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L’INFLUENZA DEL CODE NAPOLEON IN
ITALIA 07/04/16
Caduto Napoleone, nel Congresso di Vienna del 1815 ci si chiede
se chiudere definitivamente con il sistema giuridico introdotto da
Napoleone, ossia la codificazione, e ritornare ai modelli precedenti,
oppure mantenerla intatta. In Italia alcuni Stati optano per la prima
ipotesi, altri Stati optano per la seconda. Il regno di Sicilia, che a
volte la storiografia dipinge in maniera forzata, è per certi versi più
avanzato del resto d’Italia, infatti qui viene mantenuta la
codificazione. Il codice civile è suddiviso nel regno di Sicilia in
cinque parti ed esso non rappresenta una mera riedizione dei codici
napoleonici bensì ci sono alcune soluzioni originali, soprattutto c’è
da notare come questi codici non contengano elementi, quali il
divorzio, che erano in contrasto con la mentalità italiana dell’epoca.
13/04/16
A Parma il diritto commerciale viene trattato all’interno del codice
civile ed è la prima volta che accade ciò. Nel lombardo-veneto,
invece, vi era un vice re austriaco, infatti questi territori erano
soggetti all’Austria, pertanto venne istituito l’ABGB che è costruito
all’interno dell’Ancien Regime ma rompe con esso allo stesso modo
di come il codice napoleonico aveva rotto in Francia. Nello Stato
Pontificio il pontefice era sia il capo della Chiesa di Roma sia il
sovrano territoriale, dunque il Corpus Iuris Canonici aveva avuto
sino alla Restaurazione vigore senza contestazione ma proprio in
questo periodo si comincia a pensare alla codificazione e con
Gregorio XVI nel 1834 si arriva ad una regolamento legislativo e
giudiziario degli appalti civili e ciò risulta come una consolidazione
che regola gli affari civili, tuttavia non è un codice. Per tutto l’800 le
varie commissioni cardinalizie ragionano sulla codificazione a cui,
però, non si arriva mai. La Chiesa ha sempre insegnato che il
mutuo è necessariamente gratuito, nei progetti di codificazione si fa
notare come talora si possa derogare a questa regola, ad esempio
nei casi di danno emergente o lucro cessante, quindi era
impossibile fare un codice perché c’era già una normativa
universale. Nel Granducato di Toscana viene ripristinato il vecchio
sistema delle fonti seppur con molte modifiche, infatti Ferdinando III
ripristina il sistema del diritto comune eliminando gli statuti comunali
e nell’ambito del diritto penale abbiamo il codice penale del 1853
che è risultato essere uno dei migliori. Il Regno di Sardegna era
stato nuovamente assegnato ai Savoia con il congresso di Vienna e
i Savoia attuarono una Restaurazione pesante tant’è vero che
decisero che la parentesi francese doveva essere cancellata
completamente, infatti vennero riprese le regie costituzioni in
Piemonte, in Liguria il codice napoleonico e in Sardegna il diritto
consuetudinario, dunque in un solo regno abbiamo tre regimi
giuridici di diritto privato diversi. Nonostante il fine di cancellare la
parentesi napoleonico perseguita da Vittorio Emanuele II, con Carlo
Alberto le idee liberali si fanno forti anche in Piemonte, così si ebbe
la stesura del Codice Civile albertino che, però, non ricopriva la
Sardegna fino al 1847, cioè sino a quando vi fu la fusione perfetta
tramite la quale Carlo Alberto dispose che tutti i suoi sudditi
dovevano far parte della stessa famiglia. Modena è un altro dei
ducati padani, oltre a Parma, e qui si parla di codicipazione, cioè
creare codici “con lo stampino” prendendo spunto da quello
francese. La codificazione modenese arriva dopo la metà dell’800 e
questo codice è modellato su quello parmense e anche questo
vede la mancanza di un codice commerciale che era in fase di
elaborazione ma non entrò mai in vigore.
UNIFICAZIONE LEGISLATIVA IN ITALIA
13/04/2016
Quasi ovunque abbiamo l’estensione del codice albertino man
mano che conquistano i territori della penisola italiana. I codici
sardi, però, non vennero estesi alla Toscana che rimane fedele al
diritto comune mentre, relativamente al diritto penale, era stato
esteso il codice penale sardo e anche in questo caso la Toscana
rimase esente dal processo di unificazione legislativa in quanto qui
rimase in vigore il codice penale toscano. L’unico settore omogeneo
per tutta l’Italia al momento dell’unificazione del regno era il settore
commerciale. Nel 1859 una commissione venne incaricata di
ragionare sull’integrazione legislativa ma nel 1862 venne
presentato al Senato un nuovo progetto che teneva conto non solo
del codice albertino e del codice francese ma anche delle varie
scienze giuridiche che costituivano il territorio del nuovo Stato ma
questo progetto non venne approvato. In virtù del fatto che i codici
dovevano essere in qualche misura approvati, nel 1865 si arrivò
alla stesura di un codice civile che si ispirava parecchio al codice
francese ed è importante in quanto segna come, oltre all’unità
territoriale, ci fosse anche l’unità legislativa. Per quanto riguarda il
codice penale, un punto fondamentale è che esso era il codice
penale sardo che prevedeva la pena di morte che nel 1859 venne
abolita. Tuttavia, quando si trattò di discutere dell’estensione del
codice, vi fu Pasquale Stanislao Mancini che propose l’estensione
del codice penale sardo abolendo la pena di morte che il codice
penale sardo prevedeva ma il Senato si oppose perché la pena di
morte era considerata come un deterrente utile per eliminare
fenomeni quali il brigantaggio. Solo nel 1889 abbiamo avuto un
codice penale italiano che, di conseguenza, aveva validità per tutta
la penisola, ossia il codice Zanardelli.
CODICAZIONE AUSTRIACA 07/04/16
La codificazione austriaca, a differenza di quella francese, non è
frutto di una rivoluzione bensì essa matura in un territorio che è
antagonista alla Francia rivoluzionaria. Questo codice civile
austriaco del 1811 nasce dopo vari esperimenti, infatti nel ‘700
l’imperatrice Maria Teresa d’Austria aveva incaricato ad una
commissione di redigere una raccolta che contenesse sia il diritto di
ragione sia la tradizione romanistica. Il figlio dell’imperatrice,
Giuseppe II, una volta divenuto imperatore, verso la fine del ‘700 fa
riprendere i lavori della commissione con cui si arrivò al “codice
giuseppino” che non entrò in vigore in tutta l’Austria ma solo nella
Galizia, si arrivò al codice civile austriaco nel 1811 ed esso prende
il nome di ABGB. Questo codice ha avuto alterne vicende, esso è
intanto più snello del codice napoleonico ma non ebbe lo stesso
successo di quest’ultimo in quanto l’ABGB viene visto come
l’imposizione da parte di uno Stato nei confronti dei territori
assoggettati in segno di dominio mentre il codice napoleonico
esalta i diritti civili ed è frutto di una rivoluzione. Anche il codice
austriaco si articola in tre libri: 1)persone, 2)cose, 3)costituzione,
modificazione ed estinzione dei rapporti giuridici. Nel paragrafo 7 il
legislatore fa presente che il giudice deve decidere tenendo in
considerazione il senso delle parole e della legge ma, quando non
sovviene la legge, bisogna fare riferimento ad altri casi simili e a
leggi analoghe che disciplinano casi simili, se il giudice non trova
alcun caso analogo, allora il giudice deve fare riferimento al diritto
naturale. Questo riferimento va interpretato come principio di
riferimento ma non come un diritto vigente nell’ordinamento. Il
codice civile austriaco è innovativo in quanto rompe con le fonti
precedenti.
RESPONSABILITA’ DEL GIUDICE 14/04/16
Un discorso particolare è quello relativo alla responsabilità del
giudice nel diritto comune. Abbiamo visto come la funzione del
giudice sia presente in qualunque esperienza storica con costanti e
varianti. La caratteristica comune è il fatto che il giudice trasforma
un precetto astratto in precetto concreto ma questo contenuto
minimo può avere nelle varie esperienze ulteriori elementi. Ad
esempio abbiamo notato che nell’esperienza romana il pretore non
solo risolveva la controversia ma addirittura con l’editto indica le
fattispecie che meritano un’attenzione particolare, oppure nell’alto-
medioevo il giudice ha la funzione non solo di dicere ius ma anche
e soprattutto di andare a cercare la norma consuetudinaria di
riferimento per risolvere il caso concreto. Nel basso-medioevo,
invece, vi è un ritorno alla forma scritta con un esercizio della
giurisdizione svolto da soggetti non esperti di diritto quali il podestà
o il capitano del popolo che si occupavano di diritto quasi sempre
per meriti politici, pertanto venivano aiutati dai sapientes. E’ qui che
si innesta il problema relativo alla responsabilità del giudice perché
questo poteva essere discorde con l’esperto, pertanto in questi casi
il giudice si discosta dal consiglio e si assume la responsabilità
della propria decisione. I giuristi medievali trovarono nelle fonti
romane una forma di responsabilità esplicata dalla formula “iudex
quid litem suam facit”, ossia un’ipotesi nella quale il giudice non si
era comportato linearmente e nell’Impero Romano rientrava nei
casi di “quasi delitto”. La formula relativa alla responsabilità del
giudice è la seguente: “se il giudice ha fatto sua la lite non sembra
obbligato come se avesse commesso un delitto ma, poiché è
obbligato quasi contrattualmente ad esercitare la propria funzione
giurisdizionale, deve verificarsi qualche peccato che egli abbia
commesso, anche solo per imprudenza”, insomma si esclude il
maleficium, ovvero il dolo nel commettere un atto illecito, ma vige
una sorta di obbligazione contrattuale ad esercitare questa funzione
nel modo corretto, per questo sembra che egli debba essere
giudicato per un’obbligazione derivante dai quasi delitti a la pena
sarà determinata “secondo l’arbitrio del giudice che andrà a
valutare questo comportamento”, anche se nel basso-medioevo il
giudizio spettava al sindaco. Inoltre potevano esserci due altri profili
di responsabilità del giudice più gravi del primo classificati come
responsabilità ex maleficium, cioè derivante da illecito: intanto
quello doloso, ossia quel giudice che effettivamente ha favorito la
soluzione giuridica per una parte anziché un’altra, in questo caso la
pena era diversa nel civile, in cui il giudice era condannato al
pagamento del valore della lite, e nel penale, in cui vi era la
cosiddetta retorputio, c