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Tuum. Adrianopoli, ottobre 1912, descrizione fonosimbolica di un episodio della guerra
d’Africa scritta da Marinetti nel 1914, e ancora negli Indomabili del 1922.
In Italia il movimento futurista produce una propria radicale battaglia “antipassatista”,
che riguarda innanzitutto la letteratura, ma che subito si apre alla pittura, alla scultura,
al teatro e infine alla musica. La strada del futurismo italiano, sul piano delle
provocazioni e degli arrembanti proclami veicolati dai manifesti anche sul terreno
musicale, ipotizzano uno scenario ancora più radicale e scollegato dalle coordinate
della tradizione.
I futuristi (Russolo su tutti) vogliono capovolgere lo scenario della composizione
musicale, destrutturando la quadratura ritmica, dilatando le associazioni armoniche,
ma soprattutto espellendo tutti gli attributi sonori della tradizione e basando il
progetto compositivo sui segni sonori della più aggiornata modernità urbana,
meccanica, metallurgica, tecnologica. Il rumore fa così il proprio ingresso pieno nella
cornice dell’opera musicale.
Il romanzo di Marinetti Zang Tumb Tuuum. Adrianopoli, Ottobre 1912, è… (continua
dalla fotocopia).
La radicalità di una tale scrittura vale come spartito ideale dell’utopistica orchestra di
intonarumori ipotizzata da Luigi Russolo. L’esperimento di scrittura fonica,
onomatopeica, rumorista, musicalizzata del romanzo futurista resta isolato, senza una
vera continuazione se non nel campo più popolare e intermedio del fumetto.
La Ciaccona di Bach: ascolto (e lettura) come interpretazione. L’episodio
musicalmente più appariscente della Coscienza di Zeno è quello dell’esecuzione in
casa Malfenti della Ciaccona di Bach. Il protagonista subisce lì, di fronte a tutta la
facoltosa famiglia triestina, una delle più cocenti e dolorose umiliazioni patite nel corso
della propria vita.
Ad esibirsi è il giovane Guido Speier, commerciante più o meno mantenuto dal ricco
padre, ottimo violinista dilettante. E lo smacco sta proprio nell’inevitabile confronto,
seppure a distanza, tra la maestria di Guido e la disarmante e inappellabile
insufficienza paventata da Zeno in alcune precedenti, infelici esibizioni tenute sempre
presso casa Malfenti.
Zeno vuole togliersi di dosso, o meglio di dentro, quell’orrendo suono, la nota tediosa.
Crede di poter diradare l’ingombrante sonorità imprimendo alla propria esistenza una
svolta importante, significativa, radicale. Pensa allora di trovare moglie, e di dare così,
a quell’immobilità fonica la giusta vivacità.
Le sue mire cadono su una delle quattro figlie del ricco commerciante Giovanni
Malfenti, “grande negoziante”, “ignorante ed attivo”. Ada è il nome della ragazza,
mentre le tre sorelle sono Augusta, Alberta ed Anna. Zeno, per farla breve, sbaglia
tutto: l’approccio, il corteggiamento, le tecniche di seduzione. Soprattutto sbaglia a
portare con sé il violino in casa Malfenti, e ancora di più sbaglia a produrne dei suoni.
Ma si sa: il gusto borghese per il decoro, la vanitosa piega esibizionistica, il volersi
adornare di cose belle ed artistiche e musicali per meglio apparire in società…
Zeno esegue qualche sonata accompagnato da Augusta, ma fin da subito si nota la
sua pochezza musicale, l’effetto disastroso nel giudizio degli ascoltatori presenti, Ada
Malfenti in testa. In più dimentica l’insegnamento di Tolstoj, secondo cui la musica
avvicina spiritualmente chi la fa, cioè chi la produce e la pratica insieme. E infatti è
proprio Augusta a rimanere intrappolata in quel discutibile e poco presentabile gioco di
seduzione.
Dunque una prima acquisizione: Zeno suona male, anzi malissimo, ne è consapevole e
non si vergogna più di tanto ad esporsi. “Se continuo a suonare”, dice Zeno, “lo faccio
per la stessa ragione per cui continuo a curarmi”. Zeno, quindi, associa la prassi
esecutiva, la voce e l’articolazione del suo violino, al suo stato di salute interiore. “Io
potrei sonare bene se non fossi malato, e corro dietro alla salute anche quando studio
l’equilibrio sulle quattro corde”.
Infine, lapidariamente, ci fornisce la propria spiegazione del problema: “La musica che
proviene da un organismo equilibrato è lei stessa il tempo ch’essa crea ed esaurisce.
Quando la farò così sarò guarito”. La mano sinistra di Zeno, la mano destra, sono un
prolungamento della sua coscienza, un’amplificazione del suono profondo, una
derivazione allargata e variamente rifratta della “nota orribilmente tediosa”.
Durante una di queste serate a casa Malfenti, Guido si presenta armato di violino e,
non senza una certa misurata civetteria, cede infine alle insistenti lusinghe degli ospiti
che gli chiedono un po’ di musica. E così attacca con la Ciaccona di Bach, pagina
seducente, terreno musicalmente insidioso. Per Zeno, cioè per la sua incapacità
tecnica di esecuzione, addirittura inavvicinabile.
Guido suona benissimo, cioè espande intorno a sé il senso e l’impressione della propria
sicurezza virtuosistica che è intenzionalmente l’espressione della propria baldanzosa
apparenza borghese. Ma Zeno, colpito e abbattuto da tanta bravura, attiva la propria
facoltà uditiva, scava dentro quella musica e alla fine dell’esibizione muove una
critica: “Ma però non capisco perché, verso la chiusa, abbiate voluto scandere quelle
note che il Bach segnò legate”. Per Zeno, l’intervento critico vale come una condanna.
Il disprezzo di
tutti i presenti cala sulla sua persona. L’episodio si conclude con la brillante, altezzosa
risposta di Guido: “Forse Bach non conosceva le possibilità di quell’espressione. Gliela
regalo io!”.
Zeno quindi sa di avere un “alto sentimento musicale”, misura costantemente quel
modo di suonare con il proprio e da qui con la propria coscienza inetta e sonoramente
tediosa, il quadro musicale creato da Svevo si carica di elementi e componenti sonore
importantissime. Che svelano un tipo di musica nuova, sveviana appunto, e al tempo
stesso ci portano a maturare un’attenzione uditiva verso la fonte umana e psicologica
di questi suoni.
Guido accentua ed enfatizza determinati aspetti della Ciaccona, dandone una versione
seducente e ammaliante, in cui il virtuosismo e la drammatizzazione tendono a colpire
l’orecchio ingenuo e poco attrezzato dei Malfenti. Zeno Cosini, invece, scova il
dettaglio, la legatura e poi l’arco fatturato in un certo modo, per dire a Guido, poi ai
Malfenti e infine ai lettori, che c’è qualcosa di ingannevole in quella – peraltro
magnificamente eseguita – Ciaccona, qualcosa di romanticamente seducente ed
effimero al tempo stesso, qualcosa di patinato, di finto, di menzognero sulla reale
sostanza dell’esecutore.
Le vicende future dell’esistenza di Guido lette sula piano professionale e matrimoniale
– tragicamente fallimentari – daranno ragione a Zeno, ossia alla sua capacità analitica
di ascoltare concentrati in quell’arco e in quelle legature il senso di tutta una vita. La
musica è ancora il veicolo privilegiato di conoscenza che spinge verso il fondo delle
cose.
L’ascolto come processo attivo, gli impedisce di soggiacere al tratto romantico e
seducente della musica di Guido.
BERIO – AUTORI VARI – a cura di Enzo
Restagno
Edoardo Sanguineti – La messa in scena della parola: la musica vocale, ha
dichiarato Berio una volta, è una “messa in scena della parola”. E in altra occasione ha
affermato che gli interessa in quanto mima e descrive “quel prodigioso fenomeno che
è l’aspetto centrale del linguaggio: il suono che diventa significato”.
Berio è stato sempre affascinato dalla forza espressiva e impressiva che possono
acquistare i segni volontari e involontari di cui è portatrice l’emissione vocale
preverbale, dal gemito al colpo di tosse. E’ questo grado zero (anzi sottozero) del
linguaggio, che si potrebbe definire puro rumore orale, puro gesto sonoro, questo
spazio così resistente alla notazione scrittoria, quello in cui affonda le radici ogni
discorso possibile.
In A‐ronne si celebra il doppio processo di innalzamento dal suono al senso e di
abbassamento dal senso al suono. A‐ronne fa, della vocalità musicale, anzi della
vocalità umana, il proprio oggetto, problematizzando la dicibilità del senso, e il senso
della dicibilità.
Suono organico e suono strumentale sono invitati a giocare senza gerarchizzazione
determinata, in una sorta di aperta e indefinita concorrenzialità. Mettere in musica
significherà dunque immettere l’espressione verbale entro una “macchina ulteriore
che amplifica e trascrive il senso su un piano diverso della percezione e
dell’intelligenza”.
La parola del “paroliere” e del “librettista”, se possiede un senso “linguistico”,
possiede pure da sempre, come ogni parola umana, anzi proprio come ogni umano
rumore, un senso “musicale”.
Se la scrittura letteraria fissa il senso dell’enunciato, la scrittura musicale ne controlla
direttamente la connotazione. Di fronte al muto materiale verbale, la notazione
musicale decide e definisce quella misconosciuta dimensione semantica,
acusticamente articolata e declinata, che la civiltà della scrittura ha depresso, sempre
più fortemente, in favore di una logica semantica riduttivamente concettuale, astratta,
scorporata.
Il metaoperismo di Berio non giova tanto alla designazione di questa e quella specifica
composizione, quanto a indicare la costellazione centrale in cui, presso Berio, parola e
musica vengono a contatto, vengono in scena.
E’ il grande tema della scena straniata, che percorre un po’ tutto il ‘900, e che sembra
ormai orientarsi, e in ogni modo lo deve, verso modi di impossibile riconversione, di
impraticabile recupero. La preoccupazione attuale di Berio, oggi, trova
significativamente il suo centro, sul terreno dell’opera, nel problema della fossa
orchestrale, nello storico emblema del golfo mistico, che è appunto il segno
macroscopico della grande illusione incantatoria, e della separatezza manifesta ed
invalicabile tra il visibile e il gestuale della vocalità e l’occulto e il truccato dello
strumentale.
“Un re in ascolto: una vera opera”, di Massimo Mila. “Re in ascolto” è una vera
opera, non un assemblaggio di pezzi musicali intorno a una successione di scene più o
meno intimamente collegate. Questa volta c’è una azione organica, coerente, che
progredis