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L’elemento di novità non è la presenza dello schiavo, già attestato in precedenza, quanto piuttosto le dimensioni
della sua presenza come forza lavoro.
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E’ questo un fenomeno che non è mai stato in realtà predominante nel mondo antico ad eccezione che in Italia e
in Sicilia.
Anche in Italia, la diffusione del suo impiego è diversificata a seconda delle aree: gli schiavi devono aver
rappresentato la parte predominante della manodopera nelle grandi aziende dell’Italia centro-meridionale.
Il lavoro libero salariato è difficile da quantificare, ma deve essere stata una componente che ha sempre giocato
un ruolo complementare ed essenziale rispetto al lavoro servile.
Gli anni compresi tra la fine della guerra annibalica e la simultanea distruzione di Corinto e Cartagine, vedono
profonde trasformazioni sul piano economico e sociale. La creazione delle province e le guerre condotte
vittoriosamente contro le monarchie ellenistiche consentono di drenare enormi ricchezze verso Roma e l’Italia,
sotto forma sia bottini di guerra che di obblighi tributari a cui erano soggetti le popolazioni provinciali.
Tra la guerra annibalica e la terza guerra macedonica, solo di bottini di guerra Roma incassò circa 250 milioni di
denarii a cui si devono aggiungere i tributi versati in diversa forma dalle province. Secondo i calcoli del Frank, tra
il 200 ed il 157 globalmente vi sarebbero state a Roma entrate per circa 610 milioni di denarii.
Il bottino complessivo ammontò a quasi 46 tonnellate di argento grezzo, 15 tonnellate di argento monetato,
almeno 5 quintali di vasi in argento cesellati e, ancora, più di 1 tonnellata di oro monetato e poco più di 3 quintali
di vasellame aureo, e, ancora, 94 corone auree donate ai trionfatori dalle città alleate.
Ancora più favoloso il bottino di guerra ricavato da L. Emilio Paolo su Perseo di Macedonia. Plutarco (Aem. 32),
che offre un’ampia descrizione del trionfo, pur non indicando il valore complessivo del bottino, ricorda che, solo di
metallo monetato, sfilarono settecentocinquanta vasi colmi di monete d’argento e settantasette vasi colmi di
monete d’oro, ciascuno del peso di tre talenti. In ogni caso, l’entità del bottino permise di abolire il tributum
fondiario che i cittadini romani versavano allo stato, riscosso nuovamente solo nel 43 a.C. (Plutarco, Aem. 37).
Gli obblighi tributari a cui erano soggetti i provinciali consistevano, essenzialmente, nel versamento di denaro e
derrate per l’approvvigionamento delle truppe e della città di Roma. La crescita, urbanistica e demica della
capitale rendeva, infatti, ormai insufficiente il rifornimento granario assicurato dalle regioni circostanti, con il
pericolo ricorrente di crisi annonarie; già nel corso della guerra annibalica, dopo la presa di Siracusa, la
produzione granaria siciliana era stata destinata al mantenimento di Roma
Finito il conflitto, viene esteso all’intera provincia il sistema della lex Ieronica (ovvero, l’insieme delle norme che
regolavano il pagamento dell’imposta in natura applicato da Ierone II al regno di Siracusa), in base la quale era
prelevato, come canone, un decimo della produzione cerealicola, riservandosi Roma la possibilità di ulteriori
prelievi di cereali (ad un prezzo prefissato prima: frumentum emptum; leggermente più elevato poi: frumentum
aestimatum), qualora ve ne fossa stata la necessità
Nel caso delle province spagnole, larghi guadagni erano assicurati dallo sfruttamento dei ricchi giacimenti
minerari di oro e argento. Secondo Polibio, verso la metà del II secolo, le miniere d’argento di Carthago Nova
avrebbero sfruttato allo stato romano 25.000 dracme al giorno
La coltivazione delle miniere spagnole era affidato dallo stato a società di publicani e, secondo Diodoro Siculo,
dopo la conquista romana, una gran numero di Italici avrebbe raggiunto la Spagna per investire nell’attività
mineraria, acquistando larghe quantità di schiavi da impegnare nei lavori di scavo:
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Questa larghissima disponibilità di schiavi è un effetto della politica militare di Roma che, a partire dalla guerra
annibalica, vede la riduzione in schiavitù di intere popolazioni. Ad esempio, la presa di Agrigento, nel 210, fu
seguita dalla condanna a morte dei primi cittadini e dalla vendita del resto della cittadinanza e, ancora, dopo la
sconfitta di Perseo, centocinquantamila epiroti furono ridotti in schiavitù.
E’ interessante, a riguardo, quanto dice Strabone circa la relazione tra l’origine della pirateria cilicia e
l’accresciuto bisogno di schiavi da parte di Roma, che il geografo (o meglio, la sua fonte) colloca negli anni
successivi alla distruzione di Cartagine e di Corinto; nel quadro straboniano l’attività dei pirati cilici si colloca in
un contesto politico più ampio, che vede la compartecipazione dei regni d’Egitto e di Cipro.
Tutti questi elementi:
– afflusso di ricchezze,
– prelievo di cereali dalle province,
– ampia disponibilità di manodopera schiavile
hanno effetti profondi sull’agricoltura italica, accelerando un processo, che la documentazione archeologica
suggerisce già in atto nel III secolo, di specializzazione delle colture, con unità fondiarie che sfruttano in maniera
intensiva i terreni e producono per il mercato urbano.
E’ possibile, adesso, ridurre lo spazio destinato alla cerealicoltura per dedicarsi a coltivazioni che sul mercato
risultino più redditizie, come la vigna e l’oliveto.
Questa nuova gerarchia delle coltivazioni agrarie si ritrova in una graduatoria della redditività delle singole colture
che Varrone attribuisce a Catone: ai primi posti sono la vigna e l’uliveto, solo al sesto i cereali:
Allo stesso Catone si deve il de agricultura, trattato in cui è descritta l’azienda agricola che riflette questo nuovo
orientamento [cfr. anche T 58]: essa è caratterizzata da un’organizzazione della produzione fondata su una
squadra fissa di schiavi gestiti da un fattore, anch’esso schiavo o liberto.
Catone ed il de Agricoltura.
L’area geografica in cui Catone colloca le sue esperienze è da circoscrivere tra il Lazio meridionale e la
Campania.
Le aziende che descriva Catone hanno ampiezza notevoli (superiori ai 25 ettari) e difficilmente possono essere
immaginate come concepite per la pura sussistenza. Il fondo da acquistare è presupposto come già organizzato
e dotato di attrezzature, sicché l’acquirente deve disporre già in partenza di grossi capitali da investire.
Il proprietario non risiede sulla sua proprietà ma non è assenteista né disinteressato alla buona gestione del
fundus. Al contrario, pur vivendo in città, viene spesso a visitarlo e si interessa alla sua conduzione.
Poiché la produzione di queste aziende è orientata al mercato, è importante la loro collocazione topografica, nei
pressi di una città, di una asse stradale, di un fiume o del mare.
L’azienda catoniana è in contraddizione con il tipico modello della piccola proprietà contadina, concepita per
l’autosussistenza, e dunque da una pluralità di colture, con la necessità di integrare con quanto poteva ricavarsi
dallo sfruttamento delle terre comuni. Nonostante ciò, non sembra che Catone consideri incompatibile la fattoria
che lui descrive con l’ideologia della milizia romana formata da piccoli proprietari-soldati.
Resta che Catone si indirizza ad un gruppo ristretto di persone dotate di capitali consistenti.
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In entrambi i casi il numero di lavoratori sembra essere troppo basso perché potessero attendere a tutte le
incombenze. Nei momenti di più intensa attività si doveva necessariamente fare ricorso a manodopera
aggiuntiva.
Questa manodopera aggiuntiva non poteva essere rappresentata da schiavi perché dovremmo immaginare la
presenza di appaltatori che giravano per le campagne offrendo schiavi a chi ne avesse bisogno. E’ preferibile
pensare a liberi che offrivano il loro lavoro spontaneamente.
Il calcolo economico alla base di questa considerazione ritiene più vantaggioso esporre ai rischi il lavoratore
salariato che il proprio schiavo, visto come un investimento a lungo termine.
Sebbene nel de agricultura ignori l’allevamento come occupazione a sé stante, Catone, secondo un aneddoto di
Cicerone, avrebbe considerato l’allevamento come un’attività di gran lunga più lucrosa dell’agricoltura
Il tema è ampiamente trattato, un secolo più tardi, da Varrone che distingue tra l’allevamento che si svolge in villa
e l’allevamento transumante, specializzato, che necessita di forti investimenti poiché implica l’affitto o l’acquisto
dei pascoli, l’acquisto delle greggi e quello degli schiavi che le seguono nel loro movimento pendolare
Ma non meno rilevanti sono i redditi che è possibile ricavare dall’allevamento in villa, la pastio villatica, di cui
Varrone offre alcuni notevoli esempi
Lo sviluppo di un’agricoltura e di un allevamento specializzati e gli spazi che richiedevano, soprattutto questa
seconda attività, pongono insistentemente il problema di un corretto utilizzo dell’agro pubblico. Lo sfruttamento di
quest’ultimo era necessario per la sopravvivenza dei piccoli proprietari che da esso traevano il necessario
complemento alla produzione, altrimenti insufficiente, dei loro fondi. Il progressivo accaparramento dell’agro
pubblico da parte dei medi e grandi proprietari poneva perciò in crisi la piccola proprietà, con ricadute sul piano:
a) demografico (l’impoverimento avrebbe determinato una crisi della natalità),
b) politico-militare (sarebbero diminuiti gli arruolabili);
c) dell’ordine pubblico (larghe quantità di schiavi erano impiegate per la conduzione delle aziende
impiantatesi sull’agro pubblico).
Diversamente dalle leges de modo agrorum che la avevano preceduta, e che si erano limitate a porre un limite
all’occupazione dell’agro pubblico, il provvedimento di Tiberio andava oltre, prevedendo anche la redistribuzione
ai cittadini senza terra, in lotti di dimensioni probabilmente variabili a seconda delle caratteristiche agronomiche
dei suoli, delle terre pubbliche occupate abusivamente. La commissione agraria nominata per attuare la riforma
operò soprattutto in Italia meridionale come attestano i numerosi cippi fin qui rinvenuti [T 55]: essi sono relativi ai
reticoli centuriali all’interno dei quali si procedeva alle assegnazioni agrarie. Del resto, l’attività della commissione
agraria dovette significare innanzitutto una imponente opera agrimensoria preparatoria alle assegnazioni, sia per
definire ciò che era effettivamente agro pubblico, sia per distinguere, al suo interno, le quote di