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La giustizia è remota non solo quando ogni libertà di perseguirla è spenta ma anche quando, al contrario, la
libertà
(come assenza di costrizione) è assicurata ma non si sa a che cosa attaccarla, a che cosa finalizzarla Giustizia e
libertà,
come esigenze esistenziali mostrano cosi di implicarsi, di non potere rare a meno l'ima dell'altra: non c'è
giustizia senza
libertà di perseguirla; non c'è libertà senza una giustizia che meriti di essere perseguita.
La giustizia speculativa e l'esperienza dell'ingiustizia
Forse, l'origine del fallimento è nel carattere speculativo dei tentativi di comprendere la giustizia: speculativo,
sia nel
senso di rispecchiamento intellettuale di qualche cosa che sta fuori di noi, ciò che è giusto; sia nel senso di
ragionamento che costruisce da sé i suoi oggetti, le idee di giustizia. Ma la giustizia non è né una cosa né
l'altra: non è
fuori di noi, come è detto, infatti, che la giustizia è una virtù; non è semplicemente un'idea, come suggerisce
l'espressione "sentimento di giustizia". In una delle Lettere (VII, 344), Piatone afferma che, astrattamente, è
impossibile
definire la giustizia: lo può fare solo, in concreto, l'uomo giusto poiché egli ha una "natura conforme alla
giustizia". Il
che, a meno che sia una deliberata tautologia, squalifica d'un colpo solo ogni impostazione puramente
speculativa.
Forse, possiamo dire che la giustizia è un'esigenza che postula un'esperienza personale: l'esperienza, per
l'appunto, della
giustizia o, meglio, dell'aspirazione alla giustizia che nasce dall'esperienza dell'ingiustizia, dal dolore che ne è
suscitato.
Se non disponiamo della formula della giustizia che possa mettere tutti d'accordo, molto più facile - a meno
che non si
abbia a che fare con coscienze deviate - è convenire nel percepire l'ingiustizia insita nello sfruttamento, nella
reificazione di esseri umani da parte di altri esseri umani. Ed è più facile non vederla o rimuoverla come cosa
remota
che rimanere insensibili, una volta che si sia entrati con essa in un contatto immediato.
Le divergenze nascono subito dopo, quando si tratta di stabilire quali sono le strategie efficaci da perseguire.
Questo è,
propriamente, il momento delle determinazioni politiche: i discorsi sulla giustizia - se non li si vuole
confondere
integralmente con i discorsi sulla politica - attengono a un momento precedente e fondativo di ogni politica In
altri
termini, la giustizia sta prima della politica; la politica è funzione della giustizia non la giustizia della politica.
L'ingiustizia non può essere il mezzo di nessuna politica, per quanto alto e nobile ne sia l'ideale. E ciò significa
- per
riportarci ancora alla questione del dolore inferto all'innocente come prezzo dell'armonia universale - che
nessuna
politica è conforme a giustizia se il perseguimento del suo fine comporta il prezzo dell'ingiustizia, del male
causato
all'innocente. Questa affermazione contrasta evidentemente con le tante filosofie della storia orientate ai grandi
orizzonti del progresso dell'umanità ma insensibili alle sorti personali dei milioni di milioni di esseri umani e
pone
interrogativi che l'odierna politica degli interventi militari per fini umanitari non può eludere (Intervento
umanitarios).
Contrasta, altrettanto evidentemente, con il corso della storia che ha sempre posposto le sofferenze degli
innocenti ai
progetti di potenza di regni'e repubbliche, potentati economici e religiosi. La sensibilità contemporanea, però,
sta forse
cambiando, a stare per esempio alle discussioni circa l'uso della forza da parte degli stati, sia pure per fini
legittimi,
quando ci vanno di mezzo popolazioni di inermi innocenti.
Giustizia come legalità?
Gli spiriti euclidei vorranno trovare una definizione che faccia riferimento a regole esterne e obiettive, idonee a
"calcolare" le condotte riconducendone alcune nel campo del giusto e altre, nel campo dell'ingiusto; del bene e
del
male, hi effetti, questa è un'idea diffusa, tanto diffusa da apparire quasi incontestabile (Aristotele, Etica
nicomachea V,
1,1129). Ma è anche espressione di rassegnazione.
Sulla natura di queste regole, certo, si sono prodotti dissensi profondi. La giustizia come conformità alla
necessità e alla
misura naturali, immanenti all'essere e al suo ordine, propria del mondo greco anteriore alla scoperta socratica
della
coscienza individuale e della libertà morale, non è la giustizia come fedeltà al patto da cui discende la pia
osservanza
delle leggi date da Dio al popolo eletto; questa, a sua volta, non è la giustizia romana come insieme di leggi
ordinatrici,
garantite dalla spada; né questa è la giustizia dell'epoca moderna che, di fronte al disfacimento della legalità
imperiale
in Europa, ha preteso di ridurre la giustizia al diritto, il diritto alla legge e la legge alla sovrana volontà dello
stato
(impersonata da un principe assoluto o da un'assemblea onnipotente, non fa differenza). In ognuno di questi
casi, la
giustizia è intesa come conformità alla legge; al singolo è richiesto, perché giustizia sia fatta, di rispettare la
legge. La
giustizia si cambia in legalità.
Non ci si può tuttavia accontentare di questa riduzione, in nessuna delle sue forme. Innanzi tutto, identificare la
giustizia
con la legalità trasferisce i nostri interrogativi di giustizia sulla legge. La legalità, alle volte, ha poco o nulla a
che fare
con la giustizia. La natura non è affatto detto che sia giusta e giuste ne siano le leggi. Perfino le leggi divine
possono
essere contestate in nome della giustizia, quando si ritenga che essa «è dappertutto la stessa, chiunque la
consideri, che
sia Dio, che sia angelo o, infine, che sia uomo» (Montesquieu, 1721: lett. LXXXIII). In ogni caso,
nell'identificazione
della giustizia con la legalità c'è comunque una forzatura: giungeremmo a designare l'essere umano giusto
come colui
che soltanto sa obbedire, esente da libertà e responsabilità. La voce della giustizia chiama invece sì
all'osservanza della
legge, ma sempre in nome di ciò che supera la legge e di cui essa è espressione. Sopra la legge posta, c'è
qualcosa di
presupposto ed è là che dobbiamo cercar(n)e la giustizia e la fonte della sua cogenza.
La giustizia dei tribunali
11 campo in cui la confusione della giustizia nella legalità può apparire più naturale è quello
dell''amministrazione della
giustizia che si svolge nei tribunali. La soggezione del giudice alla legge, e solo alla legge come concetto
giuridico, è
uno dei prìncipi fondatori della gran parte delle costituzioni vigenti, tra le quali la nostra, un principio che
esprime
sinteticamente il tentativo di separare la sfera giurìdica dalla sfera della giustìzia, rendendo la prima totalmente
autonoma dalla seconda Questo è il "positivismo giuridico", uno dei principali frutti dell'affermazione della
sovranità
nazionale e del monopolio etico che esso ha tentato di riconoscersi attraverso il potere di espungere ogni
valutatone di
giustizia dall'operato non solo dei giudici ma anche, e prima ancora, dei singoli individui, riservando al potere
sovrano
di distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è, tramite le sue statuizioni legislative.
Questa monopolizzazione del criterio del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto, ha rappresentato
storicamente lo
strumento della pacificazione di società dilaniate dai conflitti di religione. La legge è stata posta dal comando
sovrano
al di sopra di quelle dispute e cosi si è resa valida per la sua sola capacità di valere efficacemente a prevenire e
reprimere il conflitto sociale, con la forza assicuratale dallo stato. I più cinici tra i giuristi parlano del diritto
come di
pura e semplice tecnologia sociale, senz'altra specificazione.
La legge può avere qualunque contenuto, questo è il motto dei positivisti. Ma saremmo noi disposti, allora, per
esempio,
a considerare diritto l'autorizzazione legale a utilizzare gli ospedali psichiatrici per il controllo dei disturbatori
della
pace sociale; a produrre germi e batteri per diffondere malattie per combattere il soprasviluppo demografico, o
droghe
per combattere il malessere sociale o a causare la sterilità di interi gruppi di esseri umani per risolvere i
problemi delle
minoranze? Oppure, saremmo disposti a considerare come diritto l'ordinamento che, paradossalmente,
proclamasse
apertìs verbìs di fondarsi sull'ingiustizia? Se sì, allora saremmo pronti a ridurre la giustizia a pura e semplice
legalità.
Se sì, saremmo disposti a considerare "stati di diritto" quelli in cui i giudici applicano leggi, anche se fatte
apposta per
"legittimare" l'arbitrio dei potenti. Perfino il regime nazionalsocialista, poiché le sue leggi venivano a dare una
qualche
"copertura" ai suoi misfatti, potè fregiarsi della qualifica di stato di diritto, qualifica onorifica riconosciutagli
dai giuristi
del regime, primo Cari Schmitt, là dove le sue vittime avrebbero probabilmente ritenuto più congnio l'epiteto
di "stato
di delitto" (G. Radbruch).
Ma questa riduzione del diritto alla legge, quale che essa sia, è mai riuscita? Nella realtà dell'amministrazione
della
giustizia, anche là dove è stabilito che il giudice è soggetto solo alla legge, la ricondnzione integrale della
giustizia alla
legge è smentita dalla più irrefutabile delle prove, la prova dei fatti. La quotidiana e vivente interpretazione
della legge
l'accorda alle sempre mutevoli esigenze regolative della società. E questa interpretazione evolutiva, che nessun
legislatore, da Giusliniano in poi, è mai riuscito a impedire, che cos'altro è se non la manifestazione di quella
inestirpabile connessione tra ciò che è posto e la ragione per cui è posto, cioè il suo presupposto? Se non fosse
così,
l'interpretazione evolutiva sarebbe puro arbitrio. E a questo rapporto non forse è riconducibile anche il
controllo sulla
"ragionevolezza" delle leggi che le corti costituzionali, senza essere autorizzat