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1. LA RIFORMA DELLA CHIESA
1. I capitularia
I sovrani carolingi ebbero una produzione normativa abbastanza rilevante. Si dà alle loro norme il
nome di capitolari perché apparvero sotto forma di serie più o meno lunghe e non sempre
omogenee di brevi capitoli; usava pubblicarle in diete o altre pubbliche riunioni.
Specialmente dopo la morte di Carlo Magno, i capitularia vennero specificandosi in categorie
diversificate a seconda della funzione:
ai capitularia ecclesiastica - che contenevano provvedimenti relativi al clero, a chiese e
monasteri - si contrapponevano quelli mundana, che riguardavano invece il mondo laico;
capitularia missorum contenevano le istruzioni per i missi dominici, i funzionari spediti in
periferia a rappresentare il sovrano con i compiti più vari, di governo, di giurisdizione e di
controllo;
i capitularia legibus addita o addenda avevano l'ufficio importantissimo di modificare e
aggiornare le leges popolari ancestrali, e di adeguarle alla volontà sovrana.
2. La riforma della Chiesa i capitularia ecclesiastica
Il tema più significativo del mondo carolingio è quello dei rapporti tra il regno e il sacerdozio.
Tra il 680 e il 740 la decadenza della Chiesa aveva toccato il fondo, la gerarchia andava in pezzi,
il clero era ignorante e veniva reclutato senza criterio, corruzione e indisciplina regnavano,
l'aristocrazia laica si mostrava invadente e prepotente.
I carolingi avevano cominciato presto a preoccuparsi. Già Pipino, aveva convocato il concilio di
Soissons. Carlo nel concilio di Francoforte del 794 baderà a difendere il dogma, a precisare il
culto delle immagini, a reagire contro l'eresia adozionista.
La Chiesa, apprezzò quasi sempre le interferenze, ch'erano d'altronde spesso richieste da lei: non
è raro il caso che fossero concili a preparare il testo di disposizioni che poi il re riforniva della
propria autorità, della quale, peraltro, le sinodi locali sentivano di avere bisogno. I capitolari
ecclesiastici apparivano dunque come il miglior mezzo per attuare i desiderata delle sinodi
regionali e come strumento eccellente per riparare a usurpazioni, prevaricazioni e iniquità.
Ma venne il momento in cui la dinastia perse potere e ne acquistò in proporzione l'aristocrazia, e
questa, tutte le volte che vide i propri interessi lesi dalla protezione regia degli interessi delle
chiese, riuscì a impedire l'emanazione dei capitolari ecclesiastici.
3. Resistenze nobiliari e tramonto dei capitularia ecclesiastica
La prima conseguenza dell'infiacchimento della monarchia, di cui si avvertono i segni già
durante il regno di Ludovico il Pio (840), è che cambia la genesi e quindi la natura dei capitolari.
In seguito all'accrescersi del potere politico dei nobili, le diete cessano dal costituire il luogo di
semplice pubblicazione di norme espressione della volontà del re e diventano luogo di
discussione di tali norme, la cui nascita, pertanto, viene sempre più condizionata dal consenso
delle assemblee.
I capitolari, si 'feudalizzano', come si sono ormai 'feudalizzati' i centri del potere. Il fatto che a
essere colpiti gravemente da questo cambiamento siano anzitutto i capitolari ecclesiastici ferisce
a morte la politica di rapporti privilegiati con la Chiesa ch'era stata la caratteristica del regno di
Carlo Magno.
4. Le falsificazioni di metà secolo
In questo periodo ci fu il fenomeno delle falsificazioni ecclesiastiche di metà secolo che potrebbero
avere tratto ispirazione dai timori della Chiesa di Francia, vedeva la monarchia ormai incapace di
difenderla da una nobiltà interessata a mantenere l’organizzazione ecclesiastica nel disordine, per
meglio depredarla e dominarla.
Le falsificazioni, insomma, avrebbero costituito un antidoto al fallimento e alla fine dei capitularia
ecclesiastica.
Il fenomeno falsificatorio dilagò, intorno alla metà del sec. IX, e gettò sul mercato un numero non
trascurabile di testi normativi più o meno pesantemente alterati.
Furono contraffatti capitolari regi e Benedetto ne fece una propria raccolta.
La ventata falsificatoria colpì anche la vecchia collezione canonica Hispana o Isidoriana. Ebbe
poca rilevanza per la pratica del tempo, ma potrebbe avere un importante marchio di produzione:
taluni storici la credono infatti uscita dalla stessa officina da cui uscì la più celebre e la più
fortunata di tutte le falsificazioni di quel periodo: le Decretali Pseudo-Isidoriane.
5. Le Decretali Pseudoisidoriane
La fortuna delle Decretali Pseudo-Isidoriane fu così considerevole e si prolungò tanto nei secoli
che l'opera va considerata uno dei prodotti giuridici più significativi dell'età carolingia.
L'intervento falsificatorio non consistette tanto in arbitrarie invenzioni di testi inesistenti quanto
di un'abile mosaico di pezzi carpiti da tradizioni ecclesiastiche e laiche, per lo più ritoccati e
riforniti di nuove e autorevoli paternità canoniche.
Quale fosse la ratio della raccolta, ossia l'ispirazione e l'obiettivo, è desumibile dalla sua
insistenza sul tema dell'autonomia dei vescovi e della loro pari dignità. La Chiesa francese si
andava organizzando in una piramide gerarchica, in una catena decrescente di veri e propri
vassallaggi in cui, scendendo dal vertice rappresentato dal primate, si traversavano i livelli
subordinati via via sempre più bassi degli arcivescovi, dei vescovi, dei vescovi suffraganei e dei
poveri corepiscopi, semplici ausiliari. Ed è appunto contro la feudalizzazione in atto della Chiesa
transalpina che sembrano rivolti i maggiori sforzi del falsificatore.
Le false decretali, opponendosi agli assetti feudali della Chiesa di Gallia, coinvolgono uno dei
personaggi più significativi degli ultimi tempi carolingi, Incmaro (806 circa-882) arcivescovo di
Reims e metropolita della Gallia, teologo, scrittore di trattatelli moralistico-politici, influentissimo a
corte. Era un accanito difensore della posizione di comando che aveva assunto come metropolita. Il
vescovo Rotado di Soissons (869) che aveva osato invocare la limitazione di quei poteri fu deposto
da Incmaro nell'862; la stessa sorte toccò anche all'omonimo nipote, Incmaro vescovo di Laon, che
il potente zio fece per di più accecare.
Ora, proprio Incmaro di Laon è responsabile di una delle prime utilizzazioni delle Decretali
Pseudo-Isidoriane. Per contrastare l'arroganza dello zio curò la redazione di un ampio estratto
dell'opera, lo sottoscrisse, lo fece sottoscrivere dal suo clero e lo brandì come arma. E mise a questo
modo in luce i reali obiettivi riformistici della falsificazione.
Per quanto poi riguarda specificatamente i testi normativi - e quelli canonici in via specialissima -
due sono i criteri formali di valutazione:
il meno importante, nell'età di mezzo, era quello della genuinità/originalità della scrittura, che
- riguardava essenzialmente l'accertamento della paternità e della datazione;
decisivo era invece il carattere dell'autenticità, e autentici erano, secondo il valore medievale
- del termine, tutti gli scritti caricati di un'auctoritas che ne impedisse il rifiuto.
2. LE LEGGI POPOLARI E LA PERSONALITÀ DEL DIRITTO
7. Carlo Magno e le leggi popolari
Legislazione carolingia. Se la produzione di capitularia venne sicuramente intensificandosi dopo la
consacrazione imperiale di Carlo Magno, nemmeno le leggi popolari, vennero trascurate dal
monarca.
Gli Annali di Lorsch raccontano che nell'802, Carlo radunò un concilio generale diretto alla
redazione ufficiale di tutti i complessi consuetudinari dei popoli germanici.
Eginardo smentisce che l'impresa abbia avuto tanta ampiezza: Carlo sarebbe rimasto colpito
dalle lacune e dalle imperfezioni delle leggi dei suoi Franchi - la Salica anzitutto, e poi la
Ripuaria - e avrebbe progettato di migliorare soltanto questi due complessi, ma non avrebbe
fatto altro che aggiungere pochi capitoli, e per di più difettosi.
Carlo avrebbe curato due revisioni dei complessi normativi del suo popolo salico: la Lex Salica
emendata e la cosiddetta Karolina.
Furono emanati i capitularia addenda alla legge Salica: il conte Stefano li fece leggere
pubblicamente in un'assemblea parigina di nobili e di scabini, questi li sottoscrissero
impegnandosi a osservarli, e tutti posero poi la mano sul documento nel rito solenne della
manufirmatio.
Nessuna richiesta del consenso popolare echeggia invece quando i capitularia legibus addenda
vanno a modificare il patrimonio ancestrale di gente vinta e conquistata. Quando aggiorna gli
editti di Rotari e Liutprando dice al figlio Pipino re d'Italia di farne l'adnuntiatio, ossia di
'intimarli' pubblicamente, e poi di farli osservare. L'adnuntiatio non implicava alcuna
approvazione popolare, non era altro che la manifestazione solenne della volontà sovrana ch'era
necessaria e sufficiente a dare alle norme forza vincolante.
9. Professiones iuris
I capitularia legibus addenda servivano dunque come forza d'attrazione nella sfera legislativa del
sovrano anche delle antiche leggi popolari. Sottolineavano così l'unità, di quell'ordinamento
generale dell'Impero in parte decentrato, ma sempre tenuto sotto il controllo dell'unico potere
centrale. Era, per la verità, un controllo difficile. Se si tiene conto del fatto che l'unificazione di
quasi tutta l'Europa sotto un solo scettro aveva facilitato emigrazioni e intensificato i contatti tra le
molte etnie, si può comprendere come i numerosi ordinamenti giuridici che si intersecavano entro
l'unico ordinamento politico creassero confusione. E ponessero quindi drammaticamente il
problema dell'applicazione del principio della personalità della legge.
Il rimedio che Agobardo propone è che il monarca imponga a tutti la legge dei dominatori franchi.
In realtà Agobardo non faceva che invocare il ripristino della politica legislativa sicuramente seguita
per qualche tempo da Carlo Magno, che aveva agevolato l'espandersi della legge salica dei
conquistatori nei territori conquistati. Comunque, i tentativi di uniformare su qualche punto i vari
ordinamenti alla luce di quello salico restarono episodi, e la prassi dovette cimentarsi con le
difficoltà prospettate dall'uso personale delle varie leggi.
Il primo espediente che i notai adottarono per evitare confusioni fu di indicare in ogni carta la legge
secondo la quale si sarebbe dovuto regolare e giudicare il rapporto documentato. Nacque così la
consuetudine d'inserire negli strumenti notarili le cosiddette professiones iuris: la parte forte del
contratto dichiarava di vivere secondo una determinata legge per via della sua na