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Rituali dell’oralità: la narrazione pubblica non fungeva da strumento di conoscenza reciproca, ma
trasformava l’aula scolastica in un tribunale che aveva il compito di emettere sentenze, un tribunale
dove era conveniente mettere in campo strategie di difesa prima ancora che venissero riformulate
le accuse (una delle più frequenti, bollata come “residuo borghese”, è l’individualismo).
Si trattava quindi di un esame di coscienza pubblico che doveva necessariamente concludersi con
una serie di adempimenti rituali: l’ammissione di difetti da correggere, il riconoscimento del partito
come strumento fondamentale per il processo di maturazione politica e l’impegno ad adoperarsi
nel futuro per la realizzazione dei propositi enunciati alla scuola.
A turno gli ascoltatori diventavano narratori, da inquisitori inquisiti, e questo scambio di ruoli
alimentava un’abitudine al controllo reciproco, non gerarchico ed esercitato da eguali.
L’autobiografia orale era infatti parte integrante di una pratica denominata critica e autocritica, che
doveva essere diffusa ad ogni livello nel partito fino a diventare uno strumento pervasivo destinato
ad incidere anche sul piano psicologico e a costituire la misura dei rapporti interpersonali e della
vita privata (gli autori definivano la pratica un’arma potente, grande, formidabile; lo stesso Stalin la
riteneva utile per andare avanti e migliorare i rapporti fra le masse e i loro capi).
La critica e l’autocritica setacciavano, classificavano, giudicavano l’intero percorso biografico e
sancivano il pieno controllo del partito sulla militanza e sulla vita privata. Ma, al tempo stesso, il
racconto dinanzi ai propri compagni era per la maggior parte dei militanti il primo riconoscimento
pubblico della dignità della propria vita, il riscatto dall’anonimato associato ad una condizione
sociale marginale, l’affermazione della propria individualità all’interno di un gruppo e, grazie a esso,
della società intera. L’autobiografia orale metteva in scena questa ambivalenza.
Si tratta di un esame critico di tutta la propria vita: ambiente sociale da cui si proviene, influenza dei
genitori e degli amici, esperienze di vita, legami col Partito e con la classe operaia; si realizza,
insomma, collettivamente, quell’”inventario”, quel “conosci te stesso” di cui parla Gramsci.
Azzali traccia un parallelismo con le pratiche religiose: il cattolico si confessa al suo confessore
privato; l’allievo comunista si confessa alla collettività. In particolare vi è una sovrapposizione delle
domande sottoposte agli aspiranti gesuiti per la Compagnia e quelle del questionario PCI (es: se si
sono mai seguite linee differenti rispetto a quella attualmente guida).
Se la confessione generale dei gesuiti “sconfinava nell’autobiografia”, l’autobiografia del PCI
sconfinava nella confessione.
Nella maggior parte dei casi gli autori della autobiografie dichiaravano una esperienza diretta nella
Chiesa cattolica per tradizione familiare o per frequentazione giovanile, e questa prossimità può
aver giocato un ruolo favorevole nell’accettazione di una pratica che presentava molte affinità con
la confessione. Ma i militanti erano anche preoccupati di rappresentare se stessi come
definitivamente affrancati dalla religione, definita superstizione, frutto dell’immaginario degli uomini,
strumento della classe monopolistica borghese per i propri fini.
Non è un caso che nel 1949, il Sant’Uffizio dichiarò illecite l’iscrizione ai partiti comunisti e la stampa, la
diffusione e la lettura di pubblicazioni che ne divulgavano l’idea. I fedeli che contravvenivano a tale divieto,
sarebbero stati esclusi dai sacramenti, i promulgatori più attivi del comunismo rischiavano la scomunica.
La rappresentazione autobiografica attribuiva le responsabilità dell’abbandono della religione esclusivamente alla
sfiducia verso i preti. La scomunica aveva sicuramente rafforzato l’ostilità verso la Chiesa istituzionale, ma è poco
credibile che il sentimento religioso fosse scomparso improvvisamente a causa del conflitto con i suoi
amministratori terreni. Ci troviamo di fronte ad una rimozione che pone interrogativi sulla permanenza della fede
e sulla capacità della militanza di dare risposta a bisogni fino ad allora soddisfatti dalla religione.
Nei racconti autobiografici l’URSS emerge come paese idilliaco, del socialismo: sono i padroni che
rovinano il mondo. In Russia, dove non c’erano più i padroni, si stava bene, oppure là sono tutti
uguali, difendono la sua terra tutto è dei lavoratori, e ancora un Paese dove tutto il popolo era
libero e felice, un paese senza padroni, senza disoccupati, senza miseria e fame.
Un immaginario talmente solido da resistere alle confutazioni storiche dei decenni successivi.
Una concezione millenaristica, in cui vi è l’attesa dell’evento di una società liberata e l’attivismo per
realizzarla, la delega a personaggi spogliati della loro realtà storica e investiti di funzioni messianiche e
il protagonismo individuale e collettivo. Il partito governava l’equilibrio fra questi elementi contraddittori.
Insidie del passato: nel 1950 venne nominato un nuovo direttore alla guida della scuola
bolognese: Memo Gottardi. Il cambiamento derivava dalla necessità di curare più l’aspetto politico
della formazione dei quadri rispetto all’aspetto didattico, invece fino ad allora prevalente.
Gottardi è un comunista duro, dogmatico, stalinista, deciso, che si descriveva così: sento molto la disciplina
del Partito. Sono severo con me stesso e anche nella mia famiglia lotto perché non penetri l’influenza del
nemico di classe…; aveva subito un arresto in quanto membro del PC sovietico accusato di trockismo.
L’autobiografia è retaggio leninista; si veda il suo Che fare? del 1902 e il suo imperativo oblichenie,
denuncia, originariamente inteso come cogliere qualcuno in flagrante delitto e fustigarlo
immediatamente dinnanzi a tutti e dappertutto e trasposto poi all’interno del partito.
I dirigenti del PCI che si trovarono a Mosca negli anni trenta sperimentarono personalmente la
pratica autobiografica. Il nucleo dei loro racconti è rappresentato dallo sforzo di discolparsi rispetto
ad alcune vicende che avevano lacerato la storia del PCI negli anni venti e che diventavano capi
d’accusa (es: Bordiga non aveva riconosciuto legittime le nomine d’autorità del Komintern nel 1923
per l’esecutivo del PCI; i bordighisti erano quindi disprezzati e il racconto poteva servire a
cancellare definitivamente quella vicenda dalla propria biografia e dalla storia del partito).
Altra deviazione fu rappresentata da Angelo Tasca, scelto da Togliatti nel 1928 per rappresentare il
partito a Mosca. Ma egli maturò un avversione per il Partito sovietico, giustificata dall’eccesso di
potere personale di Stalin.
La pratica autobiografica varcò molto presto i suoi confini originari grazia alla bolscevizzazione deliberata
nel 1924 al V Congresso del Komintern, con l’intento di uniformare il movimento comunista internazionale
attraverso l’esportazione dei modelli organizzativi e delle culture politiche del partito sovietico.
In Italia, la dittatura fascista impedì il radicamento delle cellule nelle fabbriche. Ma anche se
mutilata sul piano organizzativo, la bolscevizzazione arrivò ugualmente nel paese e agì sul piano
culturale proprio attraverso l’autobiografia.
Berti divenne l’esponente più autorevole del Centro di riorganizzazione creato nel 1938 per
sostituire il Comitato centrale del PCI sciolto d’autorità. Il suo controllo biografico nei confronti dei
compagni era guidato dalla severità, dal sospetto, dalla diffidenza.
Ma la clandestinità del partito in Italia, limitò la pratica autobiografica all’oralità.
Confini della scrittura: il passaggio dalla narrazione orale a quella scritta è un nodo cruciale,
perché è con la scrittura che vennero perfezionate e interiorizzate le tecniche di censura e
autocensura, accusa e discolpa, autocritica e sottomissione rielaborate a partire dalla confessione
pubblica della Chiesa ortodossa e successivamente contaminate, una volta varcati i confini, con
quelle collaudate nella confessione privata della Chiesa cattolica. Ed è attraverso la scrittura che
emerge la riproduzione dello squilibrio nelle competenze linguistiche dei ceti popolari.
Di fronte a una forma di scrittura completamente nuova e impegnativa, il primo problema per i
militanti era cominciare il racconto nel modo giusto. Il basso livello di alfabetizzazione li spingeva
ad attingere a modelli già noti che apparivano adeguati all’importanza dell’atto cui erano chiamati.
L’anteposizione generalizzata del cognome al nome, il ricorso frequente al sostantivo “sottoscritto”, la
struttura della data di nascita e il modo formale di presentare i propri genitori evocano lo stile anonimo della
pratica burocratico piuttosto che quello personale dell’autobiografia. È uno stile che rende visibile la
percezione della gerarchia che governava il contesto della produzione autobiografica e spingeva gli
autori a utilizzare le parole che la scuola o la burocrazia avevano insegnato loro per rivolgersi ad
altre autorità, più lontane ed ostili.
Completezza e verità del racconto erano le regole principali dettate dal committente, e i militanti si
preoccupavano di rassicurare il lettore circa l’osservanza di queste prescrizioni ricorrendo spesso a
formule simili a quelle del giuramento avanti a un tribunale.
Ma tutto questo non bastava. Bisognava produrre un elenco di testimoni, in modo che i funzionari
della Commissione quadri potessero verificare la biografia. Infine, era necessario enunciare la
disponibilità a riprendere e approfondire il racconto, se il partito lo avesse richiesto.
In definitiva, i militanti utilizzavano l’apertura e la chiusura dei racconti per riconoscere l’autorità del
partito e consegnargli il diritto di proprietà sulla propria memoria. Il giuramento finale sanciva la
solidità del patto stipulato attraverso la scrittura autobiografica.
Gli autori descrivevano se stessi come persone comuni, prive di materiale narrativo originale. L’infanzia
e la miseria sono i temi principali intorno ai quali è organizzato il discorso sulla “normalità”. È una
selezione funzionale al passaggio successivo, quello dedicato alla scelta politica.
Nei racconti dei militanti, i motivi della scelta sono molteplici: l’odio verso i responsabili della guerra, la
memoria dei familiari uccisi, l’anticlericalismo, e anche ragioni opportunistiche che non sfuggivano però
ai funzionari. Ma predominano le narrazioni che st