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Questa riforma aveva come scopo primario quello di risolvere le scarsità di circolante che si verificarono
alla fine della Repubblica. Una parziale soluzione venne con Nerone, che fece produrre divisionale
anche a Lione, ma la produzione nella città gallica cessò di nuovo con Vespasiano. Dal punto di vista dei
nominale, si può forse ascrivere al lento aumento dei prezzi il progressivo abbandono dei nominali più
piccoli. Il divisionale eneo recò a partire da Augusto l’indicazione S(enatus) C(onsulto), ritenuta segno di
una vera separazione delle competenze tra imperatore e Senato nella coniazione dei metalli preziosi e
dei divisionali. Da notare è come con Nerone, la sigla EX S C si trovi anche sull’oro e sull’argento: si
ritiene che ciò provi un maggiore controllo senatorio sull’autorità imperiale nel periodo del quinquennio
aureo neroniano. La produzione di moneta provinciale continuò per tutto il periodo del Principato in molte
aree dell’Oriente. Solo l’Egitto rimase peraltro un’area chiusa dal punto di vista monetario: qui poteva
circolare solo la moneta locale, la tetradracma argentea coniata ad Alessandra, e il suo divisionale eneo;
le altre monete dovevano essere cambiate. Il divisionale era prodotto dalle singole città in misura ancora
maggiore e in base a sistemi molto più vari. La sua convertibilità con la moneta argentea locale
garantiva il suo inserimento nel sistema monetario romano.
1.3. Con la crisi del III secolo il sistema monetario entra di nuovo in una fase convulsa, di cui è
praticamente impossibile seguire le evoluzioni, data la scarsezza di informazioni derivanti dalle fonti
letterarie, epigrafiche e papirologiche. L’evoluzione più significativa fu la rinuncia a mantenere questa
parità in vigore; rinuncia formalizzata con ogni evidenza perché il pubblico si rifiutava ormai da anni di
accettare il tasso di cambio teoricamente imposto. L’oro cominciò a muoversi liberamente, a essere
cambiato in termini di argento e divisionale sulla base di un prezzo del giorno, oscillante continuamente.
Al tempo stesso, le politiche di coniazione si mossero in una direzione molto precisa: da un lato una
decentralizzazione, per cui nuove zecche imperiali venivano aperte nelle diverse zone dell’impero;
dall’altro questo ampliamento delle coniazioni imperiali portò alla fine delle coniazioni provinciali che
finirono entro il regno di Tacito, quando cessò l’ultima produzione locale, quella di Perga, in Asia. Le
monete provinciali continuarono comunque a circolare fino all’unificazione dioclezianea. Tutte queste
riforme andarono incontro al fallimento, il sistema divisionale si ridusse ogni volta a un pezzo solo, di
peso via ridotto fino alla riforma successiva. La causa è in sostanza la forte inflazione che colpì i prezzi
espressi i valuta enea e che portò a una costante e drammatica perdita del loro potere d’acquisto. Anche
le unità di valore cambiarono in rapporto a questa svalutazione: nessun senso aveva più il denario. Per
questa ragione verso la fine del secolo fu introdotta una nuova unità di contro, il nummus, di valore pari a
6.000 vecchi denari.
2. Valore nominale/valore intrinseco
La moneta antica restò per tutto il corso della sua storia un oggetto composto di una determinata
quantità di metallo; essa ha un proprio valore, definito metallico o intrinseco, pari alla quantità di oro,
argento o bronzo contenuto. I diversi metalli hanno prezzi variabili, che oscillano in base alla reperibilità,
alla stagione dell’anno, all’apertura di nuove miniere. Mantenere monete coniate in metalli diversi su un
rapporto di valore fisso sarebbe impossibile se tali monete non avessero un valore imposto loro
dall’autorità emittente, che è poi quello per cui vengono scambiate e con cui circolano. Tale valore è
detto valore nominale. Il valore nominale deve essere superiore a quello intrinseco: se fosse inferiore,
chiunque procederebbe alla distruzione delle monete, alla loro fusione, per farle circolare come metallo.
Monete che circolino con pieno valore metallico vengono valutate in base alla quantità di metallo che
contengono: esse vengono pesate in occasione di ogni pagamento, per controllare che non siano più
leggere dello standard, dal momento che questo implicherebbe una loro perdita di valore effettivo. Il
valore nominale, invece, imposto dall’autorità emittente, è il medesimo anche se i singoli pezzi di conio
differiscono leggermente per il peso. La coniazione di queste monete non deve avvenire al pezzo
(ovvero ogni singola moneta viene controllata perché corrisponda al peso standard) ma può essere
realizzata al marco (ovvero si ricava un determinato numero di monete da una libbra di metallo, in modo
che il peso medio sia quello standard). Si possono avere monete dello stesso tipo e valore nominale
che hanno pesi diversi, rientranti però in una forchetta la cui media sia il peso standard. Giuridicamente
il metallo è una merce come tutte le altre; la moneta che ha un valore nominale imposto d’autorità, è
invece un prezzo. È una componente essenziale di questo sistema il fatto che il valore nominale sia
imposto: ogni cittadino è obbligato ad accettare quel pezzo di metallo per il valore sopravvalutato che
l’autorità emittente ha deciso; interviene dunque un elemento politico fondamentale, ove la moneta si
chiama nomisma. Tale obbligo è confermato a Roma da una sentenza pseudopaolina che ricorda come
dai tempi di Silla fosse proibito rifiutare la moneta statale. L’oro sembrerebbe aver circolato per tutta la
durata della storia del sistema monetario romano sulla base del solo valore intrinseco. Ciò non significa
che esso fosse percepito come merx e non come pretium: al contrario, l’aureo circola come ricordato
con un valore pari a 25 denari che la sostanziale stabilità del sistema monetario romano fino al III
secolo contribuì a mantenere. È poi con il III secolo che l’attribuzione alle monete del metallo più
prezioso di un valore corrispondente al puro intrinseco corrisponde all’abbandono di ogni tentativo di
mantenimento di un rapporto fisso con gli altri nominali.
3. I prezzi dei metalli e i loro rapporti
Se i diversi metalli circolano su circuiti paralleli, il cambiamento di tale rapporto non dà vita a sostanziali
problemi: il cambio avverrà sulla base di una tariffa variabile, un po’ come avviene oggi per il cambio tra
monete di nazioni diverse. Tali variazioni di valore possono essere di diversa intensità e durata: se in
genere i rapporti tra i diversi metalli tendono a mantenersi più o meno stabili, momento o eventi
particolari possono creare determinate sollecitazioni, di portata generalmente locale. Si è detto che una
moneta non può assumere un valore nominale inferiore a quello intrinseco: da un lato l’autorità
emittente andrebbe incontro a una perdita nella produzione di moneta, dall’altro il pubblico rifiuterebbe
di utilizzare la moneta in quanto tale, avendone un vantaggio a fonderla o comunque a venderla come
metallo al peso. Si sono verificate nel corso della storia romana in effetti situazioni in cui le oscillazioni
del prezzo di un metallo hanno portato una particolare moneta in questa situazione di valore nominale
ribassato. Le soluzioni che a questo punto l’autorità emittente può percorrere sono in sostanza due: la
riduzione del fino e la ritariffazione. Dopo Azio l’asse fu coniato con un peso inferiore al precedente
standard semiunciale, ancora una volta per mantenere in vigore i preesistenti rapporti. A questo punto
erano in circolazione assi di dimensioni diverse ma con lo stesso valore nominale, cosa che avrebbe
naturalmente condotto alla sparizione dalla circolazione delle monete vecchie. La riduzione del fino del
denarius operata da Traiano nel 107 d.C. potrebbe essere stata motivata a questo punto dal calo del
prezzo dell’oro, proprio per mantenere inalterato il rapporto 1:25. Tale provvedimento portò il ritiro delle
monete vecchie. Si è sostenuto che i primi due secoli dell’Impero mostrino una crescita di valore
dell’argento rispetto all’oro. Il caso meglio noto di ritariffazione risale invece all’età dioclezianea risale
invece all’età dioclezianea. Dopo la riforma monetaria di Diocleziano, l’argento da 1/96 di libbra aveva
un valore di 50 denari, mentre la più grossa moneta enea, il laureato grande, ne valeva 12,5.
4. Politica monetaria e sistemi di emissione
Si è a lungo discusso sull’adozione di decisioni politiche consapevoli e mirate a precisi scopi economici
e finanziari, quali il mantenimento di un rapporto di valore tra i diversi metalli, il controllo dell’andamento
dei prezzi, il rifornimento di moneta nelle diverse aree dell’Impero. In generale, il dibattito ha risentito
della più ampia discussione sul governo, in particolare imperiale, romana: ci si è cioè chiesti se i
provvedimenti che furono presi a Roma fossero dettati da un programma consapevole, con l’intenzione
di mettere in pratica delle vere e proprie riforme. In questo senso è esemplare il dibattito sorto intorno
all’Editto dei Prezzi dioclezianeo, a lungo ritenuto il tentativo disperato di un’autorità centrale di frenare
un’inflazione dilagante. In realtà l’immagine di uno Stato reattivo, vittima di una totale ignoranza dei
meccanismi economici, va superata: dobbiamo ritenere che l’Editto dei Prezzi non potesse essere
emesso dall’oggi al domani, ma richiedesse lunghe operazioni di raccolta dei dati e di loro elaborazione.
Al contrario, i due provvedimenti devono essere visti come frutto di una concezione unitaria, che abbina
a un’iniziativa in campo monetario una considerazione delle sue possibili conseguenze e dunque una
risposta preventiva anche a esse. Il punto determinante è che se pure mancava una scienza economica
in senso moderno, ovvero mirante a una modellizzazione e formulazione matematica del fatto
economico, vi era comunque una conoscenza empirica dei fenomeni monetari che permetteva la messa
in atto di vere politiche economiche. La riduzione del fino, ovvero un consapevole provvedimento di
svalutazione della moneta, sembrerebbe il provvedimento più frequentemente messo in atto in momenti
di difficoltà finanziaria, come la storia della riduzione del contenuto argenteo del denario nel III secolo
d.C. mostra chiaramente. Le svalutazioni sembrerebbero essere intervenute in momenti di difficoltà per
le casse statali. È ovvio che lo Stato romano coniasse moneta primariamente per i propri pagamenti: la
prima coniazione è stata così messa in connessione a più riprese con il finanziamento di lavori pubblici
e in particolare