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La quantità e qualità delle produzioni ceramiche presenti a Roma tra IV e III a.C.,
proveniente dalle più disparate regioni dell’Italia antica e del bacino del Mediterraneo non
ha confronti, per questa epoca, con altre realtà urbane.
Roma è anche un importantissimo centro di produzione. La sua ceramica fine da
mensa circola largamente in Italia e nelle aree delle altre due grandi potenze economiche
mediterranee dell’epoca, Marsiglia e Cartagine.
Anche le colonie dedotte iniziano presto a produrre ceramiche fini da mensa, dapprima
destinate a soddisfare i bisogni dei coloni, ma presto esportate su scala regionale e
macro-regionale.
Un effetto correlato è anche la diffusione nell’Italia centrale dell’uso di terrecotte
votive, standardizzate a partire da tipi magnogreci.
Il motore di questo fenomeno è costituito dalla colonizzazione romana come mostra il
confronto tra la composizione e la distribuzione dei depositi votivi e la distribuzione delle
colonie romane e latine.
L’agricoltura
La guerra contro Veio si conclude con la costituzione di nuove quattro tribù territoriali
nel territorio della città sconfitta e la distribuzione di lotti di terra ai capi famiglia e ai figli
adulti; i lotti misuravano 7 iugera, estensione che le fonti considerano non disprezzabile.
Le modalità dell’assegnazione fondiaria (capi famiglia e figli adulti) sembra indicare
che con la distribuzione del territorio veiente si pose soluzione – sia pure
temporaneamente – ad un problema di pressione della popolazione sulle risorse agricole.
La guerra contro Veio può anche assumersi come data di inizio di una storia della
proprietà agricola a Roma. E’ il momento in cui si afferma il modello della piccola
proprietà individuale e la figura del piccolo proprietario autosufficiente, coltivatore diretto
e contemporaneamente soldato.
Il problema della schiavitù per debiti è strettamente legato al problema agrario, poiché
sembra che il debitore potesse pagare il debito con il proprio lavoro; questo doveva
costituire il vantaggio maggiore per il creditore (e dunque il fine della schiavitù per debiti)
che in questo modo si garantiva una riserva di lavoro dipendente quando la struttura
sociale era ancora costituita prevalentemente da piccoli proprietari e ancora non si era
affermata la schiavitù come schiavitù-merce.
La soluzione del problema dei debiti giunge a risoluzione alla fine del IV – inizi III secolo
a.C. con una serie di provvedimenti legislativi (che inizialmente ne attenuano gli aspetti
più deteriori) e l’ampio sviluppo della politica colonaria che permette di spostare da Roma
verso le terre di recente conquista alcune migliaia di uomini.
Altro fattore importante è la crescita di Roma, sia sotto il profilo urbanistico che come
centro di mercato, consentendo la nascita di rapporti economici complessi tra le diverse
componenti cittadine.
Il modello di utilizzo del suolo che possiamo prefigurare per questa fase cronologica è
quello della “bipartizione territoriale”:
la fascia più prossima alla città, in genere caratterizzata da terreni pianeggianti e irrigui,
viene destinata all’agricoltura intensiva;
la fascia più esterna, spesso costituita da superfici collinari, viene destinata a forme di
sfruttamento estensivo, di allevamento, per legnatico.
Roma costituisce l’esempio macroscopico di questo fenomeno (vista la sua consistenza
demica), che tuttavia interessa anche gli altri centri dell’Italia centrale e soprattutto le
colonie dedotte da Roma, ove la riorganizzazione territoriale passa attraverso lo
strumento della centuriazione.
La ricerca archeologica di superficie mostra che molte delle ville che noi conosciamo
nel loro aspetto monumentale a partire dalla metà del III secolo a.C., sono occupate già
nel secolo precedente. Esiste dunque una sostanziale continuità tra il modello di fattoria
diffuso nel Lazio nel IV a.C. e le ville rustiche successive. Soprattutto esiste un evidente
parallelismo tra la diffusione delle anfore greco-italiche (e dunque lo sviluppo di una
viticoltura per il mercato) e questi primi esempi di ville di produzione (di cui sono
testimonianza i resti monumentali di III a.C.).
Le superfici agrarie acquisite con l’espansione in Italia erano enormemente superiori a
quanto necessario per i bisogni della cittadinanza. Oltre al terreno assegnato ai coloni,
rimaneva una consistente aliquota di terre che potevano essere vendute (ager
quaestorius), date in fitto dai censori, liberamente occupabile dai cives.
La presenza di queste forme diverse di acquisizione dell’ager publicus mostra come vi
fossero ormai grandi disparità nei patrimoni individuali:
l’acquisto o il fitto dei terreni indica che doveva esistere una parte di cives interessati
ad uno sfruttamento agricolo di queste superfici agrarie che andava al di là delle esigenze
di consumo di una famiglia contadina.
Queste ampie superfici vendute dai questori (per la Sabina si parla di 50 iugera)
necessitavano di manodopera ora fornita, in assenza di schiavi per debiti, da tre forme di
lavoro dipendente:
la schiavitù,
il bracciantato agricolo,
l’affitto agrario.
Gli equilibri delle strutture economiche dell’Italia romana furono profondamente scossi
dagli anni della II guerra punica e dalle distruzioni che essa produsse soprattutto nella
parte centro-meridionale dell’Italia.
La piccola proprietà contadina, fondamentale autosufficiente, risultò inadeguata per il
nuovo contesto determinato dall’unificazione dell’Italia centro-meridionale sotto il dominio
di Roma.
Diversamente dall’Italia settentrionale, oggetto di grandi interventi agrimensori nel II
secolo a.C., nell’Italia meridionale si hanno interventi solo sporadici e occasionali: dopo le
due colonie di Minturno e Sinuessa (del 295), si deve aspettare al 194 per avere la
deduzione di nuove colonie a Volturno, Literno e Pozzuoli.
La grande azienda, almeno nella sua prima fase, si sviluppa su terreni non centuriati
anche se delimitati, come era l’agro pubblico.
Le nuove strutture produttive determinano trasformazioni sul popolamento: in
Calabria, ad esempio, è stato osservato che i siti abitativi, durante il periodo ellenistico
distribuiti a macchia, in età romana si vengano a disporre lungo la via litoranea,
probabilmente a scapito di quelli siti in altura. Per i siti romani hanno un particolare rilievo
gli approdi e i corsi d’acqua, utilizzati per convogliare verso i centri di consumo i prodotti
dell’interno, principalmente legname e pece.
Il primo fattore di trasformazione deve essere visto nelle confische di terra realizzate
a danno degli alleati italici che nel corso del conflitto avevano defezionato. Attraverso tali
confische larghissime estensioni di terreni furono trasformati in ager publicus. Questo
nuovo ager publicus poteva essere oggetto di occupazione e quindi costituire la base per
concentrazioni fondiarie.
Nel complesso, tali confische sembrano avere un’estensione complessiva di ca. 10.000
km quadrati.
Anche se, in teoria, l’occupazione dell’agro pubblico era aperta a tutti i cittadini
romani, in pratica il suo utilizzo era un privilegio riservato ai più ricchi soprattutto nel
momento in cui l’afflusso di capitali proveniente dai bottini di guerra creava nuove
opportunità.
Al peso delle devastazioni prodotte dalla guerra e delle confische, si deve aggiungere
anche lo spopolamento delle campagne, determinato o indotto dal conflitto.
E’ possibile che lo spostamento, nel 180, di 40.000 Liguri con le loro famiglie nel
territorio di Benevento sia stato determinato proprio dalla necessità di ripopolare e far
ripartire la produzione agricola in quest’area.
Un ulteriore elemento di novità è rappresentato dall’impiego in misura sempre crescente
di schiavi da impiegare nei lavoro agricoli.
L’elemento di novità non è la presenza dello schiavo, già attestato in precedenza,
quanto piuttosto le dimensioni della sua presenza come forza lavoro.
E’ questo un fenomeno che non è mai stato in realtà predominante nel mondo antico
ad eccezione che in Italia e in Sicilia.
Anche in Italia, la diffusione del suo impiego è diversificata a seconda delle aree: gli
schiavi devono aver rappresentato la parte predominante della manodopera nelle grandi
aziende dell’Italia centro-meridionale.
Il lavoro libero salariato è difficile da quantificare, ma deve essere stata una
componente che ha sempre giocato un ruolo complementare ed essenziale rispetto al
lavoro servile.
Gli anni compresi tra la fine della guerra annibalica e la simultanea distruzione di
Corinto e Cartagine, vedono profonde trasformazioni sul piano economico e sociale. La
creazione delle province e le guerre condotte vittoriosamente contro le monarchie
ellenistiche consentono di drenare enormi ricchezze verso Roma e l’Italia, sotto forma sia
bottini di guerra che di obblighi tributari a cui erano soggetti le popolazioni provinciali.
Tra la guerra annibalica e la terza guerra macedonica, solo di bottini di guerra Roma
incassò circa 250 milioni di denarii a cui si devono aggiungere i tributi versati in diversa
forma dalle province. Secondo i calcoli del Frank, tra il 200 ed il 157 globalmente vi
sarebbero state a Roma entrate per circa 610 milioni di denarii.
Il bottino complessivo ammontò a quasi 46 tonnellate di argento grezzo, 15 tonnellate
di argento monetato, almeno 5 quintali di vasi in argento cesellati e, ancora, più di 1
tonnellata di oro monetato e poco più di 3 quintali di vasellame aureo, e, ancora, 94
corone auree donate ai trionfatori dalle città alleate.
Ancora più favoloso il bottino di guerra ricavato da L. Emilio Paolo su Perseo di
Macedonia. Plutarco (Aem. 32), che offre un’ampia descrizione del trionfo, pur non
indicando il valore complessivo del bottino, ricorda che, solo di metallo monetato,
sfilarono settecentocinquanta vasi colmi di monete d’argento e settantasette vasi colmi di
monete d’oro, ciascuno del peso di tre talenti. In ogni caso, l’entità del bottino permise di
abolire il tributum fondiario che i cittadini romani versavano allo stato, riscosso
nuovamente solo nel 43 a.C. (Plutarco, Aem. 37).
Gli obblighi tributari a cui erano soggetti i provinciali consistevano, essenzialmente, nel
versamento di denaro e derrate per l’approvvigionamento delle truppe e della città di
Roma. La crescita, urbanistica e demica della capitale rendeva, infatti, ormai insufficiente
il rifornimento granario assicurato dalle regioni circostanti, con il pericolo ricorrente di crisi
annonarie; già nel corso della guerra annibalica, dopo la presa di Siracusa, la pr