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4. LA GENERAZIONE DI MEZZO
4.1. GIOVANNI EMANUEL: Giovanni Emanuel rappresenta, con Giacinta Pezzana, la cosiddetta “generazione di mezzo”,
cioè una generazione di attori che si oppone al romanticismo del grande attore appellandosi al nascente naturalismo,
nel nome del quale si propone una riforma del teatro e della recitazione.
Nato nel 1848, Emanuel non era figlio d’arte e iniziò a recitare a 18 anni. Capocomico fin dalla stagione ’74-’75, riesce a
imporsi come l’attore di una nuova scuola già nel 1875 con una celebre interpretazione dell’Amleto.
La sua poetica d’attore appare fortemente contraddittoria. Infatti, da una parte risulta il fautore di un naturalismo
critico che coniuga la semplicità della forma a una recitazione dai tratti volutamente freddi. Dall’altra parte la critica al
romanticismo del grande attore non porta Emanuel a una critica decisa dell’elemento fondante di quel romanticismo
che si basa sul sublime; al contrario, tende a ricreare un nuovo sublime proprio in quella “semplicità” che porta avanti
come una bandiera di forte innovazione nei confronti dei moduli recitativi della generazione precedente. Nel 1880 scrive
un pamphlet contro Rossi in cui risulta molto chiara la sua idea di teatro. Compito degli artisti drammatici, secondo
Emanuel, è rappresentare sulla scena l’uomo, “un uomo come un altro”. Al vero “romantico “ di Rossi e a quello
“classico” di Salvini, Emanuel oppone un vero “semplice e naturale”. Talvolta, tuttavia, la sua “semplicità di colorito”
appariva così rigida da apparire eccessiva, tanto da spiazzare il pubblico cosa che contrastava con la totale
immedesimazione richiesta da una recitazione naturalistica.
Allo scopo di essere fedele al testo e allo scrittore, Emanuel impara l’inglese e si traduce da sé i testi shakespeariani che
recita con la pretesa di essere fedele all’autore. Ma la critica non è d’accordo. A differenza del grande attore, Emanuel
tenta di realizzare spettacoli “di complesso”, in grado di contrastare la rigida fissità dei ruoli e attenti piuttosto all’
affiatamento e all’insieme, ben cosciente che l’esasperazione spettacolare tipica del grande attore fosse soprattutto la
risposta a un’esigenza commerciale. Proprio il fallimento di questi intenti di riforma porta l’attore, fino alla metà degli
anni ’90, a evidenziare ed esasperare le componenti meno naturalistiche della recitazione. Ormai lontano dai favori del
grande pubblico e dalle lusinghe della critica influente, Emanuel muore nel 1902, a 54 anni.
4.2. GIACINTA PEZZANA: Giacinta Pezzana nasce nel 1841 e non è figlia d’arte. A partire dal 1862 al ‘64 è prima attrice al
tournèe
fianco di Rossi. Nel 1873 diventa capocomica e inizia una lunga all’estero. Fin dai suoi esordi si pone in decisa
antitesi alla figura del grande attore-mattatore e con gli attori della sua generazione, soprattutto con la Marini e la
Tessero. Nell’arte di Giacinta Pezzana la passione civile, l’afflato etico e la volontà di opporsi al processo di
industrializzazione del teatro convergono e coincidono in un’unica istanza di ribellione al teatro (rifacendosi a Modena).
La sua poetica (io voglio farmi comprendere!) fa del tragico un mezzo per scuotere le coscienze degli spettatori, e in
questo risulta distante dalla poetica di Modena, che esprime l’impossibilità del tragico nell’epoca moderna.
Il successo della Pezzana, quando ci fu, si manifestò sempre nel segno dell’ambiguità. Una delle sue più celebri
Teresa Raquin
interpretazioni, la di Zola (recitata per la prima volta a Napoli nel 1879) diventa per lei “un personaggio
divorante”: appena 38enne, la Pezzana decide di recitare non nel ruolo della protagonista, ma in quello della vecchia
signora Raquin (lascia la parte della protagonista alla Duse), che da quel momento diventerà il suo cavallo di battaglia,
ma la “invecchierà anzi tempo”. Si dovette trattare di un’operazione consapevole, nel rifiuto di quell’estetismo teatrale
in cui i valori della giovinezza e della bellezza venivano esibiti allo scopo mercantile di andare incontro ai gusti del
pubblico: cosa che non era certo nelle corde della Pezzana. L’insofferenza per la degenerazione “spettacolare” del
teatro, infatti, porta l’attrice ad abbandonare le scene tra il 1887 e il 1895. Al suo ritorno si dedica soprattutto ad alcuni
progetti, alla cui base si rintraccia un forte intento didascalico. Giacinta Pezzana trascorre gli ultimi anni della sua vita in
Sicilia. Morirà nel 1919 a 78 anni, povera e quasi completamente dimenticata.
4
4.3. LUIGI BELLOTTI-BON E L’INDUSTRIALIZZAZIONE DELLO SPETTACOLO: Nel teatro della seconda metà dell’ ‘800 la
figura del grande attore, e poi quella del mattatore, rimandano a un ruolo sociale oltre che teatrale. Il grande attore,
quasi sempre capocomico, rappresenta in teatro ciò che nel mondo degli affari viene realizzato dal capitano d’industria.
Con il trionfo del capitalismo il teatro non può che diventare una merce come un’altra, soggetta al condizionamento
della legge del mercato. Tutto ciò si manifesta con maggior evidenza in Italia che in Europa, dal momento che in
quest’ultima, la consuetudine delle sovvenzioni alle compagnie di prosa garantisce una minore dipendenza diretta dalla
legge di mercato. In Italia, invece, con la metà dell’ ‘800 il teatro si trasforma sempre più in un’impresa commerciale.
Claudio Meldolesi ha scritto che per il grande attore conto “non più essere in scena, ma diventare, cioè produrre. Il
portento non viene più ricercato nella natura dell’attore, ma nella merce da lui prodotta”. Dal libero scambio al regime
monopolistico il passo è breve. E proprio l’esasperazione del valore di scambio tipica del teatro di fine ‘800 favorisce
diversi tentativi in questo senso. L’esempio più eclatante di monopolio teatrale è costituito dalle vicende di Luigi
Bellotti-Bon nato nel 1820 e morto suicida nel 1883, è figlio d’arte. Recita anche con Gustavo Modena, Alamanno
Morelli e Adelaide Ristori. Nel 1859 dà vita alla sua prima grande compagnia, che unisce alla bravura degli attori
scritturati la cura e la ricchezza “spettacolare” delle messinscene, nonché una costante presenza di novità nel
repertorio. Incoraggiato dai successi ottenuti, forma a partire dal 1873 tre compagnie, in cui riunisce alcuni fra i migliori
attori del momento. Oltre a controllare buona parte delle scritture più importanti, degli affitti dei teatri e delle nuove
produzioni letterarie, Bellotti-Bon ottiene anche l’esclusiva sulle rappresentazioni dei testi francesi che riesce ad
imporre al pubblico italiano, assecondando il bisogno del mercato di “novità”. La sua operazione non regge però a
lungo: la concorrenza tra le tre compagnie, quella esterna delle altre formazioni, la spasmodica ricerca della “novità”, la
progressiva stanchezza degli spettatori per il repertorio francese lo portano alla rovina economica.
4.4. VIRGINIA MARINI, ADELAIDE TESSERO E VIRGINIA REITER: sono le più importanti attrici del periodo compreso tra
gli ultimi decenni dell’ ‘800 e i primi anni del ‘900 (se si eccettuano la Pezzana e la Duse). Tutte e tre le attrici devono la
loro popolarità allo sforzo di assecondare il gusto del pubblico borghese per il naturalismo.
La Marini è dotata di una bellissima voce e prediligeva soprattutto “ le intonazioni più familiari”. È un’attrice molto
prudente e constante nella resa scenica e quando, con i primi anni 90, il gusto del pubblico comincia a mutare, la Marini
lascia le scene nel 1894 per dedicarsi all’insegnamento dell’arte della recitazione all’Accademia di Santa Cecilia di Roma
(fino alla sua morte, 1918). A differenza della Marini, più regolata e misurata, la Tessero è attrice dagli “scatti subitanei”
e dalle “improvvisazioni inattese”. Tuttavia, sin dalla metà degli anni ’80 viene giudicata superata sia dal pubblico che
dalla critica. Incapace di formare compagnie di complesso, recita da ora innanzi appoggiandosi ad attori mediocri e
prevalentemente in piazze di secondaria importanza (muore nel 1892).
Virginia Reiter, pur non essendo figlia d’arte, inizia prestissimo a recitare. Tipica della sua recitazione era la “tendenza
del suo spirito alle figure chiare, nitide, dai contorni distinti e umani”. Nel 1915 abbandona prematuramente le scene. Vi
tournèe
torna in qualche rara occasione, la più importante delle quali è la del 1920-21. Ma il gusto del pubblico è ormai
cambiato (muore quasi 70enne nel 1937).
5. GLI ATTORI DEL NATURALISMO E DEL POSITIVISMO
5.1. ERMETE NOVELLI: insieme a Ermete Zacconi e a Eleonora Duse, Ermete Novelli inaugura il periodo del mattatore. Si
distanzia dagli altri due nel portare avanti e spingere all’estremo limite il fenomeno della spettacolarizzazione del
talento, che è alla base di tutto il periodo grand’attorico. L’attore “moderno” si differenzia, infatti, dai suoi predecessori
per la problematicità con cui affronta il personaggio, problematicità che lo spinge a uno studio profondo e tormentato,
portandolo addirittura a nascondere il talento (caso estremo: la Duse). Novelli, al contrario, mostra il suo talento assai
poco “problematico”, e questo suo modo di procedere è alla base del successo di pubblico in tutto il mondo.
Nasce nel 1851 e nel 1883 (alla morte di Bellotti-Bon) entra nella Compagnia Nazionale. L’anno successivo forma una
compagnia propria, restando capocomico fino alla morte (1919). Novelli primeggia essenzialmente nei personaggi
comici, anche se, a partire dall’ultimo decennio dell’ ‘800, tende a estendere il suo repertorio a personaggi drammatici e
tragici, cosa che gli riesce meno bene. Per lui il testo drammatico diventa solo un puro pretesto per la sua esibizione
d’attore, ed è ben cosciente di quello che fa: il suo scopo è quello di piegare il personaggio alle sue facoltà
interpretative. Il repertorio di Novelli, in un primo tempo più vasto, sin dall’avvio del capocomicato si limita a pochi testi,
quasi sempre di assai modesto valore letterario (con l’eccezione di Shakespeare e Goldoni) e spesso da lui ampiamente
rimaneggiati.
Edoardo Boutet indica in Novelli un attore studioso; ma il suo studio aveva come obiettivo non tanto quello di rendere
al meglio il personaggio, quanto id costruirlo in modo il più possibile comunicativo, alla costante ricerca di quel successo
di pubblico che sembra proprio essere il fine unico e ultimo dell’e