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La politica di riforma e la composizione del Consiglio provinciale
G PA(quattro effettivi e due supplenti), nominati dal Consiglio provinciale, fuori dal suo seno. La prevalenza numerica della componente elettiva su quella burocratica era innegabile, ma l'autorevolezza del prefetto e le cognizioni giuridiche dei consiglieri di estrazione tecnica erano tali da far pendere la bilancia dal lato opposto. All'interno della politica di riforma convivevano, insomma, logiche differenti, si fronteggiavano ispirazioni contrastanti: una tendente adUn allentamento della rigidità di alcune parti del sistema, l'altra mirante ad un suo ulteriore consolidamento. Questo "strabismo" normativo si può spiegare facendo ricorso a due tendenze istituzionali di lungo periodo:
- la naturale evoluzione in senso statalistico dei leader politici che, all'inizio della loro carriera, parteggiano per una coraggiosa legislazione autonomistica;
- l'esigenza, per le classi dominanti, di
controbilanciare
l'ampliamento
della
base
elettorale
e
l'adozione
di
discrete
misure
decentratrici
con
una
corrispondente
messa
in
opera
di
più
raffinati
strumenti
di
controllo
e
di
vigilanza.
Fra
questi
ultimi
un
ruolo
fondamentale
spettava
certamente
ai
prefetti
ed
è
appunto
verso
tale
snodo
cruciale
del
network
amministrativo
che
Crispi
manifesta
uno
speciale
interesse
e
dedica
una
particolare
attenzione.
I
punti
cardinali
delle
sue
proposte
di
La modifica in materia sono essenzialmente tre:
- una diversa normativa sullo status giuridico e, in specie, sul collocamento a riposo, in disponibilità o in aspettativa per motivi di servizio;
- l'abolizione dell'incompatibilità tra mandato parlamentare e carica prefettizia;
- l'istituzione della cosiddetta "grande prefettura".
La prima riforma, al di là del suo carattere apparentemente tecnico-garantista, era finalizzata, in realtà, al...
conferimento
al
governo
di
strumenti
più
celeri
e
snelli
per
gestire,
senza
troppi
ostacoli,
il
corpo
prefettizio
Ma
si
rischiava
così
di
trasformare
i
prefetti
in
comandanti
di
reggimento
nelle
mani
del
ministro
dell'Interno.
Né,
ad
allontanare
completamente
il
sospetto
di
una
revisione
legislativa
diretta,
anzitutto,
ad
aumentare
il
potere
gerarchico
del
governo,
potevano
valere
le
giustificazioni
avanzate
da
Crispi
a
sostegno
delle
sue
idee,
e
che
consistevano
nella
riaffermazione
del
carattere
sovranamente
amministrativo
del
progetto
in
questione.
La
seconda
proposta
mirava
invece
ad
estendere
la
cerchia
dei
soggetti
che
avevano
titolo
per
essere
nominati
prefetti,
abolendo
il
regime
di
incompatibilità,
previsto
da
una
legge
del
1877,
a
carico
dei
deputati.
Si
veniva,
in
tal
modo,
ad
infrangere
nuovamente
l'esile
diaframma
che
separava
il
potere
legislativo
da
quello
esecutivo,
a
confondere
ancora
una
volta
la
politica
e
l'amministrazione.
La
riforma
era,
in
effetti,
più
virtuale
che
reale;
apriva
certamente
un
diverso
"accesso
laterale"
e
politico
alla
carriera
ma
non
consentiva
una
contemporanea
sovrapposizione
dei
ruoli,
giusta
l'automatica
decadenza
dal
mandato
che,
nella
prassi,
era
stabilita
per
il
deputato
assurto
alla
carica
di
prefetto.
In
ogni
modo,
l'innovazione
legislativa
presentava
una
forte
carica
simbolica
e
aveva
un chiaro significato strumentale. Poteva tradursi in uno scambio di favori fra eletto e potere esecutivo; il primo otteneva un ambito riconoscimento personale, assai utile per la sua stessa carriera futura, il secondo ampliava e rafforzava la propria base di consenso e di sostegno politico. Il terzo elemento della strategia crispina, quello più ambizioso e di maggiore rilevanza, consisteva nella creazione della cosiddetta "grande prefettura", nella
definitiva
attuazione,
cioè,
di
quel
disegno
di
riorganizzazione
e
razionalizzazione
complessiva
degli
apparati
amministrativi
statali
che,
fin
dal
1868,
si
era
posto
all'attenzione
dei
governi,
del
Parlamento
e
della
cultura
giuridica
liberale.
La
proposta
in
oggetto,
avanzata
nel
1891,
si
traduceva
in
due
distinti
progetti:
l'uno
relativo
alla
revisione
delle
circoscrizioni
amministrative,
con
previsione
di
un
Distretto
e
l'altro
portante
l'istituzione,
a
tale
livello,
di
un
prefetto
distrettuale,
di
un
vero
e
proprio
"superprefetto",
alla
cui
guida
e
sorveglianza
venivano
ricondotti
molti
di
quei
servizi
amministrativi
decentrati
che
si
erano
staccati,
col
tempo,
dal
suo
controllo
e
coordinamento.
Era
un
modo,
cioè,
per
invertire
quella
tendenza
dualistica,
e
di
segno
centrifugo,
che
aveva
portato
il
nostro
sistema
amministrativo
ben
lontano
dal
modello
(francese)
delle
cosiddette
"prefetture
integrate".
A
differenza
dei
primi
due
casi,
quest'ultima
ipotesi
non
ottenne
l'approvazione
del
Parlamento,
a
testimonianza
della
persistente
ostilità
manifestata
dallo
stesso
corpo
prefettizio,
dai
singoli
ministri
e
dalle
medesime
collettività
locali
nei
confronti
di
una
riforma
che
avrebbe
sicuramente
sconvolto
i
tradizionali
assetti
dell'amministrazione
pubblica
e
le
consuetudini
del
sistema
politico
periferico
e
dato
vita
ad
una
cospicua
concentrazione
di
potere
nelle
mani
di
pochi
e
autorevoli
superprefetti,
orientati
gerarchicamente
dal
centro.
I
tre
progetti
sottendono
una
logica
unitaria
e
omogenea:
quella
di
rafforzare
l'impalcatura
periferica
dello
Stato
onde
consentire
al
governo
(e
alla
classe
dominante)
di
adempiere
al
suo
irrinunciabile
compito
di
guida
e
di
indirizzo
della
società
civil