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IL PALAZZO DELLE POSTE DÌ PALERMO
L’allievo: Hermes Egidio Pituccio
La critica negativa lo definisce con ingenua incompetenza “il Palazzaccio”, ritenuto
un “tipico esempio di Architettura del Regime” legato più agli aspetti del costume
che alla storia dell'architettura. La Città di Palermo si distingue per aver avuto il
privilegio di possedere, tra i cinquanta edifici postali realizzati durante il ventennio
fascista, il più grandioso.
L'edificio si estende su un'area di circa 5.100 mq. con una compatta planimetria
articolata simmetricamente su due cortili; lo sviluppo massimo in altezza del volume
edilizio è di 24 m. (quattro piani più attico). Il prospetto sulla Via Roma si impone
per quel carattere monumentale che gli attribuisce il colonnato incassato al centro
della facciata e costituito da dieci colonne, senza basi né capitelli, enfatizzate
dall'ampia scalinata a sua volta affiancata da due vasche rettangolari, rivestite
interamente in mosaico azzurro. Un modello vero (scala 1:1) della gigantesca
colonna del porticato venne realizzato durante la fase dei lavori ed esposta, per
una visione al pubblico, allo Spasimo. Esaltante doveva apparire il simbolo del
fascio che, col suo ostentato verticalismo (30 m. di altezza), come una grande
scultura in marmi rossi e grigi, affiancava un tempo sulla destra il prospetto del
palazzo; oggi, su quel lato, è sorta una moderna ala di uffici. Il lungo portico di
accesso al palazzo, coperto da una volta a botte e aperto da arcate verso l'esterno,
evoca effettivamente suggestioni e memorie dell'architettura romana nei suoi tipici
elementi costruttivi. Tuttavia, lo straniamento contestuale e temporale ne
accentuano una interpretazione in chiave metafisica dechirichiana.
Il grande salone centrale per il pubblico è coperto da un'ampia monumentale volta
a crociera di 14 m., anche questa di romana memoria se si pensa alle coperture
delle grandi aule termali; tuttavia, la volta è alleggerita dai tre finestroni
semicircolari che consentono l'illuminazione diurna dell'ambiente. Questo è rivestito
in marmi diversi: neri e rossi nelle pareti, gialli e neri a comparti nel pavimento;
mentre al centro dell'ambiente c'è un grande bancone-fontana in marmi rossi e neri
e mosaico azzurro. All'interno, il vorticoso succedersi delle rampe elicoidali trova
una enfatizzazione dinamica, di gusto futurista, nel cromatismo acceso dei marmi
rossi e neri di rivestimento. Gli accenti razionalisti, sicuramente presenti
nell'edificio, vengono dunque dominati da Mazzoni con colorazioni espressioniste o
futuriste, come nel dinamico volume esterno della scala elicoidale o nella lunga
striscia orizzontale a vetrate dell'attico.
Angiolo Mazzoni aveva iniziato la propria attività professionale frequentando a
Roma lo studio di Marcello Piacentini, il quale, come è noto, voleva riproporre,
attraverso l'architettura, quei mitici “caratteri della perennità romana”. Mazzoni,
tuttavia, non rimase strettamente ancorato a tali propositi e cercò invece di
sperimentare nuovi linguaggi, tenendosi evidentemente aggiornato sulle esperienze
architettoniche più interessanti e innovative che venivano proposte a livello
europeo.
In particolare, un conflitto tra modernità e tradizione si verificò nell'architettura
italiana quando nel 1931 l'Unione degli Architetti, sostenuta dal governo fascista,
ritirò il suo appoggio al Movimento Italiano per l'Architettura Razionale (MIAR) e
trovò nello “stile littorio” l'immagine più idonea per un'architettura che esprimesse i
valori del Regime. Il fascismo aveva trovato in un primo tempo nel movimento
futurista perfetta sintonia ideologica nell'esaltazione della guerra e nel mito della
macchina, inteso come aspirazione al progresso industriale. Questi ideali, tuttavia,
cominciarono ben presto a perdere popolarità venendo abbandonati anche dagli
intellettuali: l'esempio di Giorgio De Chirico, che si tenne sempre distante dalla
<<ciurma urlante dei futuristi>>, fu seguito da molti artisti e architetti.
Il Palazzo delle Poste fu progettato dall'architetto Angiolo Mazzoni tra il 1929 ed il
1934 e venne realizzato sull'area occupata un tempo dal vasto giardino annesso al
Palazzo Monteleone, la cui scomparsa è da attribuire al coraggioso sventramento
del centro storico della città attutato, tra la fine dell'800 e i primi anni del '900, in
osservanza del piano regolatore dell'ingegnere Felice Giarrusso.
Una delle ragioni per la quale il governo fascista decise di far costruire tale Palazzo
fu quella di voler abbellire il tratto di Via Roma compreso tra Corso Vittorio
Emanuele e Via Cavour.
Bisogna, inoltre, aggiungere che l'eccellente rivestimento del monumentale
prospetto in marmo grigio-chiaro, realizzato da Belliemi, conferisce a tutto l'edificio
una sorta di magica evanescenza, che ha il potere di farne ignorare l'oggettiva
presenza, data la luminosità che vanta Palermo. La costruzione del “Palazzaccio”
fu tutta regolata da Roma e affidata a uomini ormai legati indissolubilmente al
fascismo, con la quasi totale esclusione degli artisti locali che, all’occasione, pure
servivano a mantenere vivi nella provincia certi simboli e certe tematiche, senza
essere considerati, però, tanto utili da essere coinvolti in opere anche
economicamente colossali.
Il bolognese critica il razionalismo, perché troppo freddo essendo nato <<in paesi
geniali, possenti, ma privi di sole>> e, non riuscendo a sottrarsi ad una mitica idea
di mediterraneità, inneggia alla <<nostra genialità liricamente creativa>>, a <<quel
calore>> che potrà salvare il razionalismo italiano. Uno dei modi che gli consente di
superare tali limiti del razionalismo è il coinvolgimento nella fase dell'arredo e della
decorazione di alcuni artisti dell'area futurista che vengono chiamati a collaborare
negli ambienti più sofisticati al primo piano del Palazzo delle Poste. Il déco e il
neofuturismo si traducono quindi nella statica dimensione novecentista sia
nell'accurato disegno dei mobili e dei rivestimenti sia nei dipinti murali. Più
esplosiva cromaticamente è la Sala del Consiglio vicina allo studio del Direttore
Provinciale – in entrambe si accede da un disimpegno rivestito di mosaico azzurro
e giallo. Gli arredi questa volta sono di Angiolo Mazzoni: un grande tavolo fisso al
centro, realizzato in marmo dalle forti venature paonazze; certamente, però, gli
oggetti più studiati da Mazzoni sono le sedie che circondano il possente tavolo
marmoreo, sfidandone la robustezza con un disegno forte che prevede il
rivestimento in rame delle parti strutturali lignee ed il rivestimento delle zone
imbottite in marocchino rosso. Ma a dare il tocco finale a tale assemblaggio di
materiali e colori sono i cinque grandi pannelli futuristi di Benedetta Cappa
Marinetti. Le composizioni rapide e simultanee tipiche della pittura futurista trovano
nei tagli compositivi diagonali, nelle accelerazioni prospettiche e nella
compenetrazione delle forme e dei colori, valori estetici decisamente riusciti e
nuovi. Nella sala con Benedetta è presente il bolognese Tato, uno dei pittori più
attivi e vivaci, anche sul piano teorico, della seconda generazione futurista, legato a
Marinetti e a Mazzoni e gravitante anch’egli intorno all’area culturale del regime,
che sapeva ben utilizzare le intelligenze creative spesso costringendole a scendere
a patti con la cultura ufficiale, pur lasciando quella possibilità di espressione
personale, che doveva e deve sempre contraddistinguere il vero artista. Di Tato,
nella Sala delle Conferenze, si possono ammirare due tele facenti parte di un
trittico esposto alla prima Quadriennale di Roma del 1931, Il lavoro e Giovinezza, e