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CAPITOLO IV
IL ROMANZO INVENTATO
La forma del romanzo era maturata in Europa con lentezza nei secoli, subendo però una sorta di
messa a punto finale proprio in Inghilterra, dove gli scrittori si erano posti alla ricerca di un nuovo
modo di narrare, convinti anche di averlo trovato. Samuel Richardson si era dichiarato l’inventore,
con Pamela, di “a new species of writing” e poi, in una postfazione a Clarissa, aveva affermato di
essersi risolto a tentare qualcosa che non era ancora stato fatto. Nella prefazione a The History of
the Adventures of Joseph Andrews, Fielding aveva detto di aver trovato un nuovo tipo di scrittura
che finora non era mai stato tentato nella loro lingua. Qualche anno dopo a fare un’affermazione del
genere è Walpole, il fondatore del genere “gotico”, che la critica ha difficoltà a collocare nello
scenario d’origine del romanzo. Walpole condivide con Fielding e Richardson la convinzione di
aver inventato una forma narrativa nuova, e scrive: “Avrei potuto sostenere che, essendo io il
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creatore di una nuova specie di romance, avevo la libertà di stabilire le regole che ritenevo più
adatte alla sua conduzione. Significativa in proposito è anche l’insoddisfazione degli autori per la
terminologia esistente, che nelle principali lingue europee attraverserà un periodo di turbolenza
semantica. Molti saranno i termini usati prima di giungere a quelli definitivi.
La prima occorrenza del termine novel nell’accezione di romanzo moderno si trova nella prefazione
a The adventures of Ferdinand Count Fanthom, del 1753, dove Tobias Smollet scrive:
Un romanzo è un grande affresco che comprende i personaggi della vita reale disposti in gruppi diversi ed esibiti in vari
atteggiamenti, secondo gli intenti di un disegno uniforme e di un evento generale, a cui ogni figura individuale è
assoggettata. Ma questo disegno non si può mandare a effetto con decoro, probabilità o successo, senza un personaggio
principale che attiri l’attenzione, unifichi gli incidenti, dipani il bandolo del labirinto e alla fine chiuda la scena in virtù
della sua importanza.
Passarono tuttavia altri due decenni prima che il termine novel si affermasse definitivamente; ma
intanto era diventato scontato che il romanzo dovesse apparire come una narrazione fortemente
accorpata. Dopo la metà del secolo, quest’unità narrativa si configura come un tratto che ogni
racconto deve possedere, sia esso di finzione che storico.
Unità percepita
Che l’unità sia concepita in modo diverso ad prima lo dimostrano due articoli:
1. Articolo di Samuel Johnson sul numero 139 del «Rambler». Johnson afferma che in una
narrazione i passaggi intermedi devono unire l’effetto finale con la prima causa, attraverso
una concatenazione regolare e ininterrotta; nulla deve perciò essere inserito che non appaia
sorgere da qualcosa di precedente e dar luogo in modo chiaro a qualcosa che consegue.
2. Articolo di John Hawsworth, sul numero 4 di «The Adventurer». Appare la seguente
affermazione: “è sempre necessario che i fatti abbiano l’aria di venir generati in serie
regolari e connesse, in modo da susseguirsi con rapida successione; e tuttavia essi debbono
essere presentati con circostanze che li differenzino. Se non hanno connessione evidente e
necessaria, le idee che suscitano si cancellano l’un l’altra, e la mente viene ingannata da
un’apparizione fuggevole e imperfetta di innumerevoli oggetti che, appena spuntati, subito
svaniscono”.
Gli articoli appena citati, in realtà, non dicono nulla di nuovo che non sia già stato esplicato in un
passo della Ricerca sull’intelletto umano di David Hume, dove Hume esamina il rapporto tra testo e
mente del lettore. L’autore inserisce delle considerazioni sulla comunicazione scritta dove parla dei
modi del pensiero. È significativo perché indica che per lui il processo della lettura è simile a
quello del pensiero: avanza in base alla medesima combinatoria associativa e intrattiene rapporti
analoghi con l’immaginazione e le passioni, condividendone la temporalità. Hume si riferisce
scontatamente alla lettura silenziosa, assimilandola al pensiero. La pagina stampata transita veloce
per la vista e giunge alla mente già sotto forma di significato e di immagini, indistinguibili dal
pensiero lasciato a se stesso. L’essere umano, afferma Hume, è alla continua ricerca della felicità,
che spera di conseguire gratificando una qualche passione o un qualche affetto. Perciò raramente
agisce, parla o pensa senza un’intenzione e senza aver presente uno scopo. Essendo tale la natura
dell’uomo, quando gli autori si accingono a scrivere devono avere in mente un piano e seguirlo il
più possibile fino in fondo. Dunque, poiché questa regola non ammette eccezioni, ne consegue che
nelle composizioni narrative gli eventi o azioni che lo scrittore racconta debbono essere tra loro
connessi da qualche legame o vincolo: debbono essere collegati l’uno all’altro nell’immaginazione
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e formare un tipo di Unità che possa immetterli tutti in una medesima prospettiva. È perciò
indispensabile che ogni genere di racconto sia dotato di unità. È evidente che l’unità a cui il filosofo
allude non è la stessa unità di cui parlavano Cinthio e Scudéry. Non è il rispecchiamento di un dato
esterno, di un ordine che sarebbe già presente nelle cose; ma è piuttosto un evento che accade
nell’immaginazione del lettore all’atto della lettura. È qualcosa che si produce nel luogo
dell’attività mentale del lettore al suo incontro con il testo. quest’unità sorge nella comunicazione,
nel rapporto tra soggetto lettore e oggetto testo. è, insomma, un effetto cognitivo: il testo appare
unitario a chi legge. È esperienza di unità; è unità percepita e si verifica nei confronti di quegli
scritti in cui i fatti sono connessi in base ai meccanismi che regolano i processi mentali. Ecco la
differenza rispetto all’idea di unità che avevano i secoli precedenti e che i racconti di quei secoli
incarnavano. A questo punto Hume riprende i principi di somiglianza, contiguità e causa-effetto
illustrati nella prima parte della terza sezione, proponendo un diverso gruppo di esempi, tutti
attinenti alla narrativa. Qui Hume non prende in considerazione i contenuti della narrativa, ma il
modo di configurare gli intrecci e collegare i fatti, anche nella loro dimensione temporale.
Contiguità e somiglianza uniscono in maniera minore rispetto al rapporto di causa-effetto, che
perciò è quanto accorpa più di frequente tutti i tipi di racconto. Come uno storico, mentre scrive di
una catena di eventi, si rende conto che la conoscenza delle cause non è solo più soddisfacente, in
quanto questo rapporto è il più forte di tutti, ma è anche la più istruttiva, perché mediante questa
sola conoscenza noi siamo in grado di controllare il futuro.
Va subito notato come l’idea humiana di unità non si ponga come un tratto puramente formale, ma
subito apra all’idea di conoscenza. Inoltre, Hume afferma che un’unità come quella indicata è
indispensabile in ogni narrazione: biografica, storica o epica. Hume sostiene che l’unità percepita
dal lettore, cioè quella prodotta nella sua mente da una narrativa che imiti i meccanismi mentali di
associazione delle idee, serve a far scorrere la narrazione verso un’agnizione (rivelazione
dell’identità di uno o più personaggi) nel quale la curiosità del lettore viene finalmente soddisfatta.
Il naturale protendersi della mente verso il futuro e la connessione dei fatti serviranno a creare una
sorta di pedana su cui scorrerà la lettura sotto la spinta della curiosità. Il metodo consiste nel
suscitare dapprima la curiosità, per poi farla diventare impazienza ritardando la notizia che la
soddisferà. In termini moderni potremmo dire che Hume nota che l’attesa, la quale è uno stato
affettivo orientato verso il futuro, amplifica le emozioni su cui si innesta e genera quel senso di
tensione e ansia che sappiamo esserne il nucleo emotivo. il ritardo nell’ottenere l’informazione
desiderata induce incertezza e questo prova l’ambiguo sentimento di uneasiness, che è una sorta di
ansia che si somma alla passione principale e la soffonde del suo proprio tono. Il ritardo, aggiunge
Hume, serve ad accrescere non solo le passioni sgradevoli ma anche quelle gradevoli: il tempo
dell’attesa, solo se breve, può accrescere un amore. Se è così che opera l’attesa nella vita, nello
stesso modo sarà per quella suscitata dalla lettura. Come? In questo è implicata l’empatia, la
propensione dell’essere umano a recepire, tramite la comunicazione, le inclinazioni e i sentimenti
degli altri, immedesimandosi in loro e superando i confini della propria soggettività, con l’assumere
su di sé il patimento o la gioia altrui. Importante notare come per il filosofo occorre del tempo
affinché l’empatia attivi un’emozione. L’empatia sorge nella vita nei confronti di altri esseri umani
e anche nei confronti di personaggi di cui leggiamo le storie e nei quali ci immedesimiamo,
condividendone le emozioni. Ma come avviene questo passaggio simpatetico in letteratura, visto
che la situazione in cui un individuo legge è ben diversa da quella che innesca l’empatia nella vita
reale? Per il filosofo il passaggio non è mai immediato e richiede sempre un lasso di tempo, anche
se breve. Mostrare un personaggio in preda alle passioni oppure nello spasimo dell’attesa non è
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sufficiente a generare passione e attesa in chi legge: occorre ben altro perché si apra il canale
dell’empatia. Occorrono delle modalità comunicative adeguate: è necessario presentare situazioni il
più possibile concrete: è importante che di un personaggio di un evento si mostrino i tratti specifici,
i particolari, le minute circostanze. È la prossimità con l’oggetto a creare il giusto ambiente per le
passioni. Le idee generali hanno un rapporto scadente con l’immaginazione e con le passioni,
laddove sono invece quelle particolari a dare loro vita. Il lettore si immedesima meglio nei
personaggi e in breve tempo è portato a viverne le passioni.
Detto questo, il problema per Hume non è ancora risolto. C’è un ulteriore tratto da percorrere,
qualcosa da chiarire che nel brano rimane implicito: l’atto della lettura mette in gioco
l’immaginazione e le passioni. È possibile sollecitarle entrambe contemporaneamente? Nel Tra