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LIBER SEXTUS (1298) E BOLLA UNAM SANCTAM
La raccolta di Gregorio IX prosegue attraverso l’opera di un altro Pontefice, discusso
dal momento della sua elezione Bonifacio VIII , Benedetto Caetani, il quale seguì a
Celestino V, l’unico che lasciò la carica di pontefice prima della morte. Si disse che
Bonifacio VIII ambisse alla carica e fosse coinvolto nell’abdicazione del predecessore.
Era inoltre inviso dalla Francia, che veniva considerata un laboratorio giuridico
fondamentale, ed un soggetto politicamente forte. Bonifacio VIII comprendeva i
disegni egemonici della Francia ed il rischio di una destabilizzazione interna che
poteva destabilizzare la Chiesa. Fu accusato di Simonia, di abusare del potere
conferitogli. Fu però anche un giurista. Scomunicò Filippo il Bello, e venne imprigionato
ad Anagni, dove ricevette il famoso “schiaffo”.
Il sextus nel 1298 pubblicato con la bolla “Sacrosanctae” è così chiamato perché libri
di decretali di Gregorio IX erano cinque, dunque “sextus” è un segno di continuità,
ossia esso è idealmente sesto rispetto ai 5 libri di Gregorio, anche se comunque in
pratica non è così, ed anche il sextus è diviso in 5 libri. Qualcuno ritiene invece che sia
importante per l’autore il numero 6 come multiplo di 3, in quanto per la teologia è
importante la numerologia. Per distinguerlo nelle citazioni si usa il VI romano. Anche il
sextus eliminava l’autorevolezza di compilazioni che si erano create tra la
promulgazione del liber extra e questa compilazione. La parte finale è particolare
perché compare un titolo simile a quello della compilazione giustinianea “de regolae
iuris”, un insieme di principi proposti in brevi proposizioni attribuite a un grande
civilista di nome Dino del Mugello.
Altro documento per il quale Bonifacio VIII è noto è la bolla “Unam sanctam” che risale
al 1302 in cui vengono ripresi gli ideali e i temi trattati all’interno del dictatus papae,
pur essendo temporalmente distanti. Bonifacio VIII stabilisce con questa bolla
l’affermazione dello spirituale sul temporale. La giustificazione di questo cerca un
fondamento solido nella scrittura sacra. Si riflette sull’unicità della Chiesa nel mondo
temporale, l’unicità della carica di Pietro, la ripetizione di “Unam” è volta a riportare
che la dualità è negativa. Bonifacio citava i Manichei, eretici che fondavano la divinità
su due principi, e che erano per ciò rifiutati. Uno è colui che deve essere obbedito,
costui è il pontefice, unica autorità spirituale. Esiste la spada temporale e la spada
spirituale, ma una è impugnata dalla chiesa e l’altra è impugnata per la Chiesa.
L’unica forma di salvezza è data all’appartenenza alla Chiesa cattolica, come veniva
detto anche nel dictatus papae. La religione influisce sulla vita civile. nel frammento
omesso si recupera tutto ciò che nel testo sacro designa il senso di unicità (x es. una
l’arca di Noè). Se è vero che lo spirituale è superiore al temporale perché così è scritto
nei testi sacri, il rapporto gerarchico appare naturale.
Quindi si giustificano i versamenti delle decime, le benedizioni, le santificazioni, il
riconoscimento del potere della Chiesa. È al potere spirituale che sta non solo
costituire il potere terreno ma anche giudicarlo, perché questo potere, anche se si
esercita attraverso un uomo, non è d natura umana, bensì divina.
Poi si arriva al frammento in cui si ricava il principio del mandato che Cristo conferisce
a Pietro nel momento in cui gli affida il potere “delle Chiavi”, di sciogliere e di legare in
una specularità tra cielo e terra, perché chiunque si oppone all’ordine delle cose così
stabilito, resiste a Dio stesso. Si stabilisce che è necessario per la salvezza di ogni
creatura umana che ognuno si sottometta all’autorità del sommo pontefice.
CLEMENTINAE (1317)
Alla morte di Bonifacio la Francia esercita una pressione sulla curia romana, il francese
Clemente V trasferisce la sede del pontificato ad Avignone, il periodo che richiama la
“cattività babilonese”, viene definita “cattività avignonese”, sposta l’arco delle
relazioni politiche. Fu una corte grande dal punto di vista culturale. Anche Clemente V
ha un suo interesse a proseguire l’opera ordinamentale dei suoi predecessori. Le sue
decretali riguardano il processo. Clemente muore e Giovanni XXII le pubblica nel 1317
e le chiama Clementinae.
Le raccolte di decretali finiscono qui, anche se un corpo di decretali, le extravagantes
di Giovanni XXII e le extravagantes communes composte da materiali eterogenei sono
inseriti nel Corpus Iuris Canonici dai redattori, del 1500, a imitazione del Corpus
giustinianeo. Il diritto si basa sui due “corpi”. L’ultima versione è pubblicata nel 1582
da Gregorio XIII, è formato da sei libri: Liber extra, liber sextus, Clementinae, decretali
extravagantes ed extravagantes communes.
Abbiamo quindi due realtà speculari Corpus Iuris Canonici e Corpus Iuris Civilis.
Quest’ultima non è facilmente riscopribile però dai maestri medievali, il cui scopo è
farla riemergere. La prima abilità è il recupero testuale, infatti Irnerio opera una
cognizione materiale e interpretativa. Per tutta la tradizione medievale, si trovano
partizioni del digesto organizzate diversamente, esso è spezzato in tre parti, che si
suddividono in libri che riemergono in modalità differenti:
1. il vetus, l’antico, che riporta i primi 24 libri fino al titolo II del 24°,
2. il novum, raccoglie i libri dal 39° al 50°,
3. l’infortiatum dal titolo III del 24° fino al 39.
“Infortiatum” è un termine difficile da spiegare, ma pare sia un’espressione di gioia di
Irnerio che incorrendo in questi libri disse “ius nostrum infortiatum est”. Il quarto
volume occupa una parte del Codex, i primi nove libri. Il 5 volume ospita gli ultimi tre
libri del codex, le istituzioni, l’autenticum (collezione di novelle) e i libri feudorum.
Al tema del diritto feudale si legano due temi fondamentali: il rapporto tra le
consuetudini locali ed il diritto romano e l’idea di proprietà sott’intesa dalla riflessione
attorno al dominio feudale, si inizia a pensare di un diritto del feudatario, per cui chi fa
rendere produttiva la terra è titolare sostanziale del diritto, anche il concessionario
deterrà una forma di proprietà.
GLOSSA
La glossa è un modo di interpretare i libri legali ed il testo giustinianeo, su cui si
avranno problemi di comprensione, di cui si occuperanno la scuola della glossa e del
commento. Gli umanisti (seconda metà del 1400) dovranno recuperare gli strumenti
per capire il testo giustinianeo, come l’apprendimento della lingua greca e la lingua
fine latina. La glossa è un’esegesi testuale letterale, parte dall’esame della littera ,
cerca di chiarire il singolo termine, il significato. Come ogni tipo di interpretazione
anche la glossa è più dell’esame della lettera.
Il blocco dell’interpretazione posto da Giustiniano è inefficacie, l’interpretazione va al
di là, è costruttiva e creativa essa stessa, non esiste un’interpretazione meramente
letterale.
Il laboratorio più vivace di nascita delle glosse è data dalla lezione, spesso la glossa è
il chiarimento del senso dato dal maestro all’interno della lectio, il contenuto della
lezione è il cuore dell’estratto interpretativo accanto al testo. I chiarimenti erano
destinati a chiarire per quanto necessari per capire il testo, si era comunque legati al
mantenimento del significato della lettera. Iacopone da Todi disse che non era
necessario interpretare dove non ce ne fosse bisogno.
Si trovano diverse versioni, alcune glosse sono molto scarne, costituiscono legami tra i
vari punti del testo, altre invece si proponevano di ricostruire in maniera più organica i
contenuti.
Le prime glosse furono interlineari, tra riga e riga del testo originale, tanto erano
limitate all’esplicazione della parola. Quando la glossa assume maggiore consistenza
prende posto ai margini del testo.
Non fu l’unico genere utilizzato dai glossatori, fu quello caratterizzante, tuttavia si
ebbero anche altri strumenti operativi impiegati soprattutto ai fini pedagogici. Ad
esempio i casus, i casi, rappresentazioni, esemplificazioni di fattispecie concreti, che
chiariscono le fattispecie, o le quaestiones, gli interrogativi che in realtà sono dispute
attorno a casi giuridici controversi, per addestrare i giovani giuristi.
PILLIO DA MEDICINA e LA QUAESTIO
Pillio da Medicina (seconda metà XII sec.) non lavora in forma definitiva a Bologna,
infatti crescono studia anche in altre città, egli si trasferì a Modena. Anche Padova,
Pavia, Roma, Pisa ospiteranno degli studia.
Fu autore di una riforma riferita alla didattica, fu autore di un libellus disputatorius, in
un primo tempo diretto alla prassi e poi adottato come strumento didattico. Nel
libellus si presentavano una serie di assunti tratti x es dalla compilazione giustinianea
e venivano accompagnate da fonti normative favorevoli o contrarie, la somma di
posizioni che registravano voci a favore e voci contro le due tesi di risoluzione di un
caso. Si chiamerà metodo brocardico. Questa espressione è un po’ oscura,
significava che questo metodo era la proposizione di un principio corredato da fonti
pro e contro basata su una struttura dialettica di raffronto tra tesi avversarie che
trovavano accordo in un'unica soluzione. È utile alla scuola per l’epoca, perché il
sistema imperante era quello della lectio basata su una lettura esplicativa e la
richiesta della memorizzazione dei passi. Pillio notava la difficoltà di tenere a mente
una grande congerie di nozioni e temeva che la limitazione a questo approccio potesse
impoverire la capacità di andare al di là della memorizzazione, per integrare l’esegesi
alla capacità critica utile nella prassi, innesta questa metodologia che possa rendere
più dinamica la mente dei suoi allievi. C’era una maggiore consapevolezza, il giurista
si interrogava anche sui contenuti delle norme giustinianee. Questo modo di insegnare
ebbe un considerevole successo infatti tra 200 e 300 il genere della questio prende
piede all’interno dell’attività didattica. Per impratichire gli studenti, il maestro creava
una situazione fittizia, proponeva una fattispecie, solitamente non reale, costruita ad
hoc, impost