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1.IL CROLLO DEL MURO DI BERLINO
Il rilancio del pentapartito con il governo Andreotti non è una scelta senza ritorno per Craxi, anche
se la stampa ha enfatizzato e demonizzato il “patto del Camper” con la Dc ben al di là del suo
significato. Il leader del Psi ha semplicemente ribadito un accordo di non belligeranza con quei
democristiani a lui meno ostili,. Nel reciproco interesse del partito cattolico e del partito socialista.
Allo stato dei fatti solo una grande forza socialista, democratica, occidentale può aspirare alla guida
del paese al pari del Psf, della Spd e del Labour Party. Craxi ne è convinto nel 1989 come lo era nel
1979; ma questa premessa irrinunciabile comporta un vistoso ridimensionamento del Pci e un
altrettanto cospicua crescita del Psi, due obiettivi non ancora raggiunti sul finire degli anni 80.
Nell’attesa che maturino queste condizioni, si deve comunque governare nel solo modo possibile
offerto dal quadro politico, cioè con la Dc.
A capo di uno schieramento delle sinistre, il leader socialista avrebbe ben altra visibilità e assai
maggiore prestigio, interno e internazionale. Tuttavia è vero che il leader socialista non si impegna
con tutte le sue forze su questo progetto, neppure di fronte agli straordinari eventi internazionali in
atto, a cominciare dalla caduta del muro di Berlino nel novembre 1989. Eppure non bisognava avere
doti profetiche per intuire quali ripercussioni il crollo dell’impero sovietico avrebbe avuto in Italia e
non solo per quanto riguarda il Pci, già in evidente difficoltà. Un Pci in disfacimento e una Dc
privata dalla sua identità anticomunista significano una straordinaria massa di voti in libertà da cui
però i partiti di governo, assai poco stimati dai cittadini, non riusciranno a trarre vantaggio. Si
potrebbe dire che in questo momento si spezza la cruna dell’ago: non ci sono più strettoie, passaggi
invalicabili, forche caudine attraverso le quali far transitare il nuovo e il moderno per costruire un
altro edificio repubblicano, senza i vincoli e i limiti del passato. Vengono meno abili e impedimenti
che hanno bloccato, distorto e corrotto il sistema partitico.
La portata della sfida sfugge a Craxi, anche se non è casuale che la politica socialista in questi due
ultimi anni ruoti intorno alla questione comunista. Le mosse però sono lente, troppo lente rispetto
alla rapidità dei processi in atto. Si è parlato del cattivo stato di salute del leader per spiegare questa
incredibile passività; ma la mancanza di un ruolo di supplenza da parte del gruppo dirigente palesa
anche una debolezza intrinseca del vertice socialista.
In effetti i segnali lanciati dal Pci di Occhetto sono contraddittori per tutto il 1989, perché si passa
dalla presa di posizione antigiacobina e antileninista del gennaio a quella filosovietica del marzo, a
quella antisocialista del luglio fino alla svolta della Bolognina del dicembre.
I giudizi del segretario del Pci sul giacobinismo, incubatrice del totalitarismo, e sui giacobini, i cui
eredi per tanti versi erano stati i bolscevichi del 1917, sembrano colmare il fossato ideologico che
divide i comunisti dal Psi, tanto da spingere Martelli a ipotizzare la ricomposizione della sinistra in
tempi brevi, entro il 1992.
In occasione del XVIII Congresso il Pci fa però un passo indietro nell'illusione dí aver trovato in
Michail Gorbaciov la soluzione di tutti problemi, quelli ideologici dell'insolubile contraddizione
comunismo-democrazia, quelli internazionali del legame con Mosca, diventato improvvisamente
compatibile col percorso di occidentalizzazione dei comunisti italiani. Lo confermano gli interventi
dei leader dalla tribuna congressuale, specie il discorso di Occhetto che manda in delirio i quando
rivendica l’orgoglio del nome e della tradizione comunista. La sponda di Gorbaciov su cui il Pci si
appiattisce non convince i socialisti.
Non stupisce che Craxi definisca «deludente» l'intervento di Occhetto. Si chiude lo spiraglio, ma la
porta non è serrata, come dimostra per tutti i mesi successivi l'altalenante andamento dei rapporti tra
i due partiti. Come scrive Colletti la ricucitura dei rapporti a sinistra sarà lunga e difficile, anche se
l'importante è avviarla, perché «è tempo infatti che l'Italia abbia una grande sinistra moderna,
riformista e democratica»'. A parte il gruppo di Signorile, è soprattutto Martelli a spingere con
maggiore forza in questa direzione, contrastato come si è detto dalla destra di De Michelis, mentre
Craxi si ricava una posizione mediana.
A luglio però è di nuovo Occhetto a raffreddare i rapporti con una dichiarazione sul pentapartito
guidato da Andreotti, definito figlio del vecchio «progetto di Gelli» che «si sta ampia-mente
realizzando». Il gelo dura per mesi, e neppure il crollo del muro a Berlino nel novembre riesce a
sciogliere il ghiaccio. La storia ha dato ragione ai socialisti che lo dicono ad alta voce, anche se le
loro parole invece di colmare, scavano il fossato con Occhetto, costretto a difendersi su due fronti,
all'interno del partito dove gli intransigenti attaccano, e all'esterno dove il Psi non risparmia bordate.
Come Berlinguer, anche la maggioranza dei comunisti non vuole morire socialdemocratica tanto più
se questo significa ritrovarsi al fianco degli odiati socialisti dentro il contenitore dell'unità socialista.
No ha torto Colletti a sottolineare il peso nel Pci del lascito dí Berlinguer: «È una sua eredità infatti
l'antisocialismo virulento, l'idea ossessiva che l'ostacolo principale da abbattere sia Craxi».
La primavera del 1990 porta comunque un certo disgelo tra i craxiani e Occhetto: Massimo
D'Alema, direttore dell'«Unità» e vicesegretario del Pci, invita i socialisti a partecipare attivamente
al «processo di rifondazione» per arrivare al più presto alla «alternativa di sinistra»; mentre, da
parte socialista, Ruffulo, Del Turco e Formica aprono ai comunisti''.
mai perfide vignette su Craxi, non si possono però equivocare gli umori antisocialisti del popolo
rosso, ben lontani dalla linea unitaria di Occhetto che a marzo riunisce il Congresso per avviare la
fondazione di un nuovo partito, con nuovo nome, nuovo indirizzo politico, nuovi referenti
internazionali. La svolta comunista si ripercuote immediatamente alla Conferenza programmatica di
Rimini dove si riuniscono i socialisti per riflettere sulle riforme istituzionali, alla presenza di
Norberto Bobbio. Occhetto ha in animo di chiedere a Bobbio di presiedere la Costituente
postcomunista in preparazione a Botteghe Oscure. Malgrado il filosofo dichiari di essere stato
invitato solo per commemorare Pertini, la sua presenza benedice il 'disgelo' a sinistra.
Alla domanda se il Pci sia disponibile ad accettare un governo di alternativa guidato da Craxi, anche
se il Psi rimanesse inferiore come peso elettorale al Pci, la risposta di Occhetto è praticamente un sì:
«Lo abbiamo fatto tante volte in tanti comuni, non ve do perché dovremmo porre pregiudiziali a
livello nazionale».
L'attendismo del Psi si spiega anche con la scadenza delle elezioni amministrative ormai alle porte
che segneranno un altro passo indietro del Pci, sceso al 24%, e un altro passo avanti del Psi, salito al
15,3 % alle regionali, al 15% alle provinciali e al 17,7% alle comunali, con alcuni notevoli risultati
a Milano (20%), ad Alessandria (3 1 ,6%), a Salerno (3 1,6%)25, a Bari (30,8%).
Nel Nord, i voti in fuga dal Pci, invece di defluire nelle liste socialiste, come era logico aspettarsi,
sono finiti invece nelle astensioni e persino nelle Leghe, a testimoniare quanto sia traballante la
partitocrazia.
2. LA RIFORMA DELLE ISTITUZIONI
Le tante astensioni e soprattutto l'esplosione delle Leghe confermano l'allarme lanciato dai maggiori
quotidiani italiani prima e dopo le elezioni. L'Italia è descritta come un paese sull'orlo del collasso e
non solo economico; i servizi pubblici, dalla sanità, ai trasporti, alla giustizia, alla scuola, appaiono
così degradati da trovare paragoni solo nel Terzo Mondo. Per di più sembra arrivata al culmine
l'emergenza criminalità che dal 1983 inquina e imbarbarisce la vita civile e politica. Nei mesi della
campagna elettorale, l'omicidio di ben cinque candidati meridionali. È logico che i cittadini si
rifiutino di votare una classe politica così impotente e corrotta. E al «trionfo» della Lega Nord sono
dedicati i titoli dei giornali all'indomani del 6 e 7 maggio, stupefatti di fronte alla clamorosa vittoria
leghista a Milano, 18,9%, «un terremoto politico che sarebbe insensato sottovalutare. Il divario tra il
'Paese reale' e quello 'legale si allarga»
La classe politica ha invece distolto lo sguardo e solo, nell'imminenza delle votazioni, Craxi ha fatto
un comizio a Pontida, cuore del movimento di Bossi. Qui, non a caso, ha parlato della tradizione
non centralista del socialismo i cui ideali prefigurano «un regionalismo così marcato da suggerire
l'idea di un modello federalista». Suggestione ripresa in un ragionamento di Giuliano Amato che
traccia un bilancio critico dei vent'anni trascorsi, perché, istituite nel 1970, le regioni «non sono né
quelle che volevamo, né quelle che potevano servire agli italiani». Troppo poco e troppo tardi però
per fermare la valanga leghista. La classe politica «si è invece chiusa sempre più su se stessa, è
diventata una corporazione, amministra lo Stato con gli stessi metodi e con gli stessi valori di trenta
anni fa, non è riuscita a rinnovarsi». L'insoddisfazione dilagante nel Nord opulento palesa la volontà
dei cittadini di autogovernarsi e di gestire la propria ricchezza direttamente nell'area in cui viene
prodotta, perché negli abitanti, della Valle Padana è ben radicata la convinzione di essere depredati
dai partiti che alimentano il voto clientelare trasferendo le risorse del ricco Settentrione al
Mezzogiorno povero.
Il rinnovamento va iniziato a partire dalle istituzioni, come da anni vanno ripetendo inascoltati i
socialisti. In effetti è più di un decennio che si parla a vuoto della Grande Riforma. Il tema è stato
rilanciato dai socialisti dopo il fallimento della Commissione Bozzi, al Congresso del Psi
all'Ansaldo dove Craxi ha espresso la preferenza per il modello presidenziale americano,
recuperando addirittura l'opzione presidenzialista del Partito d'Azione, di quarant'anni prima. Su
questa strada lo segue Giuliano Amato che ipotizza una raccolta di firme per un referendum
(propositivo) con il quesito: «vuoi l'elezione diretta del Presidente della Repubblica?&raqu