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Il diritto di non morire in ciò che muore
Il diritto di non passare in ciò che trapassa, il diritto di oltrepassare, il diritto di affermare la potenza oltrepassante cioè la presenza.
In questa caso quindi la crisi della presenza è un blocco della presenza oltrepassante, è un crollo esistenziale, una miseria psicologica, un caso di terrore dell'azione e di inerzia, di evasione dall'azione. L'immobilità diviene terrore, una situazione in cui la presenza si immobilizza e paralizza negando e evadendo dalla storia.
Per De Martino questo arresto della presenza oltrepassante equivale alla morte.
Ma non la morte fisica che è naturale e fa parte dell'uomo quanto la vita, è una seconda morte, quella decisiva. Questa seconda morte è di tipo esistenziale, il fatto di passare in ciò che passa, di morire in ciò che muore, è la morte della presenza, l'arresto della potenza oltrepassante. È la morte.
di questa energia che ci dovrebbe permettere di oltrepassare le situazioni critiche. Al di là della morte naturale, quando questa morte trascina anche nella seconda morte è a fine dell'umanità e della cultura, il rischio peggiore. De Martino arriverà a dire che la potenza oltrepassante consente perfino di oltrepassare la morte, è un oltrepassamento della morte esistenziale ovviamente non proclama la capacità di far tornare in vita fisicamente le persone. Questo concetto trabocca di umanità, prevede grande fede negli uomini. Abbiamo visto che queste vicende di lutto illustrano delle tecniche per trascendere la morte, l'arresto della potenza morale, trascendere situazioni di inerzia e terrore paralizzante. Per ridischiudere il diritto dei vivi, le capacità del lavoro e della cultura umana. De Martino fa un esempio pratico: Il lamento funebre consente ad una vedova il diritto di risposarsi, di non restare per sempre ancorata al.dolore per la morte del marito, anche il diritto di prendersi e spartirsi la proprietà del morto, ecco il lamento funebre afferma il diritto dei vivi a continuare la storia. Ma come avviene esattamente l'oltrepassamento? Come procede questa potenza oltrepassante? Avviene riplasmando il dolore, riformulando lo strazio in forme operative, in azioni, opere e modelli stabiliti dalla tradizione. Si tratta di riplasmare quel dolore in forme che abbiano un valore per i vivi, un significato per i sopravvissuti. Si tratta di riformulare il dolore in forme di lavoro umano che abbia un significato secondo la potenza ordinatrice del lavoro umano cioè della cultura. Si rappresenta la morte in forme operative di lavoro umano (la chioma sciolta della lamentatrice, la gesticolazione fissata, i ritornelli, i testi fissi). Questo forme operative che danno la misura del fare umano culturalmente efficace, che danno il senso della regola umana, una regola culturale. Tutto questo perché
“Nulla passi senza e contro l’uomo”. La morte scuote tutte le culture, è un evento naturale, ma nella ritualizzazione gli uomini tentano di realizzare una cultura esistenziale per cui nulla passa senza e contro l’uomo.
Una crisi non può sconvolgere l’uomo, la società, la cultura in modo insensato, questa crisi deve avere un valore, deve essere spiegabile in forme operative sociali sensate. Non ci sono eventi naturali che possono scuotere una cultura secondo i suoi valori e significati; nulla deve rimanere irrisolto per l’uomo, nulla deve essere passivamente patito con inerzia. Una morte non può andare contro l’uomo, nulla deve dipendere da potenze umanamente incontrollabili, niente può essere disumano.
Non si patisce la morte naturale col rischio di morire psicologicamente, si diventa centro operativo di scelte e decisioni, per cui si muore ma in forme prescritte per l’uomo.
Il morto biologico è
tradizione. Questo processo di ritualizzazione della morte permette all'uomo di esprimere la propria capacità di operare e di creare cultura e valori anche di fronte a qualcosa di così scandaloso come la morte. La morte diventa quindi un centro operativo di scelta, un momento in cui l'uomo deve fare i conti con la propria interiorità e lasciare andare i morti. Questa morte culturale, definita da De Martino come seconda morte, è ciò che permette di dare un significato alla morte naturale. La seconda morte avviene attraverso forme rituali e culturalmente accreditate, in cui il morto viene fatto morire una seconda volta, ma secondo le regole e le tradizioni stabilite. Questo processo di ritualizzazione permette di dare un significato alla morte e di elaborarla culturalmente.tradizione. La prima morta è quella naturale ed è un evento comune che accade nella storia, poi c'è una seconda morte che si procura l'uomo in forme previste dalla tradizione. In questo caso il trapasso è misurato, tutto passa e trapassa secondo codici culturali significativi e questa seconda morte ridischiude il diritto dei vivi. La seconda morte si traduce col tema della cara memoria del morto; in quest'immagine troviamo la rappresentazione secondo cultura della morte. Questa potenza mette in atto le forze operative umane che sono delle potenze tecniche, un lavoro umano che consente all'uomo di esserci nel mondo, nonostante le catastrofi che lo possano scuotere e far smarrire, indebolirlo come centro operativo di scelta, come ciò che può e ha la potenza di fare ed essere soggetto protagonista. Il lavoro umano è messo in atto dalla religione che non trascende l'uomo, ma è ciò che consente all'uomo di.essere; la religione è il lavoro umano. Questo concetto continuamente ripreso non solo nel capitolo dedicato alle messe del dolore. Il capitolo sesto è quello riguardante le messe del dolore, illustra perfettamente il concetto di potenza oltrepassante di cui abbiamo parlato fino adesso. È un capitolo che De Martino aveva già pubblicato sulla rivista di Pettazzoni "Studi e materiali di storia delle religioni". Le messe del dolore stanno ad indicare un parallelo con la mietitura dei campi. Dove prende tale espressione? È presa da una tragedia di Eschilo "Agamennone", dove il personaggio di Clitemnestra pronuncia la frase: "Fin troppa ne abbiamo mietuta di messe del dolore". Abbiamo qui un confronto tra la mietitura come operazione agricola e il dolore della morte. Questa espressione torna anche in un'altra tragedia di Eschilo "I persiani", in cui il personaggio di Dario fa un confronto tra la colpa dei.persiani e l'immagine di una spiga di grano detta: "delle colpe e della punizione". C'è un confronto tra il dolore della morte della catastrofe militare dei persiani e l'immagine metaforica, simbolica e poetica della spiga. La "Ubris" persiana e la spiga. E torna l'immagine delle messe del dolore dove parla di messe di infiniti pianti. Interessante è il confronto continuo che De Martino ci tiene a sottolineare tra l'esperienza della morte e la vicenda stagionale del raccolto. La documentazione del mondo antico ci mostra un nesso tra il pianto rituale e la passione e il martirio vegetale, la morte vegetale della pianta che viene coltivata e raccolta, recisa. Per esempio nell'antico Egitto troviamo delle offerte di carattere agricolo (cereali) al defunto; vediamo come nei simulacri che vengono offerti al defunto ci sono delle forme che evocano il covone, il fascio di spighe. L'immagine simbolica del raccolto èL'immagine che viene usata nelle rappresentazioni funerarie; dal punto di vista iconografico i temi del lamento funebre, del cordoglio hanno a che fare con il raccolto, con la passione vegetale.
Nel I secolo d.C. in Egitto alcune fonti ci illustrano come al momento di mietere il grano, le piante delle prime spighe tagliate vengono sottoposte a delle forme rituali di lamento funebre, ad esempio si battono il petto come fanno le lamentatrici nel canto funebre.
Si usano forme rituali di lamento simili a quelle del cordoglio per un defunto nella mietitura.
In un ultimo documento utile da portare in esempio, troviamo in un anello del periodo tardonoico la figura di un uomo che scuote un albero di frutti, accanto a questa figura c'è una donna che è una lamentarice funebre. Quindi l'immagine dell'uomo che raccoglie e avvia l'operazione agricola del raccolto è posta affianco a quella di una donna che avvia invece un lamento. Lo stesso "uomo
agricolo” è raffigurato in forme caratteristiche della lamentazione dal momento in cui è visto che piega le ginocchia e volta la testa (come abbiamo visto fanno parte dei gesti rituali della lamentazione). De Martino collega spesso la vicenda del raccolto e il lamento funebre. In varie epoche e situazioni c’è un collegamento fra le due realtà; quindi il concetto di messa del dolore mette insieme il dolore della morte ma colto anche dal punto di vista stagionale, della pianta. Un esempio molto interessante è quello che De Martino trae da una documentazione folkloristica della Palestina. Vediamo come ad opera dei mietitori durante un raccolto la cosiddetta tecnica rituale dell’ultimo covone raccolto durante la mietitura. Questo ultimo fascio, questo covone rituale viene rappresentato in forme prescritte dalla tradizione e denominato “Il vecchio”. Sottoposto ad una serie di pratiche rituali che sono quasi le stesse a cui vienesottoposto il corpodel defunto, per cui il covone viene praticamente inumato, si rende al covone un lamentofunebre. I mietitori cantano dei testi, dei moduli verbali che sono molto simili a quelli cheabbiamo già incontrato.Ad esempio troviamo “A Maromeo, me sventurata”, schemi verbali che troviamo nel lamentofunebre. Quindi si pensa la morte del raccolto con la stessa disciplina culturale a disposizioneper fronteggiare l’evento luttuoso.Avviene nel raccolto ponendo tutta l’attenzione su quell’ultimo covone, in cui si concentra lapassione vegetale dell’intero raccolto.Questa tecnica consente di concentrare e condensare simbolicamente la responsabilità umanadella morte del raccolto, procurata infatti proprio dagli uomini, concentrata in un unico punto,l’ultimo. Per questo si parla di concentrazione e condensazione.L’uomo in questa raffigurazione della morte del raccolto non è responsabile della mortedell’intero
raccolto ma di un unico covone su cui si interviene ritualmente. De Martino afferma che avviene uno spostamento. Per cui la responsabilità della morte dell’intero raccolto