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Mangiare molto, mangiare bene
Nel XIII secolo la società europea aveva raggiunto una condizione di diffuso benessere. Nonostante questo,
l’equilibrio tra risorse e popolazione resta instabile: ne è la prova il susseguirsi di disboscamenti e delle opere
di colonizzazione agraria: tutto ciò produce anche ricchezza, diffonde possibilità di consumo tra strati più
ampi della popolazione. Attorno al 1250 l’Europa ha raggiunto l’apice di questa floridezza. Il fenomeno
riguarda soprattutto le città: mangiare carne tre volte al giorno comincia a essere segno di povertà. Per i
ricchi, mangiar molto, non vale più come unico segno distintivo del valore di un uomo. Si comincia a
diffondere invece un’altra concezione, ossia il “nobile comportamento”: non interessava più quanto cibo un
eroe riuscisse a ingurgitare, ma l’attenzione si sposta su altri dettagli: sulla bellezza della tavola, della
tovaglia e del vasellame, sulla buona compagnia e la piacevole conversazione, la musica, gli spettacoli, la
finezza dei modi. È la nascita delle «buone maniere», di una ritualità convenzionale fondata sull’eleganza
anziché sulla forza. Si inizia a valorizzare il cibo, a curarlo e a renderlo raffinato, e diventa importante la
capacità del nobile di saper distinguere tra buone e cattive vivande. Nel XIII secolo cominciano a uscire i
primi esempi di libri di cucina.
Gastronomia e fame
Agli inizi del Duecento, la requisitoria di papa Innocenzo III contro le vanità mondane non aveva risparmiato
il peccato di gola e le nuove ghiottonerie che gli uomini avevano inventato. Si inventano nuovi sidri, si
utilizzano spezie e ci si affida agli artifici dei cuochi. L’uso delle spezie era una pratica diffusa da tempo
nella cucina europea: le prime spezie vengono utilizzate in campo medico per poi passare a quello
alimentare: i contatti con l’Oriente a seguito delle crociate incrementano l’importazione di spezie, decretando
la fortuna dei mercanti veneziani. Il motivo dell’utilizzo massiccio delle spezie è stato falsamente accreditato
alla necessità di coprire il gusto di vivande troppo spesso mal conservate se non, addirittura, avariate.
Ancora, si sostiene che le spezie sarebbero servite a conservare la carne: entrambe le convinzioni sono
infondate. I ricchi consumavano carne freschissima, appena cacciata, o carni acquistate sul mercato,
anch’esse freschissime. Inoltre, i libri di cucina sono espliciti quando suggeriscono di aggiungere le spezie il
più tardi possibile, dopo la cottura. Cade così anche la spiegazione conservativa. Un’altra spiegazione ci
riconduce alle convinzioni dietetiche del tempo: i medici erano concordi nel ritenere che il calore delle
spezie favorisse la digestione dei cibi. Inoltre, le spezie erano molto care: possederle significava essere
ricchi, e l’ostentazione della propria ricchezza era un bisogno sentito da molti. Oltre a queste motivazioni,
ovviamente i cibi speziati saranno parsi buoni da mangiare: ciascuno avrà sviluppato le proprie preferenze.
L’immaginario delle spezie non è finito qui: strumento di ostentazione e segno di distinzione sociale, esse
concentrano su di sé anche valori di sogno, gli stessi valori di cui è carico l’Oriente, terra misteriosa e
lontana.
I libri di cucina cominciano a essere prodotti nel XIII secolo in un duplice ambiente: borghese/signorile;
cittadino/cortese. In entrambi casi, la destinazione è esplicita: si rivolge a un pubblico di professionisti,
cuochi al servizio di ricchi. La mancanza di indicazioni quantitative sembra legata a questa destinazione
professionale. I pochi manuali su cui queste indicazioni compaiono sembrano appartenere alla sezione
borghese di questa letteratura. Forse perché i ricchi volevano controllare la borsa e stare attenti alla spesa. O
forse perché in città il pubblico dei lettori era più vasto e non solo limitato ai cuochi professionisti. Fra i
caratteri distintivi della “nuova” cucina europea, sono da annoverare le torte. Avendo bisogno del forno, si
allontana dalla dimensione domestica: suo ambito naturale è la città, dove non mancavano botteghe dove si
potevano comprare direttamente: i cibi destinati alla nobiltà o alla ricca borghesia passavano non di rado
attraverso il filtro di cuochi domestici, o di pubblici rosticcieri e fornai, che certo non appartenevano ai
ranghi sociali più alti. La cucina, piuttosto che un’invenzione delle classi dominanti, è un bisogno delle
stesse, soddisfatto con l’arte dei popolari.
A ciascuno il suo
Il ritorno della fame
A partire dal 1270, la crescita economica subisce un arresto. L’espansione agraria rallenta e i terreni a coltura
si restringono: al crescere della popolazione non si risponde più in maniera adeguata. Agli inizi del Trecento
prende avvio una serie di durissime carestie. Nei momenti di difficoltà si aggravavano le tensioni tra cittadini
e contadini: come nei periodi di benessere, i primi erano privilegiati, soprattutto se la loro città era ricca e
politicamente forte. I contadini si riversavano quindi nelle città nella speranza di trovare cibo. Capitavano
però che le scorte non fossero sufficienti: allora anche i cittadini uscivano dalle mura per cercare cibo. In
questi casi, infatti, la campagna offriva ai poveri più della città: mentre fuori avrebbero potuto trovare cibo,
in città i mercati urbani o erano vuoti o inaccessibili alle loro tasche. Questa malnutrizione preparò il terreno
all’epidemia di peste che sconvolse il continente tra il 1347 e il 1351. Complessivamente la peste sterminò
almeno un quarto della popolazione europea.
Un’Europa carnivora?
Dopo la pestilenza, la situazione migliorò. Testimonianze scritte ci riportano pranzi nuziali all’insegna
dell’abbondanza e della ritrovata felicità. Protagonista principale delle tavole, però, non era il pane, bensì la
carne. Il consumo di carne si era attestato come status-symbol del privilegio sociale: nobili e borghesi ne
avevano fatto il principale segno distintivo del loro regime alimentare. Tuttavia è probabile che nella seconda
metà del XIV secolo questo consumo sia aumentato, anche per i ceti inferiori. L’arretramento delle colture
cerealicole iniziato nel Duecento proseguì nel Trecento: pascoli e prati naturali ripresero il sopravvento: le
aziende agricole davano per la prima volta spazio alle colture foraggere, né mancavano aziende specializzate
nell’allevamento del bestiame. Tutto questo significò un impulso al commercio di carne. Non è chiaro fino a
che punto gli alti consumi di carne siano dovuti alla nuova situazione creatasi dopo la crisi del Trecento o
siano il proseguimento di una situazione precedente. Anche nel XIII secolo le città europee erano state grosse
consumatrici di carne. Fuori dalle mura cittadine, la situazione cambia: si ha l’impressione di una maggiore
difficoltà di approvvigionamento. Il contrasto città campagna rimane un nodo fondamentale nella
distribuzione sociale del cibo. Si disegna un’opposizione tra carne suina, simbolo di un’economia famigliare
autarchica, e la carne bovina, simbolo del nuovo dinamismo commerciale (macellare un bovino non è mai
una questione di famiglia, anche per problemi di peso). I cittadini cominciano a distinguersi come
consumatori di bue, manzo e vitello. In questo periodo la pecora, grazie alla lana e al fatto che i boschi
distrutti si erano convertiti in prati naturali, terreno propizio per quest’animale, diventa un animale di moda.
Il maiale figura in netto declino nel Trecento sui mercati urbani, diventa cibo “campagnolo”. Fra XIV e XV
secolo la maggior parte degli incolti è chiusa allo sfruttamento comune. Il pascolo brado (le pecore unica
eccezione) lascia il passo alla domesticazione degli animali (come i maiali). Consigliati dai medici gli
animali cacciati in montagna, se non fosse che era difficile ottenere i diritti di caccia.
Mangiare di magro
A questa società “carnivora” la normativa ecclesiastica imponeva 160 giorni di astinenza dalla carne, per
diversi motivi:
La carne era un’alimentazione quotidiana, quindi era una sorta di penitenza;
1. Persisteva un’immagine “pagana” del consumo di carne;
2. Forte convinzione che la carne favorisse l’eccesso di sessualità.
3.
Da qui la necessità di cibi alternativi: legumi, formaggio, uova, pesce. Soprattutto il pesce comincia ad
assumere la fisionomia di alimento “magro”: la sua opposizione alla carne fu sempre più netta. La diffusione
del cristianesimo ebbe un ruolo fondamentale nel diffondere la “cultura del pesce”. Bisogna aspettare però
qualche secolo prima che i progressi nei metodi di conservazione lo facciano diventare un alimento
“comune”. Solo a partire del XII secolo cominciano a perfezionare le tecniche di conservazione, a causa
della grande domanda, dell’aringa. Dalla fine del Quattrocento il commercio e il consumo del pesce
conobbero un nuovo grande protagonista: il merluzzo, che venne trovato in quantità inesaurabile nei banchi
di Terranova, e sfruttato dalle marine più potenti, quella inglese e quella francese. Nonostante questo, il pesce
non ottenne un successo “popolare”, in quanto quello conservato richiamava nozioni di povertà, quello
fresco richiamava la ricchezza, ma una ricchezza non invidiabile perché il pesce era un cibo “leggero”.
Rimaneva quindi un surrogato della carne.
Una questione di qualità
Fra XIV e XV secolo l’ideologia dei ceti dominanti si mostra attenta a definire gli stili di vita propri devi
diversi gruppi sociali. Esemplari in tal senso le leggi suntuarie, delle leggi che miravano a limitare gli eccessi
e gli sperperi, controllando i comportamenti e i consumi privati. Non tanto per una questione morale, ma per
mantenere l’equilibrio degli assetti istituzionali, evitare che certi gruppi acquisissero troppo potere. Vi erano
delle norme specifiche relative all’alimentazione (mangiare in modo sobrio, non contemporaneamente carne
e pesce, etc), pensate per normalizzare le consuetudini alimentari, ma anche e soprattutto per differenziare la
classe dominante dagli altri gruppi sociali: si deve mangiare secondo la “qualità” della persona, dove per
qualità si intende l’insieme delle caratteristiche fisiologiche e delle consuetudini di vita di ogni individuo.
Questa era stata la base del pensiero greco e latino, base della scienza medica europea: le modalità di
assunzione del cibo vanno determinate individualmente, in base all’età, al sesso, allo stato di salute, al tipo di
attività svolta. In seguito la prospettiva cambia, e la “qualità” comincia ad avere un&rsquo