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Lessing coglie il differente spessore della creatività letteraria rispetto a quella attorica: “L’arte dell’attore è effimera
nelle sue manifestazioni; ciò che in essa vi è di buono e di cattivo si dimentica presto”. Di qui l’esigenza di uno studio
attento del lavoro attorico. In concreto, poi, la reazione dell’attrice Sophie Sparman Hensel a una recensione di Lessing
costringe qurst’ultimo ad astenersi dall’esame del lavoro attorico già a partire dal 28 luglio 1767. La “Hamburgische
Dramaturgie” diventa in questo modo essenzialmente un esercizio di critica testuale. E tuttavia bastano le puntate dei
primi mesi a fare di Lessing il vero padre fondatore della critica teatrale nel senso moderno. In lui non c’è nessuna
attitudine utopistica. Si batte per riformare il modo di recitare, ma procede con pieno senso della realtà. Prende atto
che non è possibile avere una compagnia teatrale tutta di altissimo livello, che c’è già di che esser contenti quando “tra
4 o 5 attori, alcuni avranno recitato ottimamente, altri bene”. Di qui la conclusione che l’attore lavora meglio con un
testo che non sia un capolavoro “perché nella mediocrità tutto poggia su uno o due personaggi principali, mentre in un
lavoro più perfetto ciascuna figura dovrebbe essere impersonata da un attore di primo piano”.
Il lavoro del critico teatrale che milita per una riforma della scena si sforza di individuare gli elementi di convergenza con
l’attore, perché sa che contro l’attore nessuna riforma è possibile. Anche qui è prioritario il lavoro di educazione del
pubblico. Lessing censura i gusti troppo facili degli spettatori della galleria, che ricambiano con applausi sonanti l’attore
trombone che solleva improvvisamente il tono della voce, al momento di scomparire fra le quinte. Bisognerebbe
fischiarlo, “ma la platea è troppo poco competente”. Il che non esclude lo sforzo mirato anche all’educazione
dell’attore. L’obiettivo resta la fondazione di un teatro borghese. Per questa finalità lavora il critico teatrale che però,
l’educazione del pubblico e l’educazione dell’attore,
mentre insegue al tempo stesso non può fare a meno di perseguire
l’educazione del critico.
anche
In Italia non esisteva nulla che potesse anche lontanamente avvicinarsi a una borghesia nascente, non essendoci uno
sviluppo mercantile simile a quello dell’Amburgo di Lessing, né c’è, ovviamente, lo spessore filosofico e letterario degli
illuministi francesi. I giornali veneti risentono dell’influenza dei giornali inglesi ( soprattutto dello Spectator), ma proprio
rispetto a questo modello risultano e risaltano clamorosi tutti i limiti dei giornali che anima Gaspare Gozzi: prima la
“Gazzetta Veneta” e poi “L’osservatore Veneto”. Colpisce il suo rifiuto di porsi in un ruolo di orientamento del pubblico.
Gozzi parte dal presupposto che il critico teatrale “si dimentichi” di tute le opinioni sue proprie” tanto che si arriva
alla teorizzazione dell’inviolabilità del giudizio della platea. La critica teatrale si riduce a semplice resoconto dei giudizi
deliberati da un pubblico comicamente ipostatizzato come infallibile. Le recensioni teatrali di Gozzi parlano quasi
esclusivamente dei testi e non degli allestimenti.
Peggio di lui, è un altro giornale pubblicato a Venezia, “La frusta letteraria” di Baretti, che risentì anch’esso dell’influenza
dello “Spectator”. Baretti non sa cogliere minimamente l’essenza del fenomeno teatrale. Non comprende che il teatro
può esistere benissimo senza autori drammatici, mentre gli autori drammatici non possono esistere senza il teatro.
Mentre l’Europa delle persone colte si muove nella prospettiva di un teatro funzionale alla nuova classe borghese,
Baretti si chiude in un aristocratico disprezzo di ciò che chiama disdegnosamente “volgo”, ma, soprattutto, nega il senso
della comunicazione teatrale e ribadisce la superiorità della lettura privata, nel proprio studio, rispetto alla fruizione
collettiva, all’interno dello spazio teatrale. Contrappone il “gabinetto” al “teatro” e insiste a definire la scena come il
luogo dell’illusione e della mistificazione. La stessa arte degli attori, quando c’è, è negativa per la semplice ragione che
occulta la negatività della pagina scritta. Non lo sfiora il dubbio che il testo drammaturgo sia scritto per la
rappresentazione; pensa piuttosto che la rappresentazione sia un intralcio alla lettura diretta del testo drammaturgico.
L’angustia dell’approccio barettiano risulta manifesta quando si osserva qualche altro giornale del tempo, ad esempio
“La Minerva, o sia nuovo giornale de’ letterati d’Italia”, che nel volume dello stesso 1764 mette in luce l’astrattezza
dell’impostazione di Baretti. L’umile giornalista coglie facilmente ciò che Baretti non riesce assolutamente a percepire, e
cioè che il teatro è fatto per essere visto e non già per essere letto, e che il teatro è essenzialmente divertimento, e non
palestra pedagogica. Un teatro veramente impegnato a insegnare la morale registrerebbe la fuga assoluta degli
spettatori. Fissati una volta per sempre i paletti del territorio teatrale,preso atto della modesta efficacia pedagogica del
messaggio del palcoscenico, l’oscuro giornalista non fatica molto a controbattere le accuse ingiuste di Baretti e a
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