Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
vuoi
o PayPal
tutte le volte che vuoi
LE GUERRE SOCIALI E GLI SCONTRI FRA CAVALIERI E SENATORI
Alla fine del 2° sec le divergenze fra senatori e cavalieri si acuivano sempre più: esse erano dovute
soprattutto a visioni contrastanti in politica interna ed estera, e specialmente in campo economico: in
particolare, la nobilitas senatoria, un gruppo dirigente ristretto e chiuso, aveva guidato e guidava la conquista
dell’egemonia imperiale, ma era sostanzialmente contrario all’assunzione di responsabilità dirette
nell’amministrazione dei territori conquistati (specie in Oriente), e anche all’espansione degli interessi
commerciali, che al contrario era stata alla base della formazione della classe dei cavalieri. Ma il grande
sviluppo delle attività commerciali aveva coinvolto, accanto ai cittadini romani, anche molti negotiatores
italici (appartenenti alle elites delle singole comunità alleate), i quali di regola avevano investito i proventi
dei loro commerci nello sfruttamento terriero; ora, però, il recupero dell’ager publicus (più o meno
legalmente occupato) in base alla legge di Tiberio Gracco colpiva anche i possesores italici (probabilmente
violando anche certe clausole dei loro trattati con Roma), per cui si manifestarono le prime tensioni
all’interno delle comunità alleate già nel 125 ac, quando, in seguito ad una ribellione, la colonia latina di
Fregellae fu distrutta. Per questo motivo poco dopo fu approvata una norma che concedeva la cittadinanza
romana ai magistrati delle colonie latine (non ultima ragione per cui queste rimasero poi fedeli a Roma
durante la guerra sociale), e quindi in seguito cominciò ad affacciarsi in quegli anni anche la proposta (Gaio
Gracco) di una concessione della cittadinanza romana a tutti gli alleati, a compenso delle perdite economiche
causategli dalla legge agraria. Ma la classe dirigente vedeva con diffidenza questo eventuale ampliamento
del corpo civico, non certo per sciocco esclusivismo, ma perché ne sarebbero andati compromessi
sicuramente i principi fondamentali dello stato cittadino romano. Di contro negli alleati italici crebbe sempre
più la consapevolezza dell’utilità di ottenere la cittadinanza romana, per diventare, da sudditi, compartecipi
dell’impero, vale a dire per poter partecipare direttamente alle decisioni politiche , che riguardavano tanto
loro quanto il popolo romano (e ciò sembrava divenire quasi una necessità, data la difficile situazione
politica interna di Roma); tra l’altro già da tempo nelle province tendeva ad essere annullata la distinzione fra
cittadini ed alleati, venendo i commercianti generalmente qualificati come romani, e si erano avute ad opera
di Mario delle più o meno legali concessioni di cittadinanza romana. Così, nel periodo dei tribunati di
Saturnino, un largo numero di alleati italici era riuscito, in maniera legale o meno, ad introdursi fra i cives;
allora nel 95 ac i consoli fecero passare la lex Licinia Mucia, che escludeva dal corpo civico romano quelle
intrusioni illegali e stabiliva un’apposita questio che doveva colpire principalmente i principes italicorum
populorum, e che fu quindi poi considerata una delle cause principali della successiva guerra civile. La
situazione precipitò completamente nel 91 ac, quando il tribuno della plebe Livio Druso presentò un
articolato programma di riforme, il cui scopo fondamentale era il rafforzamento dell’autorità del senato: ai
senatori erano restituite le corti giudicanti nelle questiones, ma dopo che il corpo senatorio era stato
rafforzato con l’immissione di 300 cavalieri (questo, nelle intenzioni di Druso, in vista di una conciliazione
fra i due ordini); vi era poi, accanto ad una legge agraria e coloniaria che avrebbe dovuto raccogliere il
favore della plebe (fondazione di nuove colonie e ripristino delle leggi agrarie graccane), la proposta della
concessione della cittadinanza agli alleati italici per ripagarli in un certo qual modo della perdita delle terre
(con questi Druso aveva tra l’altro stretti rapporti, anche personali). L’intero programma suscitò molte
reazioni sia a Roma che in Italia: da un lato gli avversari romani di Druso (come il console Marcio Filippo)
vedevano con preoccupazione la posizione di preminenza che egli sarebbe andato comunque assumendo,
dall’altro anche vi erano ostilità, poiché parte delle elites degli alleati italici consideravano la concessione
indiscriminata della cittadinanza come l’annullamento delle distanze sociali e politiche vigenti
tradizionalmente nelle loro comunità. Comunque una parte delle leggi proposte fu approvata, ma restò in
vigore ben poco, se nello stesso anno il console Filippo riuscì a convincere l’assemblea ad abrogarle per vizi
formali, mentre, poco dopo, alla fine del 91 ac, Druso, ancora tribuno, veniva assassinato. E lo scoppio
dell’insurrezione alleata contro Roma (bellum sociale) fu diretta conseguenza della morte di Druso: la
delusione era stata troppo forte e le intese con gli italici ormai troppo avanzate. Va premesso che la rivolta fu
voluta dalle classi alte, che tuttavia ben seppero sfruttare e dirigere i sentimenti antiromani latenti nelle
masse, cosicché la guerra poté apparire come una ripresa della lotta (interrotta 2 secoli prima) per la libertà
italica. Certamente con la lotta armata gli insorti non avevano come obiettivo uno sfaldamento dello stato
romano, le cui risorse erano tanto superiori, ma miravano sempre alla cittadinanza e alla partecipazione alle
decisioni politiche, contando sulla divisione delle forze politiche romane e costringendo Roma, magari con
successi militari, ad arrivare ad un compromesso (e anche se la sconfitta militare degli alleati fu più rapida di
quello che si sarebbe potuto prevedere agli inizi, se quelli erano stati i fini della rivolta, essi furono
comunque raggiunti). Lo svolgimento della guerra può essere ricostruito con buona sicurezza principalmente
sulla base della narrazione di Appiano, Bella civilia: gli insorti comprendevano quasi tutte le comunità
alleate lungo gli Appennini centrale e meridionale (piceni, marsi, peligni, vestini, marrucini, sanniti, lucani,
bruzzi), parte della Puglia e in un secondo momento Etruschi, umbri e comunità isolate della Gallia cisalpina
(tutte le colonie latine invece rimasero fedeli a Roma, e anzi rappresentarono i punti forti della resistenza e
del contrattacco romani). Essi si diedero un ordinamento politico-militare che in un certo senso può essere
definito federale, con assemblee, comandi e magistrature che ricalcavano il modello romano; la sede del
potere fu stabilita nella peligna Corfinium (per la sua posizione centrale fra i due grandi gruppi di insorti) che
fu ribattezzata col nome fatidico di Italia, per quanto sia molto dubbio che la lotta sia stata sentita con uno
spirito nazionale. Dopo le prime vittoriose offensive alleate, i generali romani mirarono furbamente a
dividere i due gruppi degli insorti italici (quello centrale e quello meridionale), combattendo separatamente
al centro, contro marsi e peligni e bloccandoli ad Asculum; a sud contro le altre popolazioni, scontrandosi
con alterne vicende fra 90 e 89 ac in Campania e nel cuore del Sannio, a Bovianum ed Aesernia. La caduta di
Asculum nell’89 ac può considerarsi come la conclusione dell’evento militare. Ma intanto nell’ottobre del 90
ac, il governo romano era già giunto, tramite la lex Iulia de civitate (proposta dal console L. Giulio Cesare
che certamente incise parecchio sulla volontà di numerosi alleati di continuare la lotta) alla decisione di
concedere la cittadinanza romana agli alleati rimasti fedeli (le colonie latine) e alle comunità che avessero
deposto le armi entro un breve lasso di tempo; probabilmente, però, la legge conteneva già allora alcune
clausole secondo le quali avrebbe dovuto realizzarsi la concessione della cittadinanza: le comunità alleate
dovevano autonomamente decidere se accettare la cittadinanza (e si sa per certo che vi furono esitazioni, x
es. a Neapolis), i novi cives dovevano essere iscritti in otto nuove tribù aggiunte (per limitare il valore del
loro voto eventuale nei comizi) e solo in un secondo tempo sarebbero stati distribuiti nelle vecchie 35 tribù.
Un successiva legge dell’89 ac, la Plautia Papiria, deve avere poi probabilmente completato il processo di
immissione dei nuovi cittadini, rimanendo esclusi da essi Sanniti e Lucani, ancora in armi. Tutto questo per
quanto riguarda le comunità della penisola che si trovavano a sud del Po; quelle a nord, invece, furono
soggette ad un diverso provvedimento del console Pompeo Strabone dell’89 ac (padre di Pompeo Magno):
la lex Pompeia concedeva infatti a quelle comunità lo ius Latii, cioè le trasformava in colonie latine, con tutti
i vantaggi inerenti a questa condizione (come l’acquisizione della cittadinanza romana per i loro magistrati),
ma senza deduzione di nuovi coloni. Nel 49 ac la cittadinanza venne poi estesa anche alla Transpadana.
LA CREAZIONE DELLO STATO MUNICIPALE
L’estensione della cittadinanza romana a tutta la penisola mise in crisi i fondamenti cittadini dello stato
romano, imponendo una ristrutturazione della compagine statale e alcuni cambiamenti dei modi tradizionali
della politica: il centro del potere decisionale e politico rimase ovviamente in Roma con le istituzioni
fondamentali - senato, magistrati, assemblee popolari (che finirono per perdere ulteriormente
rappresentatività all’interno di un corpo civico che era stato enormemente ampliato, e in cui quindi
l’esercizio della partecipazione politica rimaneva sempre più confinato alla plebe urbana e alle elites
municipali, le uniche interessate e capaci di spostarsi a Roma per esigenze politiche) - . La classe dirigente
tradizionale, sebbene integrata da elementi provenienti dai novi cives, non subì tuttavia, nei decenni
successivi alla guerra sociale, una profonda trasformazione, che invece si ebbe in seguito alle guerre civili;
infatti i novi cives si schierarono secondo le tendenze già esistenti, e il potere effettivo rimase nelle mani di
una ristretta cricca oligarchica. Il territorio intorno a Roma fu invece profondamente ristrutturato con una
organizzazione efficiente: le comunità latine ed ex italiche furono trasformate in municipia, ossia in cantoni
dello stato romano; ognuno di essi aveva a capo dei magistrati (quattuorviri) con importanti funzioni, un
senato locale anche con compiti giudiziari, e un’assemblea popolare. Si trattava di un vero e proprio
decentramento politico-amministrativo: di fatto i nuovi municipi ebbero maggiore autonomia che non i
precedenti; per quel che riguarda la costituzione della struttura del municipio, essa fu affidata a personaggi
romani localmente influenti, ai quali competeva la determinazione dei territori dei municipia in relazione alle
precedenti comunità etniche, l’inserimento in una delle 35 tribù (non è chiaro il criterio di