sue voglie.
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LUCREZIA, LA MOGLIE.
Durante l’assedio posto dai Romani alla città di Ardea, i giovani figli del re,
insieme ai più nobili tra gli assedianti, trascorrevano piacevolmente le serate
banchettando nella tenda di SESTO TARQUINIO, uno dei figli del re
TARQUINIO IL SUPERBO.
E una sera il discorso cadde sulla virtù delle rispettive mogli, diventando ben
presto un’accesa discussione.
Ciascuno dei presenti sosteneva che, senza alcun dubbio, nessuna delle tre mogli
meritava più lodi della propria.
Decisero di provarlo.
Il giovane COLLATINO, figlio di EGERIO, fece una proposta: la sua città,
COLLAZIA, non era lontana, così decisero di recarvisi per constatare de visu che
nessuna donna eguagliava in virtù la sua LUCREZIA.
Giunti a Collazia, ammirarono Lucrezia che a notte fonda sedeva nel mezzo della
sua casa tra le ancelle, intenta a filare la lama al lume di una lucerna.
Collatino aveva vinto la scommessa, ma la sorte di Lucrezia era segnata.
un’incontrollabile
Tarquinio venne preso da brama di possedere quella donna,
tanto virtuosa quanto bella.
E alcuni giorni dopo, all’insaputa di Collatino tornò a Collazia, penetrò nella
stanza di Lucrezia e, impugnata la spada, con la mano sinistra «ferma sul petto
della donna» le dichiarò il suo amore, supplicandola di ascoltarlo, dapprima con
le preghiere, poi con le minacce.
E infine, di fronte alla resistenza di Lucrezia, ricorrendo a un’arma invincibile: se
avesse continuato a negarglisi, disse alla donna, l’avrebbe uccisa, ponendo poi
accanto al suo cadavere quello di uno schiavo nudo, in modo che tutti pensassero
che era stata uccisa «in vergognoso adulterio».
Non fu il timore della morte, dunque, che indusse Lucrezia a cedere, ma la
minaccia del disonore. 47
Tarquinio se ne andò subito dopo aver appagato la propria libidine, ignaro delle
conseguenze che il suo comportamento avrebbe avuto sulla storia della città.
Appena rimasta sola, infatti, Lucrezia mandò un messo a chiamare padre e
marito.
E questi accorsero:
LUCREZIO, il padre, accompagnato da PUBLIO VALERIO, figlio di
Volese;
e COLLATINO, il marito, accompagnato da LUCIO GIUNIO BRUTO.
Lucrezia, conscia del rispetto che una donna come lei doveva alle apparenze,
sedeva compostamente nel mezzo della sua stanza, ma alla vista dei suoi cari non
poté resistere e scoppiò in un pianto disperato: «Nel tuo letto, o Collatino, sono le
tracce di un altro uomo. Però solo il corpo è stato violato, l’animo è innocente, e
la morte lo proverà. Ma voi, promettetemi che l’adulterio non resterà impunito».
Tutti promisero, cercando al tempo stesso di consolare Lucrezia, e soprattutto di
convincerla a desistere dal proposito suicida, subito fermamente manifestato.
«Solo l’anima può peccare, non il corpo, e la colpa manca dove sia mancata la
volontà». Così le dissero, ma Lucrezia fu irremovibile. Estratto il coltello che
teneva celato sotto la veste e se lo conficcò nel cuore «perché in futuro, seguendo
il mio esempio, nessuna donna viva disonorata (IMPUDICA)».
Così finì i suoi giorni Lucrezia, e con lei finì il regime monarchico.
Non sopportando l’offesa fatta a una donna che rappresentava tutte le spose
romane, il popolo, insorto, trovò finalmente la forza di liberarsi dal giogo dei re
etruschi.
La morte di Lucrezia consentì la nascita della Repubblica, e con essa della
libertà. 48
ORAZIA, LA SORELLA.
ORAZIA era fidanzata con un giovane albano, uno dei fratelli dei CURIAZI; per
sua sfortuna Romani e sabini decisero di mettere fine alla guerra con lo scontro
giudiziario: i campioni di Roma, i tre gemelli ORAZI, contro i campioni di Alba,
i tre gemelli CURIAZI.
Il duello, in un primo momento, sembrò volgersi a favore degli albani: due dei tre
Orazi vennero uccisi. Ma il terzo riuscì a sopraffare i nemici.
Roma aveva vinto ed esultava.
Solo una persona, una donna, non condivideva la generale felicità. Era ORAZIA,
che piangeva il fidanzato morto.
Ma suo fratello, il fratello superstite, non sopportò una simile mancanza di amor
patrio, e tratta la spada dal fodero la uccise dicendole: «Vattene da qui con il tuo
intempestivo amore (IMMATURO AMORE) per il fidanzato, tu che hai
dimenticato i fratelli morti e quello vivo, tu che hai dimenticato la patria. Così
perisca ogni donna romana che piangerà un nemico».
A questo punto, ecco intervenire il padre di ORAZIA: ma non per punire il figlio.
Al contrario, per difenderlo dall’accusa di PERDUELLIO, che gli era stata
contestata dai senatori e dalla plebe, colpiti dalla sua crudeltà.
Un’accusa gravissima, se non fosse stata respinta gli sarebbe costata la vita.
Ma l’intervento del padre lo salvò: questi dichiarò solennemente, infatti, di
ritenere legittima l’uccisione della figlia, aggiungendo che «se così non fosse
stato, egli stesso personalmente avrebbe punito il figlio, in forza della sua patria
potestas».
Oltre che agli occhi del fratello, Orazia era colpevole anche agli occhi del padre.
Colpevole di aver amato e pianto l’uomo al quale il padre stesso l’aveva
promessa in moglie.
Nel momento in cui era divenuto un nemico, Orazia avrebbe dovuto cancellare
quell’uomo dal suo cuore, dimenticare un amore divenuto d’un tratto disdicevole.
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Così come disdicevole era stato manifestare pubblicamente il suo dolore, pur
senza proferire parola, solo piangendo. Le donne romane dovevano saperlo, e
trarne le dovute conseguenze. 50
VIRGINIA, LA FIGLIA.
VIRGINIA era bella, a tal punto che il decemviro APPIO CLAUDIO,
perdutamente invaghitosene, aveva cercato in ogni modo di farla sua.
E quando aveva visto che le sue proposte venivano sdegnosamente respinte,
aveva escogitato un inganno.
In assenza di VIRGINIO, padre della ragazza, incaricò un suo cliente, tal
MARCO CLAUDIO, di affermare che Virginia era sua schiava.
Poiché a giudicare se l’affermazione di Marco Claudio rispondeva o meno a
verità sarebbe stato lo stesso Appio Clau