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Riassunto dell'opera

A cura di Daniele Lo Giudice

Fedone, uno dei più giovani amici di Socrate, è di passaggio a Fliunte pochi mesi dopo la morte del maestro. Trovandosi tra persone che avevano conosciuto Socrate ed altri personaggi interessati a questioni filosofiche, Fedone si incarica innanzitutto di offrire un racconto del processo, della carcerazione e della morte di Socrate.

Fedone rammenta che, andato in carcere di buon ora, aveva trovato il maestro libero dai ceppi ed in compagnia della moglie, Xantippe, insieme al più giovane tra i suoi figli, attorniato da diversi amici. Dopo la partenza della moglie e del figlioletto, Socrate, che era seduto sul letto, si stropicciò una gamba indolenzita, traendone piacere. E, subito, trasse spunto da questa sensazione, per avviare un ragionamento: "che strana cosa, amici, par che sia quello che la gente chiama piacere, e che meraviglioso rapporto per natura con quello che sembra il suo contrario, il dolore!"

pensare che entrambi insieme non vogliono mai trovarsi nell'uomo; ma quando qualcuno insegua uno, e lo prenda, costui si trova in certo modo costretto a prendere sempre anche l'altro, quasi che sebbene siano due, pure si trovino legati allo stesso capo."

Se Esopo, il grande scrittore di favole, ne avesse avuto sentore, certamente avrebbe composto una nuova. Al che Cebete, uno dei presenti, si rammentò che il poeta Eueno gli aveva chiesto con quale intento Socrate avesse cominciato a scrivere versi e comporre musica sulle favole d'Esopo e in onore al dio Apollo. "E tu digli la verità, Cebete - rispose Socrate - che li ho fatti non certo per competere con lui e con i suoi poemi - sapendo bene che non era facile - ma solo per rendermi conto del significato di taluni miei sogni, e mettere in pace la mia coscienza, se mai fosse questa appunto la musica a cui spesso questi sogni m'ordinavano di attendere. Ed ecco quali erano. Spesso nella mia vita

passatam'era apparso il medesimo sogno, ora in una forma, ora in un'altra; ma perripetermi sempre la stessa cosa: « Socrate - mi diceva - fa e coltiva musica.» Ed ioallora quello che facevo, questo precisamente credevo: ch'esso mi esortasse em'incitasse a fare, come si suole in quelli che gareggiano nella corsa; e così il sognom'incitasse a fare ciò che già facevo: a coltivare musica, convinto, com'ero, che lafilosofia fosse la più alta musica ed io non coltivassi che musica. Ora, però, dopo ilgiudizio, poiché la festa del dio ritardava la mia morte, mi parve che, se dunque ilsogno insisteva ancora sull'impormi di fare questa specie popolare di musica, io nondovessi disobbedirgli, ma farla, e fosse più sicuro per me di non andarmene daquesto mondo prima d'aver messo a posto la mia coscienza col comporre dei versi,in obbedienza al sogno." A questo punto Socrate se ne uscì

con qualcosa di molto strano e sconcertante, ovvero di mandare a dire a Eueno che non mancasse di seguirlo al più presto nell'altro mondo. Lo stranezza colpì non poco Simmia, un altro dei presenti, il quale si disse convinto che Eueno non aveva alcun desiderio di morire. Al che Socrate chiese se Eueno fosse o meno da considerarsi filosofo. Quando Simmia rispose affermativamente, egli dichiarò che non solo Eueno, ma tutti i filosofi non avrebbero accolto male il suo consiglio, giacché il vero filosofo desidera di morire, quantunque nessuno abbia il diritto di suicidarsi. Al che Cebete osservò: - ma se la morte è un bene, perché mai uno non dovrebbe suicidarsi? Socrate ammise che a prima vista il divieto di procurarsi la morte pare assurdo; eppure non è irragionevole. "Quella massima che a questo riguardo s'ode in certi misteri: che noi uomini siamo qui come in una prigione, e non ci sia perciò lecito liberarcene da

noi stessi e tanto meno scapparcene, è qualcosa di troppo alto ed insieme non chiaro. Ma, a buon conto, ciò che a me almeno, mi pare ben detto, Cebete, è questo: che sono dei quelli che hanno cura di noi, e noi, gli uomini, siamo una delle cose di proprietà degli dei. O a te non pare?" "A me sì" - rispose Cebete. "Orbene - riprese Socrate - anche tu, se qualcuno dei tuoi servi s'uccidesse, senza che tu gli avessi dato segno di volere che morisse, non ti adireresti con lui e non lo puniresti, se ne avessi il modo?" Cebete ne convenne. Ma questo consenso evidenziava che c'era una contraddizione nel comportamento di Socrate, ed anche nel ragionamento. Se siamo proprietà degli dei, perché mai un filosofo dovrebbe desiderare di morire, sottraendosi ai migliori padroni che si possano trovare? Simmia aggiunse che le parole di Cebete suonavano come un rimprovero allo stesso Socrate. A questo punto il maestro dovette rispondere.

Affermò di credere che non tutto finisse con la vita, che anche per i morti ci fosse qualcosa, e di meglio per i buoni che per i cattivi. Aveva la certezza di trovarsi nell'al di là in presenza di divinità non meno buone e nutriva la speranza di incontrare uomini eccellenti. Simmia lo invitò a spiegare le ragioni della sua fiducia. Ma prima, Socrate disse di voler ascoltare quello che aveva da dire Critone. Ed è qualcosa che rende ancora più drammatico il dialogo. "E che altro, Socrate - fece Critone - se non che quest'uomo incaricato di darti il farmaco (cioè la cicuta ndr) insiste da un pezzo perché io ti raccomandi di parlare il meno possibile? Costui dice che chi parla troppo, si riscalda, e questo non va bene; chi fa così sarà poi costretto a prendere una doppia o tripla dose." "E tu lascialo dire - rispose Socrate - ... ma a voi, miei giudici, desidero subito rendere conto delle ragioni per le.

quali ritengo credibile che un uomo, il quale abbia realmente speso la vita intera nello studio della filosofia, debba sentirsi di buon animo dinnanzi alla morte, ed avere fiducia di trovare lì, dopo che sia finito, i maggiori beni. E che sia così, come lo dico, Simmia e Cebete, proverò ad esporlo."

"Tutti quelli che sul serio attendono alla filosofia - proseguì Socrate - corrono il rischio che agli altri sfugga com'essi non tendano ad altro se non a morire ed ad essere morti. Se dunque è così, sarebbe davvero assurdo che uno in tutta la vita non pensasse se non a questo, e poi, proprio quando giunga il momento, s'affliggesse di ciò a cui aveva pensato e s'era preparato da tanto tempo."

Simmia disse ridente: "Per Zeus, Socrate, m'hai fatto ridere senza che ne avessi alcuna voglia. E credo che a sentirti parlare così dei filosofi la gente troverebbe che si ha ben ragione dire - e ti farebbero coro i

miei compaesani, e con che gusto! - cherealmente quelli che fanno professione di filosofia sono come persone che aspettanodi morire; e del resto essa, quanto a sé, ha già mostrato di non ignorare che i filosofisono degni d'una morte siffatta."

Che cos'è la morte se non la separazione dell'anima dal corpo? - proseguì Socrate. Il filosofo disprezza i paiceri del corpo esa che i sensi sono fallaci. Sa che non deve e non può fidarsi se non della sola anima, quando si proponga di conoscere ed indagare l'essere. Desidera la morte perché spera che soltanto allora la sua anima, purificata e sciolta da ogni contatto materiale potrà godere della piena conoscenza del vero, che era stata lo scopo di tutta la sua vita. Chi non è sorretto da tale speranza, non è filosofo, ma un semplice amante del corpo. Qui abbiamo l'obiezione di Cebete. Il ragionamento sarebbe giusto a patto che si potesse dimostrare che

l'anima sopravvive al corpo, conservando potere ed intelligenza. Ma questo è proprio ciò di cui tanti dubitano e che necessita di dimostrazione. Socrate risponde partendo da lontano, in particolare dagli insegnamenti di Pitagora. L'antica credenza nella metempsicosi, ovvero la trasmigrazione delle anime, presuppone l'esistenza precedente dell'anima nella dimensione ultraterrena. Il principio di questa credenza è universalmente osservabile in natura, dove ogni contrario si genera dal suo contrario: vita e morte sono contrari; il trapasso dalla prima alla seconda è evidente; ora, se la non vuole essere manchevole da un lato, bisogna anche ammettere il ritorno da morte a vita, per quanto sfugga ai nostri sensi. E non può mancare, perché altrimenti la vita finirebbe per estinguersi del tutto. Se dunque le anime, dopo la morte, si rigenerano in nuovi esseri, bisogna ammettere che esse continuano ad esistere in qualche luogo. Cebetesuggerì allora che la preesistenza dell'anima risultava anche dalla dottrina cara a Socrate, ovvero che la vera scienza non fosse altro che reminiscenza. Ma Simmia dichiarò di non rammentarsene, e Cebete fu stimolato a darne un riassunto. Poi Socrate la espone. Muovendo dalla natura della memoria, ericavandone la conseguenza che, se dalla osservazione degli oggetti sensibili noi possiamo sollevarci alla cognizione delle idee, è chiaro che queste idee dobbiamo averle conosciute tutte prima di nascere. Secondo Socrate, dunque, la medesima necessità logica legava la preesistenza delle idee e quella delle anime. Ma, Simmia e Cebete avanzarono un'obiezione: pur concedendo la preesistenza dell'anima, non abbiamo alcuna prova che essa non si dissolva con la morte. Cebete disse che c'era in loro un bambino che aveva tuttora paura della morte. Socrate risponde che solo ciò che è composto si può dissolvere, e l'anima è.certamente una sostanza semplice che rimane sempre identica a se stessa. Solo il composto può divenire. L'anima è come le idee, specie d'essere incorruttibile. Si può conoscere solo con l'intelletto e non con i sensi. Come tutti gli immutabili non appartiene alla sfera del visibile e del tangibile ma all'invisibile e all'intangibile. E quanto più si rifletta sul fatto che l'anima è fatta per comandare ed il corpo per servire, non si può non credere alla sua natura eterna in quanto partecipa del divino. Richiamandosi ancora alla dottrina pitagorica della metempsicosi, Socrate accenna al destino dell'anima. Quelle che avranno vissuto in temperanza e coltivato le virtù civili potrebbero reincarnarsi a livelli dell'essere più vicini al divino, quelle possedute dai desideri carnali non potrebbero che rinascere nei corpi di animali selvaggi e feroci. A queste affermazioni segue il silenzio. Simmia e Cebetescambiano commenti a bassavoce. Indovinando che erano ancora in dubbio, Socrate li invita a vincere qualsiasi scrupolo. Così Simmia si
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Publisher
A.A. 2012-2013
9 pagine
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SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-FIL/06 Storia della filosofia

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Sara F di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia della filosofia e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Messina o del prof Romeo Sergio.