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2.2LA CRISI DEL 1922 E LO SVILUPPO DEI SINDACATI FASCISTI

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Iniziatisi nel 1921, i contrasti all’interno della Camera del lavoro proseguirono pure nel corso del

1922 e non solo tra socialisti e comunisti, ma anche, a partire dall’estate, nell’ambito stesso dei

socialisti, tra massimalisti e riformisti. Mentre dunque il fascismo serrava le file e si apprestava a

sferrare il proprio attacco contro quelle città, come Milano, dove aveva vita difficile e stentava ad

affermarsi, le forze della sinistra, invece di creare un fronte comune per opporsi all’avversario, non

trovarono di meglio che combattersi a vicenda sia sul piano politico che su quello sindacale.

Questo atteggiamento finirà per accentuare nella massa lavoratrice, in modo determinante e

irreversibile, quella crisi di sfiducia di cui si erano avuti i primi sintomi già nel 1921. I contrasti che

travagliavano la Camera del lavoro favorirono inoltre l’allontanamento da essa sia di quei lavoratori

che avevano una coscienza sindacale e politica piuttosto fragile e ancora poco consolidata, sia di

quelli che erano insoddisfatti dell’operato svolto, e finirono anche per facilitare lo sviluppo dei

sindacati fascisti, permettendo che si creassero spazi per la loro azione.

I primi sindacati fascisti erano sorti a Milano nel luglio 1921 e riguardavano i ferrovieri, i

postelegrafonici e i bancari. Successivamente essi si erano diffusi in vari settori del mondo del

lavoro e nel marzo del 1922 era entrata in funzione, per il loro coordinamento, la Camera italiana

del lavoro di Milano, creata proprio in contrapposizione alla Camera del lavoro, ma tenendone

presente il modello. Il sindacalismo fascista attecchiva tuttavia in prevalenza tra le categorie

impiegatizie e la sua base di massa era costituita dalla piccola borghesia. Sfruttando i ristretti

margini che gli venivano concessi e gli errori della Camera del lavoro, il sindacalismo fascista era

però riuscito a far breccia in alcune categorie di lavoratori, come i tassisti e i dipendenti d’albergo e

mensa, che, scontenti della linea di condotta camerale nei loro riguardi e sentendosi sottovalutati e

delusi nelle loro aspirazioni piccolo borghesi aderirono senza riserve al fascismo che ne sosteneva

la valorizzazione.

Impegnata a cercare di dirimere i propri contrasti interni, la Camera del lavoro non sembrò

avvedersi del pericolo costituito dall’espansione, sia pur ridotta, del sindacalismo fascista e non

riuscì a elaborare subito un’adeguata strategia per farvi fronte.

Nel 1922 la Camera del lavoro si segnalò non tanto per la funzione svolta nelle agitazioni a

carattere economico, quanto per il ruolo avuto, non sempre con risultati positivi, nelle vertenze e

negli scioperi che presentavano una precisa valenza politica, oltre che per iniziative di tipo

assistenziale. A tale proposito essa aveva aperto, a metà gennaio, un ufficio del Segretariato del

popolo per i rami relativi all’assistenza e alla legislazione sociale, diretto da Amilcare Locatelli, noto

per la sua collaborazione all’Avanti!. Ai primi di marzo la Commissione esecutiva prese atto con

vivo piacere del buon lavoro compiuto a vantaggio della classe lavoratrice da parte dell’ufficio, che

aveva già sbrigato 228 casi relativi a sussidi di disoccupazione, a pensioni, invalidità e vecchiaia, a

pratiche militari, comunali, elettorali, a infortuni sul lavoro, ad affitti e ad assistenza in genere.

La Camera del lavoro non mancò tuttavia di dare il proprio incondizionato appoggio a quelle

categorie di lavoratori che si trovavano in difficoltà. Verso la fine di febbraio la Commissione

esecutiva invitò tutte le sezioni a sovvenzionare i ceramisti in lotta da due mesi contro un

padronato che tentava di vulnerare i concordati non solo sul piano materiale, ma anche nella parte

riflettente le conquiste di carattere morale, frutto di enormi sacrifici dell’organizzazione operaia.

La sottovalutazione da parte della Camera del lavoro del sindacalismo fascista fu però

sostanzialmente dovuta al fatto che esso si sviluppò in categorie di lavoratori che venivano

considerate, erroneamente, di minor rilievo rispetto a quelle ritenute in grado di esprimere un forte

peso sindacale.

Il Secolo, che il 15 giugno aveva ritenuto, a differenza della stampa di sinistra, di dover rendere

pubblici i retroscena della decisione della Commissione esecutiva in modo che ne venissero a

conoscenza le masse operaie, che avrebbero potuto essere improvvisamente coinvolte in un

movimento di eccezionale gravità, in un commento condannò il ricorso allo sciopero generale,

giudicato una iattura per il Paese, ma ancor più e maggiore per i lavoratori tutti e per le loro

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organizzazioni, perché esso, dato anche lo spirito dei tempi, avrebbe determinato una vivissima

reazione nel pubblico, che avrebbe dovuto sopportare i disagi di uno sciopero di cui non si

riuscivano a comprendere le ragioni. Il giorno successivo il giornale diretto da Missiroli ritornò

nuovamente a dichiarare la propria avversità allo sciopero, sostenendo che esso non aveva alcun

senso né sul piano sindacale né su quello politico e auspicando che ciò venisse compreso dai

vertici camerali. Il socialista Saccani, che aveva già sottolineato che lo sciopero generale di

solidarietà non avrebbe potuto risolvere la situazione nel senso voluto dal proletariato tutto, replicò

che se gli organismi nazionali avessero deciso un’azione generale, allora la Camera del lavoro

sarebbe stata alla testa del movimento senza iattanze. Giaroli infine riconobbe la gravità

eccezionale dell’agitazione metallurgica, ma proprio per questo motivo invitò a non precipitare le

cose con decisioni che, anziché risolvere la situazione dei metallurgici, avrebbero potuto

aggravarla irreparabilmente. Al termine del dibattito il Consiglio respinse l’ordine del giorno

comunista – che proponeva, oltre al biasimo e alla condanna della Commissione esecutiva, la

scesa in campo di tutte le categorie di lavoratori, - e approvò quello socialista, in cui, riaffermata la

solidarietà con gli operai in lotta, si ribadiva che il proletariato milanese doveva attenersi per tutte

le manifestazioni di carattere sindacale e politico solo agli organi responsabili della Camera del

lavoro e si deliberava di impegnare tutti gli organizzati della Camera del lavoro di Milano e

provincia ad eseguire, in solidarietà ai metallurgici in lotta, quelle azioni che saranno ordinate dagli

organismi nazionali competenti.

Nel periodo compreso tra la vertenza dei metallurgici e la presa di potere fascista le vicende della

Camera del lavoro furono caratterizzate da ulteriori e nuove polemiche tra le sue componenti, a

testimonianza che le forza della sinistra non avevano compreso la gravità della situazione e

continuavano a combattersi tra di loro invece di coordinare la propria azione contro il movimento

mussoliniano. Ai primi di luglio gli iscritti alla Camera del lavoro furono chiamati alle urne, dopo un

vivace dibattito al Consiglio delle leghe, per decidere in merito all’indirizzo collaborazionista della

Confederazione generale del lavoro, indirizzo sostenuto anche dal vertice camerale milanese.

Proprio la convocazione del Consiglio per la discussione della linea confederale provocò

l’ennesima occasione di dissidio tra i comunisti e gli organi camerali.

Come risulterà da una pregiudiziale illustrata da Ravazzoli al Consiglio generale del 28 giugno,

l’esito delle votazioni avvenute in alcune sezioni aveva dimostrato che le forze comuniste della

Camera del lavoro di Milano erano di molto superiori a quelle rappresentate. Lo scopo della

richiesta dei comunisti appariva pertanto estremamente chiaro: essi ritenevano di poter contare,

attraverso le scelte effettuate dalle assemblee di categoria, su un numero più consistente di

delegati schierati sulle loro posizioni all’interno del Consiglio delle leghe e di poter quindi avere un

peso maggiore nel determinare la linea di condotta di tutto l’organismo camerale. La richiesta

comunista venne respinta.

Il responso del referendum, comprensivo del voto degli iscritti alla Camera del lavoro di tutto il

Milanese, fu favorevole ai confederali, che ottennero 72.500 suffragi, contro i 69.500 dei

massimalisti, i 22.500 dei comunisti, i 9.500 della mozione di sinistra e i 6.00 dei sostenitori della

Terza Internazionale; limitatamente a Milano però vinsero i massimalisti con 25.093 voti, contro i

23.810 dei confederali, gli 8.211 dei comunisti, i 3.238 della sinistra e i 2.490 dei terzini.

In apparenza il risultato aveva dimostrato che, mentre il Milanese era in prevalenza riformista, a

Milano la massa lavoratrice era ancora schierata sulle posizioni massimaliste. In realtà i dati del

referendum rivelavano la solidità riformista anche a Milano.

L’esito del referendum inoltre non era forse del tutto veritiero riguardo all’effettiva consistenza dei

riformisti nel mondo del lavoro milanese. Il tema su cui i lavoratori erano stati chiamati a

esprimersi, quello della collaborazione, che, non bisogna dimenticarlo, suscitava una certa

avversione tra le masse, educate al mito della rivoluzione, era infatti più politico che sindacale ed è

verosimile che una parte dei lavoratori, che pure si riconoscevano nella linea sindacale riformista,

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avesse preferito esprimere il proprio voto sulla lista massimalista, che rispecchiava anche la

posizione della Sezione socialista.

La necessità di arrivare rapidamente alle elezioni per la nomina della nuova Commissione

esecutiva indusse i riformisti a soprassedere dal presentare le dimissioni. I successivi avvenimenti

determinatisi a partire dal mese di agosto, che cambieranno radicalmente la situazione politica del

paese, faranno tuttavia slittare le elezioni addirittura di un anno, al luglio 1923.

Dopo il referendum era apparso sulla Giustizia del 5 luglio un intervento di rilievo in merito alle

divisioni tra le varie correnti del movimento operaio, divisioni che nella pratica risultavano essere

più apparenti che reali. Il quotidiano riformista, dopo aver giudicato importante il risultato e aver

rilevato che a Milano sembrava aver prevalso la linea massimalista, prendeva in esame il

comportamento dei principali esponenti delle varie tendenze, concludendo che sostanzialmente

tutti accettavano e usavano a sostegno delle varie rivendicazioni metodi gradualistici. L’invito della

Giustizia ad abbandonare i particolarismi, le dispute ideologiche e le distinzioni di metodo per

difendere invece sul piano concreto e in maniera più adeguata gli interessi della classe lavoratrice

era però destinato a cadere nel vuoto.

2.3.LO SCIOPERO GENERALE DEL 20 E 21 LUGLIO

Proprio per protestare contro le violenze fasciste nel Novarese e per il ritorno alla legalità la

Camera del lavoro deliberò il 19 luglio lo sciopero generale. Proclamato contro

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Publisher
A.A. 2015-2016
35 pagine
SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-STO/04 Storia contemporanea

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Kristina_gv di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia contemporanea e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Milano o del prof Punzo Maurizio.