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OMANI
si era trattato solo di mettere un Germano sul trono di Costantinopoli, ma di
trasferirlo a Roma, rappresentando in effetti la straordinaria renovatio di un
favoloso mito intessuto di glorie antiche. pag. 20
CAPITOLO V: LA CHIESA, BISANZIO E I CAROLINGI P I
ARTE
Dopo anni di scontri d’arme più che di trattative con Niceforo, successore di
Irene, con la Pace di Aquisgrana dell’812 si giunse a un compromesso: Carlo
avrebbe mantenuto la qualifica imperiale ma non il nome di ‘Romano’ o ‘dei
Romani’, esclusività riconosciuta all’imperatore d’Oriente. Allora Carlo si spogliò
del manto poco familiare di una monarchia romana poco amata, intessuta di
universalità, di maiestas e di altre idealità astratte e lontane che comprendeva
appena. Si sentiva molto più a suo agio adottando la concezione barbarica
dell’impero che si riduceva ad un regno rinforzato: una concezione ‘quantitativa’,
materiale. Incoronò il figlio Ludovico il Pio, non perché fossero insorti sospetti sul
pericolo di interferenze della Sede Apostolica, quanto perché l’intervento del papa
sarebbe apparso superfluo o addirittura controproducente per nominare un
imperatore germanico. D’altra parte, poco prima di morire, fece sostituire
l’iscrizione in Renovatio Regni Francorum e l’epitaffio sulla sua tomba lo celebrerà
come «l’imperatore che nobilmente ampliato il regno dei Franchi».
La Chiesa continuò a predicare per secoli la translatio Imperii dapprima in
Francos poi in Germanos, tanto da riuscire a farla accettare a tutto l’Occidente.
Sapeva, naturalmente, che quest’Impero oltre che romano era anche sacro: nel
senso che la sacertà era insita in ogni potere che veniva da Dio ed era impressa
come un marchio dalla cerimonia religiosa dell’unctio, con il sacro crisma. Quel che
distingueva l’Impero dai regni e lo metteva in particolare rapporto con la Chiesa era
l’universalità: nell’era carolingia fu reinterpretato il dualismo gelasiano, che
fortemente aveva insistito sulla distinzione dei poteri, ponendo invece l’accento alla
loro necessaria integrazione, nell’esigenza fortemente sentita di ridurre ad unum
corpus mysticum il multiforme universo umano. In questo corpo mistico, nessun
laicismo era configurabile, non poteva ipotizzarsi alcuna scissione tra lo status di
cittadino e quello di fedele cristiano. L’imperatore viene definito ‘della Chiesa
d’Europa’, in quanto il suo impero veniva necessariamente a coincidere con la
onnicomprensiva comunità ecclesiale. pag. 21
Capitolo VI
L’ C
IMPERO AROLINGIO
I C C :
1. APITULARIA E RIFORMA DELLA HIESA
I sovrani carolingi ebbero una produzione normativa che, proporzionata alle scarse
esigenze di una vita semplice, può dirsi abbastanza rilevante: si dà alle loro norme
il nome di capitolari, perché apparvero sotto la forma di brevi capitoli e non è
escluso l’imitazione dei concili ecclesiastici. A ogni modo, non segnano una
trasformazione sostanziale della produzione normativa regia: come i loro
predecessori, essi si considerano emanati dalla volontà del re, il verbo constituere
si usava talvolta per la loro promulgazione.
Dopo la morte di Carlo Magno (†814), i capitularia vennero specificandosi in
categorie diversificate a seconda della funzione:
M , che riguardavano il mondo laico e secolare e si dividevano in:
UNDANA
→ missorum, destinati ai missi dominici (= funzionari spediti in periferia a
);
rappresentare il sovrano con compiti di governo, giurisdizione e di controllo
→ legibus addenda (« ), con la funzione di modificare
da aggiungere alle leggi»
e aggiornare le leges popolari ed ancestrali, di adeguarle alla volontà
sovrana.
E , che contenevano provvedimenti relativi al clero, chiese e
CCLESIASTICA
monasteri.
La Chiesa del VIII secolo aveva bisogno di interventi a causa della forte
disgregazione e disorganizzazione: vi erano diocesi scoperte mentre altre avevano
più di un vescovo; prelati che si allontanavano disinvoltamente dalle proprie sedi o
si facevano trasferire a sedi più importanti, più piacevoli e soprattutto più ricche;
preti disobbedienti, chiese in rovina, uso di libri inaffidabili per l’espletamento del
magistero e l’ufficio. Il clero era ignorante e veniva reclutato senza criterio,
corruzione e indisciplina regnavano, l’aristocrazia laica si mostrava invadente e
prepotente.
I carolingi avevano cominciato presto a preoccuparsi: Pipino aveva tenuto
d’occhio la liturgia e si era spinto a curare il cosiddetto sacramentario (messale)
gelasiano. Carlo nel famoso Concilio di Francoforte del 794 baderà a difendere il
dogma, a ratificare il culto delle immagini, a sostegno dell’ortodossia pontificia. La
Chiesa apprezzò quasi sempre le interferenze: i capitolari ecclesiastici apparivano
dunque il miglior mezzo per attuare i desiderata delle sinodi regionali come
strumento eccellente per riparare a usurpazioni, prevaricazioni e iniquità.
Ma venne il momento in cui la dinastia perse potere e ne acquistò in proporzione
l’aristocrazia, la quale tutte le volte che vide i propri interessi lesi dalla protezione
regia degli interessi delle chiese, riuscì a impedire l’emanazione dei capitolari
ecclesiastici. pag. 22
CAPITOLO VI: L’IMPERO CAROLINGIO P I
ARTE
La prima conseguenza dell’infiaccamento della monarchia, di cui si avvertono i
primi segni con Ludovico il Pio che spartirà l’impero tra i figli con una ordinatio,
è che cambia la genesi e quindi la natura dei capitolari: in séguito all’accrescersi
del potere politico dei nobili, le diete cessano di costituire il luogo di semplice
pubblicazione di norme espressione della volontà del re e diventano luogo di
discussione di tali norme, la cui nascita viene, pertanto, sempre più condizionata
dalle assemblee.
La seconda è il grande fenomeno delle falsificazioni, per supplire al crisma della
monarchia ormai incapace di difenderla da una nobiltà interessata a mantenere
l’organizzazione ecclesiastica nel disordine, per meglio depredarla e dominarla: le
falsificazioni, insomma, avrebbero costituito un antidoto al fallimento e alla fine dei
capitularia ecclesiastica. Il fenomeno falsificatorio dilagò misteriosamente intorno
alla metà del IX secolo, in oscuri ambienti ecclesiastici francesi, e gettò sul mercato
un numero non trascurabile di testi normativi più o meno pesantemente alterati.
La più celebre e la più fortunata di tutte le falsificazioni di quel periodo furono
le Decretali Pseudo-Isidoriane: la loro fortuna fu così considerevole e si prolungò
tanto nei secoli che l’opera va considerata uno dei prodotti giuridici più significativi
dell’età carolingia. È straordinario il numero di manoscritti che ci sono pervenuti,
più di un centinaio, senza contare i frammenti disseminati tra IX e XV secolo. Il
nome Isidoro che compare nella prefazione, a quei tempi, evocava súbito Isidoro
di Siviglia, vescovo e il massimo dispensatore della dottrina da oltre due secoli.
Quale fosse la ratio della raccolta, ossia l’ispirazione e l’obiettivo, è desumibile
dalla sua insistenza sul tema dell’autonomia dei vescovi e della loro pari dignità: la
Chiesa francese si andava organizzando in una piramide gerarchica, in una catena
decrescente di veri e propri vassallaggi. Ne è un esempio il caso dell’arcivescovo di
Reims e del nipote vescovo di Laon. È possibile che la collezione sia giunta
abbastanza presto a Roma, si è discusso se l’abbia o non utilizzata già l’energico
papa Niccolò I che avrebbe potuto gradire le esaltazioni della plenitudo potestatis
contenute nell’opera. Ma se non si può dire se sia mai stato seriamente perseguito
nei tempi successivi, il principio che ne era ovvia conseguenza, ossia
l’accentuazione dei poteri del papa come unica autorità al vertice, ha avuto grande
séguito nella Chiesa del nuovo millennio. Vi è un punto in cui lo Pseudo-Isidoro
offre un contributo straordinario anche alle mire gregoriane di affrancare la Chiesa
dall’Impero: salva infatti e consegna ai posteri la falsa Donazione di Costantino.
Va rilevato che l’intervento falsificatorio non consistette tanto in arbitrarie
invenzioni di testi inesistenti quanto un abile mosaico di pezzi carpiti da tradizioni
ecclesiastiche e laiche, ritoccati e riforniti di nuove paternità canoniche.
L’autorevolezza si misura in termini di antichità e la si ricercava alle origini della
Chiesa stessa. Il criterio di valutazione medievale dell’autenticità di un documento
era se il contenuto fosse ritenuto come veritas e quindi ufficialmente recepita
dall’auctoritas, i.e. un apocrifo diventava autentico quando la Chiesa lo accettava e
lo faceva proprio. pag. 23
CAPITOLO VI: L’IMPERO CAROLINGIO P I
ARTE
L :
2. E LEGGI POPOLARI E LA PERSONALITÀ DEL DIRITTO
Nemmeno le leggi popolari, in gran parte fondate sulle vecchie consuetudini dei
vari gruppi etnici germanici, vennero trascurate: è netta l’impressione che
l’ordinamento carolingio abbia riattivato il vecchio circuito bipolare, la dinamica tra
i due poli consueti del ius vetus (le vecchie tradizioni popolari) e lo ius novum (i
capitolari).
I servivano come forza d’attrazione nella sfera
CAPITULARIA LEGIBUS ADDENDA
legislativa del sovrano anche delle antiche leggi popolari: sottolineavano così l’unità
di quell’ordinamento generale dell’Impero in parte decentrato, ma sempre tenuto
sotto il controllo del potere centrale.
Un controllo difficile, dato il fatto che l’unificazione di quasi tutta l’Europa sotto
un unico scettro aveva facilitato emigrazioni e intensificato i contatti tra le molte
etnie: si può comprendere come i numerosi ordinamenti giuridici che si
intersecavano entro l’unico ordinamento politico creassero confusione e ponessero
dunque il problema dell’applicazione della .
PERSONALITÀ DELLA LEGGE
Un espediente che i notai adottarono per evitare confusioni fu di indicare la legge
secondo la quale si sarebbe dovuto regolare e giudicare il rapporto documentato.
Nacque così la consuetudine di inserire negli strumenti notarili le c.d. professiones
iuris: la parte forte del contratto (venditore, donante, marito, etc.) dichiarava di
vivere secondo una determinata legge per via della loro natio o ‘nascita’ che li aveva
radicati all’interno di un determinato gruppo etnico.
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