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Capitolo 6 – EUROPA E STATI UNITI ALLA PROVA DELL’EURO

1. L’Europa in aiuto del dollaro

Motivo di discussione e di contrasto tra americani e alleati europei è sempre stata la questione della

partecipazione finanziaria ai costi dell’alleanza, sia durante la guerra fredda che durante le operazioni out of

area. Gli americani rimproveravano agli europei di approfittare della loro protezione militare per ridurre al

mimino le spese della difesa al fine di finanziare programmi sociali molto generosi; gli europei invece

accusavano gli americani di voler vendere i loro costosi armamenti per sostenere la loro industria bellica. Ma

il settore in cui gli europei hanno sempre favorito gli interessi americani è stato quello della politica

finanziaria, in particolare alla stabilità del dollaro.

Negli anni Cinquanta e Sessanta, gli equilibri finanziari tra Europa e Stati Uniti si modificarono, quando

anche grazie al mercato comune e riprendevano le esportazioni europee e conseguentemente le rispettive

banche centrali vedevano crescere le proprie riserve in oro e soprattutto in dollari. In conseguenza alle

maggiori spese per politica espansionistica degli Stati Uniti, il dollaro si indeboliva e si assottigliavano le

riserve auree. Nel 1963, Kennedy firmò l’executive order n. 11110 che dava al dipartimento del Tesoro il

potere di emettere moneta che fino ad allora era stato riservato alla Federal Reserve, che “prestava” al

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governo chiedendo un tasso di interesse. La decisione di Kennedy segnava l’inizio di un deficit che crescerà

sempre più rapidamente a causa della guerra in Vietnam, i provvedimenti della “Great Society” di Johnson e

durante le due presidenze di Reagan negli anni ’80. In tutti questi anni le banche europee sosteranno il

dollaro, impegnandosi a trattenere a riserva i crescenti surplus della bilancia dei pagamenti o, in alternativa, a

investirli in buoni del Tesoro americano.

La decisone presa da Nixon nel 1971 di abbandonare il gold dollar standard, ormai insostenibile per la

riduzione delle riserve auree americane, segnava il ripudio degli accordi di Breton Woods (1944) l’inizio

della fluttuazione dei cambi. Germania, Giappone e Gran Bretagna accattavano di rivalutare le rispettive

monete rispetto al dollaro e confermavano l’impegno delle rispettive banche centrali a mantenere le proprie

riserve in dollari. Con le crisi petrolifere del ’73 e successivamente nel ’79, il dollaro si rivalutava.

L’aumento del prezzo del petrolio che veniva pagato in dollari, accresceva la domanda mondiale della valuta

americana. I paesi dell’OPEC diventarono i maggiori investitori in azioni o in buoni del Tesoro americani

con i guadagni realizzati col petrolio, ma nonostante questo l’economia americana continuava ad essere in

deficit di bilancio. Nel 1979 con l’arrivo di Vocker alla Federal Reserve, il dollaro si troverà in difficoltà

ancora, questa volta per un eccesso di valutazione grazie a quella politica monetaristica che consisteva di

manovrare con flessibilità il costo del denaro. Anche in questo caso le banche centrali europee interverranno

in aiuto. Gli “accordi dell’Hotel Plaza” nel 1985 permetteranno il soft landing, ovvero la svalutazione

pilotata della moneta americana.

Negli anni Ottanta riprendeva il processo di integrazione europea. Uno dei suoi obiettivi era la

stabilizzazione dei cambi in vista di una moneta comune. Venne così creato il Sistema Monetario Europeo

(SME), che venne visto dagli americani come il tentativo europeo di affrancarsi da Washington o quello di

creare una moneta alternativa in competizione con quella americana, mentre da altri come uno sforzo per

integrare il ruolo del dollaro come mezzo di pagamento internazionale in un sistema finanziario sempre più

globalizzato. La moneta comune europea nacque a Maastricht nel 1992 e avvenne un po’ per tutte queste

ragioni. A Washington la creazione della moneta unica europea venne accolta con sorpresa, ma degli resto

gli americani dalla fine degli anni Sessanta non sostenevano più il processo di integrazione europea, ma le

iniziative erano lasciate agli europei stessi. Questo anche perché i rapporti fra Europa e Stati uniti aveva

attraversato anche una serie di turbolenze, in quanto gli europei non si erano affiancati agli alleati americani,

o se lo avevano fatto con più di una riserva, nel corso della guerra del Kippur (1973) o della Guerra del

Golfo (1990-91).

2. L’offensiva americana

Gli Stati uniti non potevano vedere con favore la nascita di una moneta unica potenzialmente concorrente

della propria, ma d’altra parte non potevano manifestare apertamente la loro contrarietà. Tutti gli economisti

e i guru finanziari americani si schierarono contro la moneta unica. Un euro debole avrebbe potuto mettere in

seria difficoltà le importazioni americane a causa dell’estrema competitività di quelle europee ad un costo

inferiore. Un euro forte, invece, poteva portare alla creazione di una immensa area commerciale dominata

dall’Unione Europea e blindata nei confronti dell’estero. Venivano così riflesse le incertezze, le insicurezze e

le arroganze dell’America post guerra fredda, che con la vittoria alle elezioni del 1994 dei neorepubblicani si

considerava votata ad un destino imperiale. Le critiche americane erano anche alla mentalità europea,

continuamente tormentata dal pericolo d’inflazione. Secondo gli americani, la moneta comune europea

avrebbe dovuto essere gestita come il dollaro, ovvero da una banca centrale indipendente ma sostanzialmente

neutrale nei confronti de meccanismi del libero mercato e interventista solo in caso di estrema necessità. Ma

gli europei svolgono in ruolo molto più attivo nei confronti dell’economia e della finanza, in quanto meno

flessibili di quella americana. In realtà la critica americana andava al modello economico europeo di stampo

cattolico-socialista che accetta la libertà d’impresa ma la condiziona con una forte presenza dello stato

nell’economia e di una rete di controlli e di protezioni a favore del lavoro. Rispuntava così la vecchia

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polemica fra capitalismo americano, dinamico e flessibile, e capitalismo europeo, lento nelle sue

trasformazioni e abituato alla protezione diretta o indiretta dello stato.

Il dissenso tra Europa e Stati Uniti dal piano economico rischiava di trasferirsi su quello politico e

ideologico, specie dopo la scomparsa del comune nemico comunista. Una voce fuori dal coro era quella di

Fred Bergsten che proponeva un accordo fra Europa e Stati Uniti che potevano coesistere nella funzione di

garantire stabilità e sicurezza al sistema finanziario internazionale; Kupchan sosteneva invece che la sfida

principale al potere americano, sul piano economico e commerciale era lanciata dall’Unione Europea, e non

alla Cina come pensavano molti.

Le pessimistiche previsioni degli economisti americani non influiranno sulla nascita della moneta unica,

nonostante le difficoltà tecniche e politiche, il 1° gennaio 1999 l’euro nasceva come moneta di conto per le

transazioni finanziare e il 1° gennaio 2002 entrava nell’uso comune. Adottato inizialmente da 16 paesi (ora

19) l’euro diventava anche moneta di pagamento per transazioni commerciali, specie con paesi come Cuba,

Corea del Nord, Siria, Iran e Russia, per i quali l’uso della moneta europea costituiva anche una scelta

politica. Ben presto l’euro diventerà la più importante moneta di riserva dopo il dollaro.

Capitolo 7 – DA BILL CLINTON A GEORGE W. BUSH

1. L’eredità di Clinton

Con la fine del secolo si concludevano anche i due mandati di Clinton (1993-2001), un presidente

democratico in un ventennio dominato da repubblicani. Egli usciva di scena con un consenso popolare

altissimo anche se il parere di storici e analisti è diverso, soprattutto per quanto riguarda la sua politica

estera. Il giudizio, però non tiene conto dei problemi di natura diversa e in aeree geografiche diversissime

che Clinton dovette affrontare. Il giudizio complessivo della sua presidenza, però, segna l’ultima fase di

un’America felice, avviata verso una fase che ne metterà in discussione la sua leadership.

Nei confronti dell’Europa, Clinton è molto più vicino ideologicamente rispetto ai suoi predecessori. La sua

formazione politica e i suoi interessi di carattere sociale il suo multilateralismo, lo avvicinano alla mentalità e

all’attenzione degli europei come nessuno dei presidenti americani che lo hanno preceduto (ad eccezione di

Kennedy).

Diversa sarà la reazione dell’Europa nei confronti di Bush (2001-2009). All’inizio un’incognita per gli stessi

americani, Bush lo è anche per gli europei. La sua elezioni avrà una fine infelice e per molti inaccettabile,

lasciando il paese diviso esattamente a metà fra i due partiti, in quanto con lo scarto di pochi centinaia di voti

rispetto al candidato democratico Al Gore, ovviamente simpatizzato dall’Europa. In una prima fase George

W. Bush resta una figura politicamente indefinita, anche se subito appare chiara l’impostazione unilateralista

che darà alla sua politica (respingere gli accordi di Kyoto sul surriscaldamento globale, la denuncia del

trattato del 1972 con l’Unione Sovietica sui missili balistici, il rifiuto della giurisdizione della Corte

criminale internazionale per sottrarre alle decisioni di corti stranieri i militari americani operanti all’estero).

Sarà l’attacco dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle a definire la personalità del nuovo presidente. Bush

prende in mano un paese che ha paura del futuro e lo rassicura promettendo una punizione per l’atto

terroristico con una vera e propria guerra di durata indefinita e garantendo una maggiore sicurezza al paese.

Dopo l’11 settembre si precisa anche il profilo morale del nuovo presidente. Bush si rivela un uomo di forti

convinzioni e di profondi sentimenti religiosi, che considera lo statalismo e il relativismo due pericolose

derive degli ultimi trent’anni. Queste convinzioni si riflettono anche sulla sua politica estera. Espressione

nuove nella politica come “l’Asse del male” o “gli stati canaglia” presuppongono una concezione

estremizzante della politica e dei rapporti internazionali. Ma non riflettono solo le sue idee, ma anche la

dottrina di una nuova classe politica, quella dei neoconservatori (neocon).

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2. Conservatori vecchi e nuovi

Negli Stati Uniti l’ideologia conservatrice ha una storia molto lunga. È la storia del confronto fra

conservatori e progressisti, ma nonostante la teoria del pendolo che vuole che i due si alternino al potere di

ventennio in ventennio, più di due secoli di storia americana vedono i conservatori al potere molto più spesso

dei progressisti. Dall’indoman

Dettagli
A.A. 2014-2015
34 pagine
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SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-STO/04 Storia contemporanea

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher SimplyIrresistible di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia contemporanea e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Milano o del prof Cuzzi Marco.