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BERNARDO TANUCCI, L'ARBITRIO ILLIMITATO DEI GIUDICI (capitolo 5)

Oggi come ieri, la giustizia era utilizzata anche come strumento di contesa politica o addirittura di vendetta. Ancora nel 1700 la prassi del processo politico era molto praticata. Anzi specialmente a Napoli dominata dalla personalità di Bernardo Tanucci, un fiume di processi inondò i grandi tribunali della capitale chiamati a contribuire alla modernizzazione dello Stato e a riportare entro limiti compatibili il ruolo della Chiesa. Vicino a limiti compatibili (ridimensionare). La forma tanucciana di una giustizia indivisibile dalla sovranità era funzionale al perseguimento di tali obiettivi. Il ministro toscano cercò di regalizzare lo ius commune e la giurisprudenza forense. Si trattava di un progetto ambizioso da perseguire con gradualità mediante riforme apparentemente non traumatiche. Si iniziò con le costituzioni del 1738, cui seguì (dopo il mediocre concordato del 1741)

la redazione di un codice affidato ad un conservatore come Civillo. Tanucci si fece promotore di una raccolta di regali dispacci che era una consolidazione normativa. In tutti i processi anti gesuiti e nospicca quello alla certosa di S. Stefano del Bosco nella calabria ultra enfatizzata dai contemporanei come la MAGNA CAUSA per antonomasia. Nel 1099 Ruggero d'Altavilla in lotta contro gli arabi di sicilia e i bizantini di calabria aveva donato a Bruno di Colonia, nobile professore di teologia, un vasto altopiano dell'aspromonte ionico perché vi edificasse quella che sarebbe stata la certosa di S. Stefano del Bosco. Con questa pia donazione Ruggero tentava di latinizzare la calabria. Bruno di Colonio era apprezzato dal papa Urbano II e dal conte Normanno e per questo gli fu offerto l'arcivescovato di regio che il monaco rifiutò. Ciò che gli interessava era diffondere il suo ordine, composto da cavalieri-asceti che combattevano con la preghiera, senza.

sporcarsi le mani di lavori servili. Ailoro bisogni provvedevano monaci di rango inferiore. Agli aristocratici certosiniRuggero donò anche con la terra 112 condannati a morte come servos perpetuo etvillanos. Costoro erano schiavi legati con le proprie famiglie al monastero, senzadiritti e senza speranze. Costoro abitavano in un area che da boschiva, popolata diorsi e cinghiale si era trasformata in un sistema territoriale composto da 5 feudi e 6casati. Già nella prima metà del 1200 i vassalli della certosa ricorsero a Federico IIche delegò per imperialem clementiam l'arcivescovo di regio ed il giustiziere dicalabria, i quali dettero ragione ai certosini suscitando un altro ricorso all'imperatore.Poi nel 1484 toccò a Fernando I d'Aragona di esaminare la questione conclusa con ilriconoscimento dei privilegi rivendicati dai certosini. I certosini per nullatranquillizzati nel 1534 chiesero a Carlo V la definitiva conferma dei loro

diritti.Allarmati i vassalli della Certosa ricorsero alla Sommaria ottenendo da Francesco Reverter un decreto con il quale si affermava che fu una vittoria effimera e irrilevante sul piano concreto, come attesta la rivolta antifeudale di Serra (uno dei 6 casali) nel 1647. Da allora fu soprattutto questa ultima Universitas ad assumersi in prima persona la lotta agli abusi della Certosa. Nel 1703 gli abitanti di Serra denunciarono alla Sommaria di essere stati trattati da schiavi e non da vassalli. Probabilmente le scuse e le richieste dei cittadini del borgo calabrese non furono neppure prese in considerazione. La Sommaria decretò un solenne non molestetur che fece adirare i certosini i quali affidarono a sicari il compito di eliminare gli oppositori. Non riuscendoci del tutto, dopo poco un colposo dossier sugli abusi dei religiosi giunse davanti al consiglio collaterale e qui si fermò. Nel terzo decennio del 1700 giurisdizionalismo e anticurialismo non erano più idee vaghe.

I giudici allora decisero che la legittimità delle prerogative rivendicate dai certosini doveva essere affrontata senza ulteriori rinvii. Il fiscale Matteo Ferrante, forse con un tono inconsueto in quell'aula, demolì le pretese della Certosa sostenendo che gli abusi potevano essere ratificati né dal possesso né dalla prescrizione centenaria. Oltretutto a suo avviso la questione dei condannati a morte donati alla certosa dal conte Ruggero non valeva per il casale di Serra fondato dopo 1099 e quindi dopo tale donazione. Al momento di formulare la sentenza finale il collegio giudicante si spaccò e prevalse la parte più tradizionalista e conservatrice che deliberò che la certosa potesse continuare a esigere i servizi personali. Tuttavia la Sommaria aggiunse una via di uscita. Se i cittadini di Serra lo desideravano potevano chiedere alla certosa di commutare servizi personali in somme di denaro. Più che una possibile via di uscita quella.del 1730 era un invito alla parti di raggiungere un compromesso. In pratica si trasferiva la vicenda dal giudiziario a quello politico dove la soluzione finale spettava al consiglio collaterale. Lo spirito con il quale il collaterale affrontasse la questione è rivelato dal voto di Francesco Ventura, il cui parere era l'annuncio di una sentenza sfavorevole. I vassalli compresero l'antifona e nel 1731 malgrado il dissenso di pochi cittadini deliberarono di accettare la commutazione. Alla transizione aderì anche la certosa che per evitare strascichi si offrì di versare alle casse dello stato 4mila ducati come sanatoria per eventuali sanzioni del passato. Entrambe le questioni furono accettate con la speranza che sulla questione scendesse un perpetuo silenzio. Tuttavia non fu così, infatti nella fine del 1741 i cittadini di Serra volevano che fosse dichiarata nulla la transizione del 1731 per un difetto di giurisdizione derivante dalla partecipazione allasentenza di Francesco Santoro che in passato aveva partecipato alla sentenza come avvocato fiscale. Alla fine integrata con i magistrati graditi al governo, la Sommaria dovette riassumere il processo che fu molto sbrigativo. Solo pochi giudici aderirono alle tesi dell'avvocato Ferrante sulla nullità della transizione. Tutti gli altri si dichiararono contrari. Per il Tanucci fu la prima sconfitta forte e inattesa che fece irritare il Tanucci soprattutto nei confronti di quei magistrati designati dal governo per orientare il processo e che si erano lasciati trascinare dai conservatori. Alla sommaria fu ordinato di rimettere al sovrano una relazione sull'accaduto malgrado il tono perentorio, il dispaccio non impressionò i magistrati della Sommaria che impegnarono tre mesi per inviare la relazione con la giustificazione dei voti. Questi ritardi irritarono ancor di più il Governo che intimò la Sommaria di risolvere entro un mese tutte le questioni pendenti. Il

dispaccio cioè significava attenzione ai giudici, noi vi osserviamo. La prima minaccia funzionò, nel senso che furono in molti a sottrarsi dal pericolo di un processo politico accampando scuse varie. A tutti Tanucci replicò che la causa di S. Stefano era grave e che doveva essere decisa entro il 2 dicembre con l'intervento di alcuni aggiunti da lui nominati. Con loro, sotto lo sguardo della monarchia sarebbe stato possibile, secondo il Tanucci, debellare la peste dei togati. Nel 1741 la questione si impantanò. La situazione si sbloccò solo con la sentenza del sacro regio consiglio che aveva sancito la decadenza dei servizi personali che erano commutati in un canone annuo di 200 ducati. In pratica era stato esteso erga omnes il decreto, che era stato emesso dalla sommaria nel 1731, dei vassalli della certosa calabrese. Seguirono 5 anni di silenzio interrotti dal nuovo intervento della sommaria che disse che soltanto dei facinorosi potevano turbare la quiete.

E la soddisfazione dei cittadini di Serra, felici di conseguire il canone annuo alla certosa. Dopo anni di pressioni e tensioni il bottino era magro e non poteva soddisfare il Tanucci. Tanucci allora tentò una manovra al limite rivolgendosi direttamente ai cittadini di Serra per chiedere loro se davvero godessero e fossero soddisfatti di pagare questa somma alla certosa. Il 7 aprile del 1747 si presentarono 146 cittadini e tutti mandarono a dire a Carlo di Borbone di non avere richieste e rivendicazioni da fare, anzi si dissero felici di corrispondere il canone e per evidenziare la loro serietà aggiunsero la rinuncia a proseguire qualunque giudizio. Se qualcuno aspirava a farlo doveva assumersi i costi e i rischi.

Non rimaneva che una ipotesi che quella dei denuncianti privati. Si trattava di una scelta obbligata che consentì la ripresa dei processi sulle manefatte dei baroni ecclesiastici. Particolarmente copiosi ed articolati furono i dossier contro i certosini di Calabria.

I denuncianti della certosa di S. Stefano erano notabili del luogo, in buona cultura, interessati più alla discussione della taglia che a questioni astratte o ideologiche (infatti i denuncianti privati) di brogli e di evasori fiscali erano premiati con la sesta parte delle somme recuperate dal fisco. Nel processo contro i certosini costoro avevano un ulteriore incentivo ossia i regolari stipendi che ricevevano dal governo napoletano. Grazie a tale trovata nel 1748 riprese la MAGNA CAUSA. Il governo per evitare altre deblaches si mosse. La prima mossa fu quella di ordinare all'udienza di Catanzaro un'inchiesta sulle malefatte dei certosini che però si risolsero in una bolla di sapone, anzi in qualcosa di peggio perché si sostenne che i denuncianti erano solo calunniatori. Tanucci addirittura fu indicato dalla sommari come l'istigatore dei denuncianti e fu accusato ancora di essersi trasformato da responsabile della giustizia in promotore della legalità.

Un ammonimento è necessario alla vigilia della fase processuale in cui i giudici dovevano giudicare la documentazione dei denuncianti, se fossero cartacce o diplomi indubitabili. Nel 1757 giunse alla sommaria l'ordine di giudicare entro due mesi il processo di S.Stefano del Bosco. Anche questa volta impiegarono sei mesi per rimettere in moto la macchina della magna causa. La prima sentenza del 1554 fu un deputato del tribunale che dopo mesi di lavoro sosteneva che l'unica via di uscita era costituita da una verifica della originalità degli antichi diplomi. Bisognava quindi verificare il contenuto e l'autenticità dei privilegi rivendicati dalla certosa. Per valutare questi documenti fu nominato un collegio che fu toccato dallo scandalo. In pratica era stata scoperta una organizzazione di falsari che si era specializzata nel confezionare antichi documenti da esibire nei processi. Tra i corpi di reato c'era anche la bozza di una littera adohae che ameno in.teoria avrebbe potuto suffragare le rivendicazioni dell'acerosa di S. Stefano. La situazione
Dettagli
Publisher
A.A. 2005-2006
42 pagine
SSD Scienze giuridiche IUS/19 Storia del diritto medievale e moderno

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Novadelia di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia del diritto medievale e moderno e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Salerno o del prof Rovito Pierluigi.