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Il contributo di questi intellettuali al rinnovamento consiste nello svecchiamento del
pensiero critico – ancora fermo all’esaltazione del melodramma quale unica
prerogativa del genio italico in musica – grazie a categorie derivate dalla letteratura.
In Bastianelli convivono la ricerca dell’originalità spirituale nei capolavori più diversi e
l’apertura alla musica più moderna, che gli fa superare d’un balzo l’opera italiana e
Wagner. Il critico avverte la necessità di trovare una via d’uscita dall’impasse della
tradizione ottocentesca, quando ormai il decadentismo di uno Strauss o di un Debussy
ha dato prova di una sensibilità ben più avanzata, segno di un “culto della bellezza
come spasimo, come attimo”. Una prospettiva affascinante ma da non perseguire: si
tratta di una “degenerazione armonicista”.
La strada per realizzare l’ideale etico di un’arte nuova sarà piuttosto la riproposta della
musica antica italiana, dal Palestrina al frescobaldi, capace di “inesauribile luce
musicale”. Bastianelli ne “La Voce” del marzo 1911, diceva: “Verrà ancora in musica
chi rivendicherà i diritti delle grandi forme pure antiche – la fuga, la sonata e, sempre
in senso latissimo e ideale, la cadenza periodica – sulla volubile elasticità della prosa
musicale odierna”.
Sulla stessa linea nazionalista e con maggiore sistematicità si muove Torrefranca nella
“Vita musicale dello spirito”, articolata apologia della propria posizione critica; più
appartato Pizzetti si interessa ancora alla tradizione operistica.
A “La Voce” offre contributi importanti, come il lungo e polemico articolo sui “Nostri
istituti musicali”, pubblicato nel 1909, oppure l’altrettanto esteso intervento su Puccini
che dimostra la totale incomprensione per la drammaturgia e la poetica del collega.
Questa l’implacabile conclusione: “Certo è che proseguendo per la strada dove ha
incontrato e conosciuto Tosca, Butterfly e Minnie, Puccini arriverebbe ben presto alla
rovina totale”.
VI – Musica e invenzione letteraria nei narratori d’inizio secolo (e seguenti):
sulle fotocopie.
X – Scelte poetiche di musicisti: come si è potuto constatare nel caso di Malipiero e
Casella, sin dagli inizi degli anni ’20 si assiste a una rinnovata attenzione dei musicisti
per la tradizione letteraria italiana, concomitante con fenomeni di “neoclassicismo”
musicale, con la prosecuzione della riscoperta e riproposta della musica antica e con
un diffuso sentimento nazionalistico.
L’interesse si concentra principalmente sui primi tre secoli della letteratura in volgare:
Dante, Poliziano, Brunetto Latini, Cino da Pistoia, Boccaccio e Petrarca. Su questa scia
non viene trascurata neppure la poesia romantica, leopardiana: in particolare, già nel
1909 Malipiero aveva intonato il “Canto notturno” per baritono e orchestra. Nel 1941
Petrassi presenta al Teatro La Fenice di Venezia una straordinaria intonazione del “Coro
di morti”.
Il desolato paesaggio sonoro, duro e cupo su cui tutte le voci si scontrano articolando
gli interrogativi e le drammatiche certezze leopardiane (viene più volte reiterato il
lapidario “che fummo?”), mette in scena l’esternazione di un intimo e lacerante teatro
dello spirito.
Singolare fortuna hanno poi conosciuto, da un capo all’altro del ‘900 e in tutta Europa,
le rime di un grande artista come Michelangelo, capace di una sorprendente sintonia
con i musicisti più diversi, forse grazie alla
rara alchimia tra passione, tensione etica e inquietudine spirituale in un poeta che tale
non è di professione, ma che si esprime prevalentemente attraverso altre arti.
Negli anni 1933‐36 fu Luigi Dallapiccola a offrire una raffinata intonazione dei “Sei cori
di Michelangelo Buonarroti il Giovane”; nel 1940 Benjamin Britten compose i “Seven
Sonnets of Michelangelo”, autobiografici; Dmitrij Sostakovic scrisse la “Suite su versi di
Michelangelo Buonarroti”, un complesso di undici liriche. Quest’ultimo si disse colpito
dalla bellezza dei versi, dalla profondità di pensiero e dalla semplicità di Michelangelo.
Lungo quaranta minuti di musica, attraverso una molteplicità di atteggiamenti
espressivi, viene messo in scena un artista in posa, che si rivolge con fierezza al cielo,
si gonfia d’ira per gli abusi nella religione, rappresenta la morte, discorre della notte e
dell’esilio, rievoca Dante e rivela il segreto furioso della sua arte immortale.
XI – Musica e immaginario nella poesia del ‘900: superata la stagione del
decadentismo, la musica conserva un ruolo più dimesso e marginale nella poesia del
‘900. Tra poesia italiana del ‘900 e musica si prepara un rapporto difficile, di scambi
scarsi e di scarso rilievo. Ancora Petrassi dovette accorgersene: “Chiesi a Ungaretti e
poi anche a Quasimodo ma niente!”. La poesia italiana si costituisce infatti come
linguaggio autoreferenziale.
La lirica vive di una musicalità propria, assoluta, sulla quale il musicista non può
lavorare, pena distruggere l’equilibrio interno del verso, disintegrarne la unità e il
suono originale. Montale l’ammetteva in termini espliciti: “La verità è che la parola
veramente poetica contiene già la propria musica e non ne tollera un’altra”.
Dei rari incontri di Montale con la musica segnaliamo “Keepsake” (1944), da “Tre
liriche” per baritono e pianoforte di Petrassi, “Cinque liriche di Montale” di Bruno
Bettinelli e “Tre poesie di Montale” di Roman Vlad.
Tra le liriche originali di Quasimodo si segnala “Lettera alla madre”, cantata breve per
baritono, archi e clavicembalo di Gianni Ramous; nel 1953 Pizzetti compone “Due
poesie d’Ungaretti” (1953).
XII – Il teatro musicale nel secondo dopoguerra: benché gli esempi di
collaborazione diretta tra scrittori e compositori non manchino, la relazione fra testo
letterario e intonazione musicale fu perlomeno contraddittoria. Si consideri un caso
emblematico, legato alla figura di Massimo Bontempelli. Nel 1942 Riccardo Malipiero
presenta al Teatro Regio di Parma “Minnie la candida”. Malipiero chiede all’autore
l’autorizzazione a metterlo in musica e lo intona direttamente, senza la mediazione di
riduzioni librettistiche, con sorpresa dello scrittore, pure critico musicale.
Il libretto non scompare certo del tutto, restando indispensabile per la trasposizione di
testi narrativi: lo stesso Malipiero se ne servirà per l’opera buffa “La donna è mobile”,
nel 1954. Si tratta si una feroce e farsesca satira di costume in cui la protagonista
muta di umore e d’identità quando si cambia d’abito. Malipiero si cimenta con il nuovo
genere, poi, dell’opera televisiva: autore del libretto è Dino Buzzati, che lo ricava, in
tre giorni, da uno dei suoi “Sessanta racconti”, “Eppure battono alla porta”, critica
dell’inconsistenza morale dell’alta borghesia, indifferente all’inondazione che sta per
annientarla: metafora apocalittica che la musica atonale di Malipiero carica di
angoscia.
Montale, infine, traduce un entremes di Cevantes per il “Cordovano” (1949) di Petrassi,
un’opera comica.
XIII – Impegno politico e sperimentalismo linguistico: il rapporto della
generazione dell’avanguardia musicale con la cultura letteraria si sviluppò lungo una
doppia direttrice: da un lato la rinuncia a forme di espressione e comunicazione
artistica tradizionale in nome di uno sperimentalismo linguistico; dall’altro
l’assolutizzazione del dovere dell’impegno politico, in ogni caso mai venuto meno.
Tra le figure chiave di quella stagione c’è Luciano Berio, del quale spicca la
collaborazione con Edoardo Sanguineti e Italo Calvino. Col primo il percorso
sperimentale risulta particolarmente stimolante sul piano linguistico, in quanto Berio
incontra un autore la cui intera produzione è – “antimusicalmente” – “un monito a non
lasciarsi incantare dalle melodie”.
“Laborintus II” (1963‐65) è incentrato su temi danteschi, può essere rappresentazione
o mistery‐play: i frammenti sono infatti posti in ordine sparso, montati a mosaico da
Berio, rigettando qualsiasi sviluppo.
Titolo fondamentale della ricerca drammaturgica di quegli anni è “Passaggio”
(1961‐62), messa in scena di Berio e Sanguineti per soprano, due cori e strumenti,
priva di una vicenda narrativa vera e propria, e dunque una sorta di anti‐opera,
almeno negli intenti originari. L’unica, anonima protagonista, vittima della società,
percorre una via crucis laica composta da sei stazioni dai nomi latini, subendo
inseguimento, solitudine, tortura, prigionia, vendita all’asta, mentre due cori differenti,
in orchestra e in sala, commentano gli eventi.
Berio incontra Calvino al tempo di “Allez‐hop” (1959), “racconto mimico” per
mezzosoprano, otto mimi, balletto e orchestra. Già in questo caso il compositore
impiega quelle forme chiuse, come ballate e canzoni, che gettano le basi di uno
spettacolo critico e straniante. La collaborazione con Calvino prosegue in anni più tardi
con due azioni musicali, in cui ridotto è lo spazio per l’impegno ideologico. “La vera
storia (1977‐78),
alla cui base stanno le vicende cupe del “Trovatore” verdiano; “Un re in ascolto”
(1979‐83), in cui l’originale calviniano è impiegato solo parzialmente, calato in una
immaginaria rappresentazione della “Tempesta” shakespeariana. L’opera stessa è
strutturata per stazioni che interrompono e neutralizzano il flusso del continuum
temporale, rendendolo sommamente antinaturalistico. In questo “Castello dei destini
incrociati” il re in ascolto è un Prospero meditabondo e inquieto, un re che finirà (forse)
per morire dopo una lenta agonia al termine dell’azione musicale. Si tratta di una
riflessione metaforica sulla presenza della musica nella memoria, sulla sua capacità di
creare uno spazio immaginario autoreferenziale, di realizzare un atto di autocoscienza,
per cui l’ascoltatore percepisce nell’oggetto dell’ascolto anche se stesso che ascolta.
Su questo metamorfico potere del suono riflette il protagonista in una serie di “arie”.
L’altro nome fondamentale del teatro “impegnato” di quella generazione è Luigi Nono,
cui andrà associata, in questa sede, la figura di Cesare Pavese: “La ter