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8.8. SITUAZIONE IN AMERICA LATINA

Dal punto di vista formale, i paesi dell'America latina erano repubbliche, con tanto di parlamento e di elezioni: nei fatti, essi erano

dominati da oligarchie di possidenti che consideravano i contadini alla stregua di servi e gestivano il potere come se fosse un affare

di poche famiglie influenti. Poco popolati gli stati sudamericani attrassero milioni di europei, provenienti sopratutto da quei paesi

nei quali l'industrializzazione non era ancora del tutto avvenuta e che quindi non riuscivano ad assicurare un decoroso tenore di

vita a gran parte dei cittadini. La società latinoamericana era piuttosto semplice: al vertice stavano proprietari terrieri, affiancati da

imprenditori e finanzieri; nel mezzo i ceti urbani; in basso, i contadini e il proletariato industriale. La lotta politica si esauriva nello

scontro fra le oligarchie, rappresentate dai partiti conservatori e le classi medio-basse, raccolte nei partiti liberali e radicali. Il

proletariato operaio era sensibile al richiamo anarchico e rivoluzionario. Quando si vedevano battuti, gli oligarchi finivano per

ricorrere a colpi di stato militari (golpe), che restituivano il potere a chi lo aveva democraticamente perduto. Ci fu, tuttavia

un'importante eccezione: il Messico. Il Messico era stato governato da una specie di presidente “dittatore”, il generale Porfirio

Diaz. La situazione sociale del paese era drammatica: di fronte a 12 milioni di contadini poveri, stavano 400.000 proprietari piccoli

e medi e circa 1000 grandi latifondisti. Francisco Madero, il liberale espressione dei ceti cittadini, cercò di combattere il vecchio

dittatore e si alleò con i capi guerriglieri più a diretto contatto con le masse dei peones, Pancho Ville ed Emiliano Zapata. La

rivoluzione scoppiò nel 1910 e in breve Diaz fu sconfitto. Nel 1911 Madero divenne presidente. A questo punto, però, vennero a

galla le contraddizioni che minavano il fronte rivoluzionario: i liberali come Madero volevano la democrazia politica, mentre i

peones di Villa e Zapata, desideravano la fine del latifondo e la distribuzione delle terre ai contadini poveri. Scoppiarono lotte

sanguionose, al termine delle quali i capi radicali che si erano messi alla testa dei braccianti furono sconfitti e uccisi. La rivoluzione

assumeva un aspetto più moderato e democratico-borghese.

9.IL MONDO NELLA GRANDE CRISI

A più di cinquant'anni dalla Grande Depressione, il mondo industrializzato precipitò in un'altra crisi generale che sconvolse le

strutture economiche. Il suo epicentro furono gli Stati Uniti, che erano diventati il paese guida dell'economia occidentale e nei quali

i principali indicatori del funzionamento del sistema economico (produzione, prezzi, investimenti, occupazione) continuarono a

scendere precipitosamente fino al 1933. La crisi economica esplose il 24 ottobre, il cosiddetto “giovedì nero”, con il crollo della

Borsa di New York, che era diventata la sede di movimenti speculativi di gigantesche dimensioni, frutto dell'euforia collettiva che

aveva alimentato l'intensa crescita dell'economia americana per tutti gli anni venti. Ogni giorno venivano scambiati cinque milioni

di titoli da più di un milione di giocatori fra piccoli risparmiatori e speculatori di professione. Questa tumultuosa attività borsistica

aveva determinato la diffusione di pratiche assai pericolose, in particolare quella dell'acquisto della azioni di credito, con il risultato

di alimentare la formazione di un “economia di carta” sempre più slegata dall'economia reale. Il piccolo risparmiatore chiedeva in

prestito al proprio mediatore di Borsa e per ottenerlo depositava in garanzia titoli per una somma equivalente al 30-50% circa

dell'ammontare del prestito. Il mediatore a sua volta contraeva prestiti a breve termine presso banche o altri istituti. Il cliente

calcolava di poter rivendicare le azioni acquistate a credito a un costo che avrebbe coperto le spese del prestito, e ciò infatti si

verificò fino all'ottobre del 1929. In caso di ribasso, il mediatore per conservarsi il credito presso le banche, gettava sul mercato i

titoli del cliente, ma queste vendite non facevano che accentuare il ribasso. Dopo le incertezze della primavera, l'indice borsistico

del “New York Times” , tra il 22 e il 23 ottobre cadde di quasi il 10% e il giorno successivo le azioni vendute al ribasso furono

13.000.000 La crisi travolse gli speculatori, i mediatori di Borsa, le banche, le imprese, ma anche un numero elevatissimo di piccoli

e medi risparmiatori, che si trovarono dall'oggi al domani sul lastrico. L'effetto della crisi sul piano economico fu immediato perché

l'espansione della società di massa e dei consumi collettivi che aveva caratterizzato gli anni venti era legata alle facili opportunità di

guadagno, che l'investimento azionario aveva consentito. La crisi bloccò la dinamica dei consumi, causando una gigantesca

sovrapproduzione che travolse l'intera economia. I prezzi all'ingrosso e al dettaglio crollarono, fallimenti e licenziamenti

raggiunsero cifre record.

Gli studiosi sono concordi nel ritenere che la causa strutturale del grande crollo fu l'eccesso di capacità produttiva: in sostanza, la

sovrapproduzione che era cresciuta insieme allo sviluppo. I fattori che lo avevano determinato erano stati diversi. Innanzitutto

l'enorme mole di investimenti fatti dai grandi oligopoli per rispondere a una crescita della domanda sul mercato interno e

internazionale, che aveva potuto contare sulla facilità di accesso al credito bancario. A questo fattore si era combinata la diffusione

dell'organizzazione scientifica del lavoro. L'uso di macchine e del sistema di produzione taylorista, con la scomposizione delle

mansioni e la semplificazione del lavoro, portò alle estreme conseguenze quel lungo processo di divisione del lavoro che era

iniziato nel Settecento. Questa trasformazione della produzione industriale favorì la contrazione dei costi di produzione, che si

riverberò sui prezzi accelerandone la riduzione proprio su beni di largo consumo. Inoltre, i nuovi sistemi di commercializzazione e

vendita dei prodotti, basati sulla pubblicità capillare, la vendita per corrispondenza e la rateizzazione dei pagamenti, contribuirono a

estendere la platea dei consumatori. Si venne dunque a creare per una serie di cause concomitanti una macchina industriale

minacciata dal rischio di produrre al di sopra delle reali capacità di assorbimento del mercato. Il crollo borsistico fece esplodere

questa contraddizione latente, perché la chiusura dei rubinetti da parte delle banche non solo provocò il fallimento di società e

imprese industriali, ma gettò sul lastrico chi aveva contratto debiti, causando una fortissima restrizione del mercato e un'ulteriore

caduta della produzione e dell'occupazione. Ma la crescita esponenziale della disoccupazione fu l'effetto di una scelta che venne

massa in atto dalla grande industria. Infatti, a differenza di quanto accadde nella crisi economica di fine secolo, quando la

sovrapproduzione si era scaricata sui prezzi e sui profitti, ora la reazione dei sistemi economici industrializzati all'eccesso di capacità

produttiva consistette nel contrarre la produzione per sostenere i prezzi. Questa scelta ebbe come conseguenza una caduta verticale

della produzione industriale e una crescita abnorme della disoccupazione. Queste non riguardarono il settore agricolo, dove la

caduta della domanda si tradusse in un crollo dei prezzi, che si risolse in una crisi irreversibile delle classe medie agricole. La forza

di queste tendenze strutturali del sistema economico non venne adeguatamente contrastata dall'azione del governo presieduto da

Hoover, che si limitò alle tradizionali politiche monetarie deflazioniste e solo dal 1931 mise in atto limitati interventi per sostenere

la produzione attraverso sgravi fiscali alle imprese e l'abbattimento del costo del denaro. Questi provvedimenti non riuscirono ad

arrestare la caduta della produzione. In sostanza, chi non perse il lavoro fu in grado di difendere il proprio reddito e quindi la

propria capacità di consumo, ma la massa di coloro che vennero espulsi dal processo produttivo fu talmente elevata da fare saltare

il meccanismo domanda/offerta su cui si era basata la crescita economica degli anni postbellici. Se le politiche di sostegno al

sistema industriale furono insufficienti, i provvedimenti presi in materia doganali contribuirono ad aggravare la crisi piuttosto che

ad alleviarla. La legge Smoot- Hawley che aumentava le tariffe protezionistiche ebbe l'effetto di deprimere gli scambi internazionali

e quindi la domanda globale. Infatti la decisione del governo americano produsse l'immediata reazione degli altri paese

industrializzati, che eressero barriere doganali nella convinzione eretta di proteggere l'industria nazionale dalla concorrenza esterna,

determinando un'acutizzazione della segmentazione del mercato mondiale in tanti mondi chiusi. Ad aggravare la paralisi di

commercio mondiale intervenne anche il collasso del sistema monetario internazionale- il gold exchange standard- determinato

dall'inarrestabile catena delle svalutazioni monetarie che travolse le transizioni internazionali. L'atto formale che decretò la fine del

gold exchange standard fu la decisione del governo inglese si svalutare nel 1931 la sterlina e di sganciarla dall'oro. Si trattava di fatto

di una svalutazione della moneta, messa in atto con l'intenzione di alleviare la crisi favorendo la competitività dei prodotti inglesi

sul mercato mondiale, che però si tradusse in ulteriore fattore di instabilità finanziaria. Le altre nazioni, per non far perdere

competitività alle loro merci sui mercati, risposero con nuove svalutazioni, con il risultato che nel 1933 il commercio mondiale si

era ridotto al 35% di quello del 1929.

9.1. LA GEOGRAFIA DELLA CRISI

Il declino dell'Europa successivo alla Grande Guerra accentuò non solo l'integrazione tra le due coste dell'Atlantico, ma determinò

una crescente dipendenza economica nei confronti degli Stati Uniti fatta di prestiti, di flussi di investimento, di esportazione di

tecnologie. Quando cominciò il riflusso delle esportazioni di capitali statunitensi in Europa il collasso fu inevitabile. Le

conseguenze più gravi si verificarono in Gran Bretagna e in Germania. In Gran Bretagna la congiuntura si aggravò rapidamente a

seguito della paralisi del commercio internazionale, che privò il paese di una delle sue fonti tradizionali di reddito e condusse la

sterlina alla svalutazione e il governo ad abbracciare politiche protezionistiche, abbandonando il dogma liberista. I paesi esportatori

come il Belgio, la Polonia e i paesi scandinavi vennero travolti dal collasso del commercio mondiale. Anche i nuovi paesi come

l'Australia, la Nuova Zelanda , il Cile e il Brasile, essendo subordinati agli investimenti americani e dipendenti dalla dinamiche del

commercio mo

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A.A. 2018-2019
30 pagine
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SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-STO/04 Storia contemporanea

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher SeQQa1996 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia contemporanea e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Bologna o del prof Tommasini Luigi.