Sociologia dei processi culturali e comunicativi - Appunti
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specializzazione crea senso di separatezza, un venir meno della capacità di sentirsi parte di una
comunità e di intrattenere significativi rapporti coi suoi membri.
Agli inizi del Novecento, infine, pensatori come Le Bon, Mosca, Pareto e Michels condividevano una
“psicologia delle folle” in cui la massa è totalmente passiva e manovrabile da parte dell'élite, che però
resta una parte di società che detiene i valori dell'otium, lontani dal negotium. Sono gli albori della
teoria “ipodermica”. Prima della teoria ipodermica che si svilupperà interno agli anni Trenta del
Novecento, vanno ricordati due ambiti di studio: la Scuola di Chicago e la Ricerca Amministrativa. Per
la prima si ricorda lo studio di Park (1922) in cui, seguendo l'etnometodologia di Simmel, si indagava
il ruolo di assimilatrice da parte della carta stampata in merito a immigrazione e integrazione di nuovi
soggetti nella società americana, oltre che della professionalità del giornalismo a confronto con la
propaganda. La seconda si basa invece quasi integralmente sullo studio di Lasswell (1927), tendente ad
una ricerca di tipo quantitativa, che avrebbe prevalso a differenza della precedente, di tipo qualitativo.
L
A TEORIA IPODERMICA
Negli inizi del Novecento le dittature europee ebbero la loro culla, ma il timore serio per la propaganda
politica si ebbe nel primo dopoguerra: la preoccupazione degli intellettuali a tal proposito portò
all'adozione di modelli quali, da un lato, il comportamentismo di Watson e Skinner, e, dall'altro, il
modello matematico-informazionale di Shannon e Weaver. Entrambi i modelli presuppongono una
schema semplice: S -> R. Ad uno stimolo deve corrispondere una risposta: i messaggi veicolati dai
media (soprattutto stampa e radio) sono potenti fattori di persuasione in grado di penetrare l'individuo –
indifeso – come farebbe un «ago ipodermico». Inoltre, secondo la cosiddetta magic bullet theory, i
messaggi sono ricevuti da tutti i membri della massa allo stesso identico modo.
I primi studi furono fatti intorno agli anni Trenta, con la nascita dei Payne Fund Studies (1929-1932).
I primissimi furono quelli di Bogardus (scala di distanza sociale per misurare i pregiudizi razziali) e
Thurstone (scala di intervalli per misurare qualsiasi tipo di atteggiamento), cui seguirono tre importanti
studi sul cinema.
Il primo è quello di Dale (1935) che calcola nel 1922 in 40 milioni i biglietti venduti a settimana, e nel
1929 nella stessa quantità gli spettatori minorenni nei cinema; il cinema hollywoodiano rappresenta
certamente la migliore possibilità di evasione per un pubblico sotto pressione geopolitica, ma Dale
riferisce che i temi sono perlopiù “crimine”, “sesso” e “amore” (75% dei casi), nonché alcool e tabacco
(vietati in quel periodo), delineando una situazione critica. Fu anche ineccepibile come indagine
(quantitativamente): 1500 film selezionati in dieci anni di ricerche.
Il secondo studio, sugli atteggiamenti degli individui nei confronti del cinema, è quello di Peterson &
Thurstone (1933). Analizzarono l'orientamento di bambini nei confronti di alcuni gruppi etnici, di
soggetti di diversa nazionalità e di questioni sociali (come la pena di morte), prima e dopo la visione di
un film. Riscontrarono un'influenza sui bambini, specie i più piccoli. E il mutamento d'atteggiamento
era più rapido all'aumentare del numero di film visti su uno stesso tema. La metodologia seguita nella
ricerca è da considerare all'avanguardia.
Il terzo studio è una pietra miliare della sociologia delle comunicazioni di massa. Riguarda gli effetti
sul comportamento quotidiano (giochi, sogni, stili di vita) e fu condotto da Blumer (1933), con criteri
metodologici – in questo caso – criticabili. Il cinema influenza, secondo Blumer, lo stile di vita degli
adolescenti e, prima ancora, la psiche dei bambini (proponendo soggetti nei quali identificarsi). In tal
modo Blumer supera il comportamentismo e punta alla funzione modellizzante dei media.
A superare il comportamentismo o, per meglio dire, la teoria ipodermica sarebbe, secondo Wolf, il
modello di Laswell (1948), che si proponeva come suo “perfezionamento”. Ma non va dimenticato che
il modello di Laswell, in realtà, ribadisce la passività del pubblico e la totale egemonia dell'emittente
nella comunicazione di massa. Laswell opera una riorganizzazione della teoria, specificando le cinque
“w” dell'atto comunicativo: «who says?, what in?, what channel to?, whom?, with what effects?».
Dunque:
I. ricerca sulle emittenti (che ha prodotto la sociologia delle professioni, da un lato, e la sociologia
del lavoro e dell'organizzazione, dall'altro),
II. analisi del contenuto (la metodologia di ricerca previde l'analisi degli slogan propagandistici
durante la festa del primo maggio in Unione Sovietica e l'analisi delle tecniche di persuasione
usate durante la prima guerra mondiale),
III. analisi del mezzo,
IV. analisi dell'audience,
V. analisi degli effetti.
Critiche al modello di Laswell non mancano. Wolf elenca le seguenti:
1) asimmetria della relazione emittente-destinatario (il processo comunicativo ha origine
solo nell'emittente, il ricevente non ha alcun ruolo se non come tale),
2) indipendenza dei ruoli (emittente e destinatario non entrano mai in contatto né
appartengono alla stessa compagine sociale e culturale),
3) intenzionalità della comunicazione (è sempre presente da parte dell'emittente, buona o
cattiva che sia).
L
A TEORIA DEGLI EFFETTI LIMITATI DEI MEDIA
Lazarsfeld è considerato il fondatore della moderna ricerca sociale empirica. Si può dire forse che con
lui si è passati da «effetti certi» a «certi effetti»: da “manipolazione” a “propaganda”, da “persuasione”
fino a “influenza”. La teoria dell'influenza personale nonché delle “variabili intervenienti” è anticipata
dagli studi di Roethlisberger & Dickson, di Cantril e di Stouffer.
Roethlisberger & Dickson (1939) condussero dei famosi esperimenti presso gli stabilimenti
Hawthorne della Western Electronic Company (Chicago). Cominciarono col valutare l'incidenza
dell'illuminazione sull'efficienza del lavoro e notarono che era nulla (la produttività restava costante al
variare della luminosità); scavando più a fondo, introducendo operaie coscienti dell'esperimento e
tenute sotto osservazione, si scoprì che esistono delle regole informali costruite sulle “opinioni di
gruppo”:
• se lavori troppo sei uno “sgobbone”;
• se lavori poco sei un “perditempo”;
• non devi mai fare “la spia”;
• non devi calarti nel tuo ruolo con troppa rigidità.
Si scoprì dunque che è fondamentale l'appartenenza ad un gruppo nel determinare l'atteggiamento, in
questo caso, lavorativo.
In The invasion from Mars: A study in the psycology of Panic, Cantril (1940) analizzò le reazioni di
panico all'ascolto radiofonico di Orson Welles in La guerra dei mondi mandato in onda dalla CBS nel
1938. Cantril in primo luogo colse i fattori di “credibilità” del mezzo radiofonico nel:
a) tono realistico,
b) l'affidabilità del mezzo,
c) l'uso di esperti,
d) l'uso di località realmente esistenti,
e) la sintonizzazione dall'inizio del programma oppure a programma già iniziato.
In secondo luogo, i messaggi, fu rilevato, non sono ricevuti tutti allo stesso modo da tutti: esiste una
specifica ed individuale «abilità critica» del pubblico, presente solo nei primi due “tipi” di
radioascoltatori che Cantril ha ipotizzato:
1. soggetti in grado di controllare la coerenza “interna” del programma;
2. soggetti che avevano attivati controlli “esterni” quale la visione di giornali in proposito;
3. soggetti che pur effettuando controlli esterni ha creduto in un qualche fatto straordinario;
4. soggetti che hanno creduto integralmente alla radio e non hanno effettuato alcun controllo.
L'abilità critica si correla, inoltre, in positivo, al grado d'istruzione e, in negativo, alla religiosità dei
soggetti.
Nel terzo studio, The American Soldier, a cura di Stouffer (1949) si indagò sui soldati americani
coinvolti nella seconda guerra mondiale. Insieme al lavoro di Shils (1950), si scoprì la rilevanza del
“gruppo primario” come incentivo nel compiere determinati obblighi: la solidarietà col gruppo fornisce
motivazione. Inoltre si colse il concetto di “privazione relativa” per cui è il gruppo a fornire lo
“standard” cui aspirare (il soldato del reparto con minori possibilità di promozioni desidera di più la
promozione).
I lavori di Lazarsfeld sono essenzialmente due: The People's Choice e Personal Influence.
Il primo è di Lazarsfeld, Berelson & Gaudet (1948) sulle elezioni presidenziali del 1940. Il secondo è
di Katz & Lazarsfeld (1955) sul “leader d'opinione” (a Decatur, per mezzo di questionari a 800
donne). Entrambi i lavori trattano dell'influenza personale nelle comunicazioni di massa. Cosa
determina questa rilevanza del contatto personale? I seguenti fattori:
1) i contatti personali sono casuali e non intenzionali, «l'influenza personale è più
pervasiva e meno auto-selettiva di quanto lo siano i media»;
2) i contatti personali sono flessibili, tengono infatti conto della reazione immediata
dell'interlocutore, cosa impossibile coi media;
3) i contatti personali offrono una “ricompensa” immediata se si condivide un'opinione, o
al contrario l'emarginazione;
4) infine nei contatti personali hanno un ruolo importante la fiducia e il prestigio conferito
ad una persona, i cosiddetti opinion leaders.
Nasce così l'idea del «flusso a due fasi della comunicazione» secondo cui tra radio e stampa, da un lato,
e i settori meno attivi della popolazione, dall'altro, stanno i leaders d'opinione, che in genere sono
molto più esposti ai mass media.
Inoltre Katz & Lazarsfeld differenziarono i tipi di leadership. Essa può essere:
A) “orizzontale”, un'influenza che si esercita tra simili (i giovani sugli anziani per il cinema,
viceversa per gli acquisti domestici);
B) “verticale”, un'influenza tra soggetti di diversa estrazione sociale (generalmente top-down).
Un'ulteriore differenziazione fa Merton (1949) tra leader d'opinione “locale” e “cosmopolita”:
• il primo ha sempre vissuto nella comunità, si interessa di aspetti di vita quotidiana ed è
conosciuto (influenzando su aree diverse si considera “polimorfico”),
• il secondo viene dall'esterno, ha pochi legami e consuma media più elevati e specialistici (è
percepito come molto competente su aree ristrette e dunque si dice “monomorfico”).
Non mancarono, comunque, le critiche alla teoria di Lazarsfeld. In particolare tre. Van Den Ban (1969)
la smentì – non convincendo molto per i metodi – dicendo che i leaders d'opinione:
1) non sono più esposti ai media rispetto agli altri,
2) hanno un consumo mediale differenziato (più stampa che radio),
3) non appartengono alla stessa categoria sociale degli influenzati.
Più solide le critiche di Robinson (1976) che introducono soggetti “che non discutono”, né influenzano
né sono influenzati. Infine Greenberg (1964) precisa che solo gli argomenti detti “di nicchia” si
diffondono perlopiù tramite contatti personali, dacché le notizie più generaliste (l'assassinio di
Kennedy, ad esempio) sono diffuse più che altro dai media.
Preso atto della concezione formulata da Lang & Lang (1959) della «campagna permanente» (il clima
mediale dell'opinione va tenuto in costante osservazione, non solo durante la campagna elettorale, ma
anche tra una ed un'altra), la teoria degli effetti limitati è sostenuta – infine – da due studi importanti:
quello di Hovland e quello di Klapper. Essendo infatti possibile distinguere i fattori di mediazione in
quelli “rispetto al messaggio” e quelli “rispetto al pubblico”, Hovland si è occupato dei primi, Klapper
degli ultimi.
Gli studi di Hovland in cui egli si propone di capire gli elementi che facilitano o ostacolano l'efficacia
dei messaggi persuasori sono due: Hovland, Lumsdaine & Sheffield (1949) e Hovland, Janis &
Kelley (1953). Tali elementi, emersi dalle rilevazioni eseguite anche in merito alla visione di film
patriottici, sono i seguenti:
A) credibilità della fonte (il testimonial);
B) ordine e completezza delle argomentazioni (in testa o in coda l'affermazione che si vuol
sostenere?);
C) esplicitazione delle conclusioni (contrari i più istruiti, favorevoli i meno).
La ricerca di Hovland lascia comunque senza risposta molti interrogativi sulla rilevanza delle
differenze individuali, quali l'istruzione, l'interesse, etc.
Per quanto invece concerne il pubblico, il ricco e classico volume di Klapper (1960), partendo dagli
studi di Lazarsfeld, Berelson & Gaudet sulle presidenziali del 1940 ed eseguendo un nuovo
esperimento durante la campagna del 1954 di sensibilizzazione a favore dell'industria petrolifera nel
Missouri, afferma che la comunicazione di massa «agisce assai più frequentemente come causa di
rafforzamento che non di modificazione». Il pubblico, infatti, si sottrae a campagne che non condivide,
attuando dei precisi fenomeni inconsci (i “meccanismi della selettività”), rilevati da vari studi:
I. l'«esposizione selettiva» (Lazarsfeld, Berelson & Gaudet, 1948 e Cartwright, 1949), per cui un
soggetto si espone “selettivamente” solo alla comunicazione del candidato preferito, evitando
quella degli altri candidati;
II. la «dissonanza cognitiva» (Festinger, 1963), per cui un soggetto è più propenso ad esporsi ad un
messaggio che riduce la discrepanza tra l'effettivo comportamento e ciò in cui crede (il fumatore
non gradisce campagne antifumo preferendo documenti che sminuiscono i danni del fumo);
III. la «percezione selettiva» (Allport & Postman, 1945 e altri studi), per cui il messaggio viene
distorto nell'interpretazione fino ad assumere i toni del sistema valoriale del soggetto;
IV. la «decodifica aberrante» (Eco & Fabbri, 1978 e Hall, 1980), per cui certi soggetti (ad esempio,
con forti pregiudizi razziali) possono distorcere più di altri la lettura dei medesimi documenti;
V. la «memorizzazione selettiva» (Klapper, 1960), per cui si costruisce un ricordo “depurato” dalla
presenza di eventuali fonti di disturbo per il soggetto;
VI. l'«effetto Bartlett» (Bartlett, 1932), per cui il soggetto memorizza, nel tempo, solo gli aspetti più
affini al proprio sistema di valori.
Inoltre, Klapper chiarisce che gli effetti delle comunicazioni di massa sono davvero difficili da
operazionalizzare, comunque mai diretti.
I L FUNZIONALISMO
«Nel funzionalismo, la società è concepita come un insieme di parti interconnesse, nel quale nessuna
parte può essere compresa se isolata dalle altre». Parsons (1971) parla di “imperativi funzionali” a
proposito delle istituzioni atte a mantenere l'equilibrio del sistema sociale. Essi sono racchiusi nello
schema detto AGIL (Adaptation, Goal attainment, Integration, Latency of structure):
1. adattamento all'ambiente (assicurare e distribuire le risorse necessarie),
2. raggiungimento di un fine (utilizzare le risorse per delle necessità, in ordine gerarchico),
3. integrazione delle varie parti (mantenere unità e funzionalità dell'insieme),
4. mantenimento della struttura latente – e gestione delle tensioni (verificare sempre la struttura di
valori condivisi – e risolvere eventuali squilibri).
Il ruolo dei media è di soddisfare il bisogno di mantenere i valori sociali, rinforzando i modelli di
comportamento esistenti.
Secondo Merton (1949) non tutte le istituzioni sono funzionali alla società, esistono bensì delle
“disfunzioni” che riducono il grado di adattamento del sistema (per esempio, la burocrazia, quando
applicata con eccessivo rigore), tenendo in larga considerazione anche e soprattutto le conseguenze di
tale funzione/disfunzione, chiedendosi «funzionale o disfunzionale rispetto a chi?»: così Merton mette
in crisi la concezione “conservatrice” funzionalista di una società compatta e agente sempre come un
tutt'uno. Esistono persino conseguenze inattese (“funzioni latenti”), involontarie e dunque neanche
riconosciute come tali; non solo quelle programmate e volontarie (“funzioni manifeste”).
Aggiunge Wright (1960) che i media svolgono dei peculiari ruoli:
1) rispetto al sistema sociale, producono
a) funzioni di
i) allertamento,
ii) pubblicizzazione (strumentale, in questo caso)
b) disfunzioni quali
i) diffusione indiscriminata di notizie,
ii) diffusione di panico;
2) rispetto agli individui, producono
a) funzioni di
i) controllo sull'ambiente (con diffusione di notizie) [ricerche di Berelson (1949) e
Mondak (1995) su scioperi di giornalisti],
ii) attribuzione di prestigio ai più informati,
iii) rafforzamento delle norme sociali (moralizzazione),
b) disfunzioni quali
i) eccesso di informazione che comporta isolamento («disfunzione narcotizzante»), ossia
un falso dominio dell'ambiente.
In questo contesto nasce la teoria detta «degli usi e delle gratificazioni», secondo cui gli individui si
rivolgono ai media spinti dai loro bisogni per ottenere gratificazioni, concependo dunque la relazione
media-spettatore in maniera diversa rispetto a prima: i soggetti non sono passivi ma attivi, alla ricerca
dei media.
Un primo approccio fu offerto da Klapper (1960) che distinse le categorie di uso dei media in due:
A. funzioni “semplici” come
I. offerta di relax,
II. stimolazione dell'immaginazione,
III. interazione sostitutiva (in casi di solitudine, si gode di una “voce in casa”),
IV. creazione di un terreno comune (condivisione del consumo di un prodotto mediale);
B. funzioni “complesse” come
I. distensione emotiva (immedesimandosi nel programma mediale),
II. scuola di vita (riprende il classico studio di Blumer del 1933).
L'approccio “maturo” è invece offerto da Katz, Blumler & Gurevitch (1974) pur condividendo col
precedente la metodologia qualitativa (interviste con domande aperte, alcun interesse al rapporto tra le
gratificazioni cercate e le origini socio-psicologiche del bisogno da soddisfare) che, essendo tale, non
permette di trarre risultati ben individuabili. Viene spiegato però che esistono dei legami tra fattori
sociali e bisogni soddisfatti:
1. il consumo mediale può allentare la tensione sociale,
2. la situazione sociale mette al corrente di temi che i media possono trattare,
3. i media soddisfano vicariamente dei bisogni che la situazione sociale non è in grado di
soddisfare,
4. i prodotti mediali rinforzano i valori che la situazione sociale determina,
5. per poter sostenere la propria appartenenza ad un gruppo, gli individui sono tenuti a
monitorare costantemente certi materiali mediali divenuti familiari per mezzo della situazione
sociale.
Viene specificato inoltre che, assodato che esistono delle “alternative funzionali” (la possibilità per il
consumatore mediale di disporre sempre di diversi mezzi mediali), diversi bisogni sono soddisfatti da
media diversi, poiché ogni mezzo possiede specifiche qualità.
Quest'aspetto era stato discusso già nel lavoro di Katz, Gurevitch & Haas (1973) dopo aver effettuato
una ricerca in Israele durante la guerra del Kippur: emerse una vera e propria “divisione del lavoro” tra
i media, secondo cui cinema e libri soddisfacevano bisogni legati all'autogratificazione, mentre
quotidiani, televisione e radio bisogni di integrazione sociale. Gli studiosi parlano infatti di cinque
classi di bisogni che i media sono in grado di soddisfare:
1. cognitivi;
2. affettivi-estetici;
3. integrativi a livello della personalità, per
a. rassicurazione,
b. status,
c. aumento della credibilità;
4. integrativi a livello sociale (come il rafforzamento di rapporti interpersonali);
5. di evasione (allentamento della tensione).
L'approccio presenta pro e contra. Da un lato c'è un rovesciamento di prospettiva, in base alla quale:
l'audience è attiva,
il sistema dei media compete con altre fonti per la soddisfazione dei bisogni (alternative
funzionali),
il comportamento mediale è intenzionale e motivato,
molti fattori intervengono nella determinazione del comportamento mediale,
non sempre gli individui sono influenzati più dalle persone che dai media.
D'altro canto, però, esistono evidenti limiti:
1) si ignora il “consumo rituale” dei media (estraneo alla logica di questo approccio),
2) dubbia esistenza delle alternative funzionali,
3) non si considerano i rapporti tra i sistemi coinvolti, focalizzandosi solo sull'individuo.
L
E TEORIE CRITICA E CULTUROLOGICA
Una contrapposizione classica è quella che vede, da un lato, la cosiddetta “ricerca amministrativa” di
fine anni Venti, che abbiamo visto adottare un metodo quantitativo e, dall'altro, la teoria cosiddetta
“critica” che, sì, nasce nel 1923 con le teorie della Scuola di Francoforte, composta da filosofi come
Marcuse, Fromm, Benjamin, Adorno e Horkheimer, ma che esporrà le proprie tesi più solide soltanto
intorno alla fine degli anni Cinquanta del Novecento. Essi contestano al marxismo di «ridurre troppo
semplicemente la cultura e l'arte all'economia». In particolare Adorno e Horkheimer (1947) studiano
la nascita e l'affermazione dell'«industria culturale» partendo dal “critico” presupposto che «film e
radio non hanno più bisogno di spacciarsi per arte. La verità che non sono altro che affari, serve loro da
ideologia, che dovrebbe legittimare gli scarti che producono volutamente. Essi si auto-definiscono
industrie, e le cifre pubblicate dei redditi dei loro direttori generali troncano ogni dubbio circa la
necessità sociale dei loro prodotti». In questo sistema, governato da questi “direttori generali”,
l'autonomia del consumatore non esiste, alla stregua – quasi – della concezione laswelliana della teoria
ipodermica. Viene indotto infatti un “consumo distratto” (l'easy listening) che punta alla mediocrità e
all'«inerzia intellettuale», ricorrendo all'uso dello “stereotipo”, da cui la nascita del “genere”, etichetta
di un prodotto che al tempo stesso lo semplifica eccessivamente ma lo rende più facilmente
rintracciabile. Per i due filosofi il genere resta, però, un emblema della manipolazione del pubblico da
parte dell'industria culturale, della cosiddetta “pseudo-individualità”.
La teoria critica è a sua volta criticabile in quanto, metodologicamente, rifiuta la ricerca empirica sui
soggetti e non presta attenzione alla classiche problematiche della comunicazione mediale (audience,
modalità della fruizione, effetti, etc.), risultando artificiosa e astratta.
Si sottopone alle stesse critiche la teoria “culturologica” condotta soprattutto da Morin (1962). Egli
conia il termine “mass media” (neologismo anglo-latino) facendo emergere l'«uomo dei consumi».
Critica la standardizzazione dei grandi temi romanzeschi e la riduzione di «archetipi in stereotipi». La
cultura di massa diviene “cultura del loisir”, ossia dello svago non solo nel tempo libero ma come
consumo dei prodotti, facendo sì che la vita reale diventi subalterna a quella offerta dai prodotti di
massa, indebolendo – tra l'altro – tutte le istituzioni. Le critiche a tale approccio si fanno esplicite con
Bourdieu & Passeron (1963), accusandolo di essere catastrofico, non sistematico (senza dati, con
affermazioni indimostrabili) e metafisico.
I «C S »
ULTURAL TUDIES
Negli anni Cinquanta e Sessanta nasce un movimento di studi intorno al Centre for Contemporary
Cultural Studies a Birmingham, ad opera di diversi autori. Sulle orme della Scuola di Chicago,
l'interesse sociologico si concentra sulla vita quotidiana degli individui. Lo studio di Hoggart (1958)
approfondisce per la prima volta i prodotti culturali della letteratura (musica, giornali, periodici, fumetti
e fiction popolare). Williams (1974) si sofferma invece sulla televisione, elaborando il concetto di
“flusso” secondo cui la sequenza dei programmi televisivi sarebbe talmente omologata da apparire
come un tutt'uno. A questo proposito, un importante studio è quello di Fiske (1990) che, dopo aver
chiarito il termine “codice”, distingue efficacemente i codici utilizzati dai media in due classi:
1. broadcast, che
a) sono di massa,
b) sono semplici,
c) non richiedono educazione per essere compresi,
d) sono orientati dalla comunità;
2. narrowcast, che invece
a) sono più definiti,
b) hanno audience più limitata,
c) richiedono apprendimento,
d) sono orientati alla persona,
e) possono conferire status.
Su queste basi, Eco & Fabbri (1978) formulano un modello detto “semiotico-informazionale” teso a
superare quello di Shannon & Weaver della teoria comportamentista, con l'introduzione di “codici” e
“sottocodici”. In questo modo il messaggio viene ricevuto prima sotto forma di significante e solo in un
secondo momento, con l'elaborazione di codici e sottocodici, come significato da parte del ricevente. Il
modello conferisce notevole importanza all'attribuzione del significato al messaggio pervenuto come
significante. Arricchiscono tale modello, in seguito, con un altro, quello “semiotico-testuale”, secondo
il quale i destinatari:
a) non ricevono messaggi singoli individualmente riconoscibili come tali, ma solamente
“insiemi testuali”;
b) ricorrono a “pratiche testuali” (e non a codici riconoscibili) per decifrare i messaggi;
c) non ricevono mai un solo messaggio ma molti, sia sincronicamente che
diacronicamente.
La “competenza testuale” si forma solo nelle vesti di consumatore mediale, dunque. Ma possono
verificarsi dei casi di “decodifica aberrante” (cui si è già accennato), in particolare:
1. incomprensione (rifiuto) del messaggio per carenza di codice,
2. incomprensione del messaggio per disparità di codici (se ne ha conoscenza “connotativa” se del
messaggio si coglie il significato primario ma gli si attribuisce connotazione diversa
dall'originale, oppure “denotativa” quando si conosce male il significato del termine),
3. incomprensione del messaggio per interferenze circostanziali (esigenze in conflitto conducono
alla distorsione del messaggio per fargli assumere la connotazione valoriale favorita),
4. rifiuto del messaggio per delegittimazione dell'emittente (è possibile una «guerriglia
semiologica»).
Hall (1980) è lo studioso di maggior spicco e formula invece il modello detto “encoding-decoding”.
Per Hall il sistema dei media assolve per lo più tre funzioni:
1. offerta selettiva di costruzione sociale,
2. visibilità di un'apparente pluralità di situazioni della vita sociale,
3. organizzazione e gestione dell'intera società.
I media, secondo Hall, provvedono dunque al mantenimento dell'ordine sociale dominante; e per fare
ciò è necessaria la presenza di un codice, a sua volta dominante o “egemonico”, in grado di fornire la
“lettura preferita” dei messaggi. Esistono infatti due tipi di codice:
A. il “codice egemonico”, che
I. riproduce l'intero universo dei significati che la società esprime,
II. non necessita di legittimazione,
III. dunque rappresenta il punto di vista dominante (naturale e scontato per tutti);
B. il “codice professionale”, che invece
I. accentua i caratteri della professionalità,
II. mantiene sullo sfondo il codice dominante.
Hall ipotizza nel suo modello tre modalità di decodifica:
1. “egemonica” o “preferita”, in base alla quale lo spettatore “sta al gioco” leggendo il
messaggio nella sua interezza decodificandolo con lo stesso codice della sorgente;
2. “negoziata”, quando lo spettatore decodifica in modo dominante, per poi, però, farne un
uso diverso “negoziando il significato” in base alle proprie necessità concrete;
3. “di opposizione”, quando il codice dominante viene compreso ma vi viene contrapposto
un quadro di riferimento esterno ad esso.
Viene restituito così pieno potere allo spettatore. In particolare, della televisione si è occupato Lull
(1980) individuando due dimensioni d'uso rispetto al pubblico:
I. dimensione “strutturale”, costituita da
A. uso ambientale (rumore di fondo),
B. uso regolativo (d'accompagnamento, incidendo anche sulle conversazioni);
II. dimensione “relazionale”, comprendente
A. occasioni di comunicazione (creazione di un terreno comune di interazione),
B. appartenenza al (o esclusione dal) gruppo,
C. apprendimento di valori e modelli,
D. competenza e dominio (con conseguente assunzione di determinati ruoli in famiglia).
Netti sono i punti di contatto con l'analisi fatta dall'approccio “degli usi e delle gratificazioni”,
differendo però da questo per due aspetti: in primo luogo lì si studiavano usi privati, qui sociali; in
secondo luogo si analizzano in questo caso vari momenti di comportamento dell'audience stessa, di
discussioni di queste stesse persone sugli usi della televisione.
L '«A S »
A TEORIA DELL GENDA ETTING
La teoria nasce con Cohen (1963) quando afferma che «la stampa può nella maggior parte dei casi non
essere capace di suggerire alle persone cosa pensare, ma essa ha un potere sorprendente nel suggerire ai
propri lettori intorno a cosa pensare». Dopo circa dieci anni si ha la prima ricerca empirica, condotta da
McCombs & Shaw (1972), che rileva il ruolo dei media in generale nell'organizzare l'orizzonte
tematico del pubblico (definita “esperienza di second-hand” in confronto al riscontro diretto con la
notizia). L'indagine riguardava la campagna per le elezioni presidenziali del 1968 presso Chapel Hill, e
fu distinta in due fasi: nella prima si intervistarono 100 soggetti prescelti (in cerca di orientamento
politico), nella seconda si registrarono gli argomenti presenti nei media della zona; confrontando i temi
dei media con quelli del pubblico, trassero le conclusioni intese non come “prova”, ma perlomeno
come “indice” della bontà della teoria. Successive ricerche chiarirono, nel caso di Zucher (1978), che
può esserci una sostanziale disattenzione verso la natura dei temi, e, nel caso di Eyal (1981), che ci
sono temi più “coinvolgenti” di altri. Lang & Lang (1981) a questo proposito parlano di “soglia alta”
per indicare quei temi che risultano lontani dalla vita quotidiana dei soggetti (a differenza di quelli a
“soglia bassa”) e che per questo stentano ad entrare nell'agenda del pubblico. McCombs (1976) precisa
inoltre che la televisione agisce spesso come “spot-lighting” rispetto alla stampa, ovvero riorganizza i
temi che la stampa “mette in agenda”. E' bene distinguere, a questo punto, l'agenda “del pubblico”
dall'agenda “dei media”. La prima può essere:
I. intrapersonale (i temi più importanti per il paese secondo il soggetto),
II. interpersonale (i temi di cui si parla tra i conoscenti e nella famiglia del soggetto)
III. relativa alla percezione del clima d'opinione (i temi che secondo il soggetto sono rilevanti per
l'opinione pubblica).
La seconda invece è caratterizzata dalla competizione tra i temi, nell'arena dei media, per conquistare
l'attenzione del pubblico (pur esistendo temi che non possono essere in competizione, data la loro
rilevanza a prescindere da qualsiasi fattore), e si costruisce in base a:
1) la realtà esterna (un tema può attrarre se coinvolge situazioni realmente esistenti o incombenti),
2) le regole giornalistiche (i media possono sminuire o amplificare aspetti di una notizia, nonché
selezionarle),
3) i rapporti di potere tra i vari soggetti.
Quest'ultimo punto viene ampiamente trattato da Reese (1991) che distingue quattro casi in cui il
potere (o la sua assenza) dei media (il giornalismo tout court) incontra il potere (o la sua assenza) della
fonte (generalmente politica):
I. alto potere della fonte (politico autorevole) e alto potere dei media (giornale autorevole) ->
situazione ottimale;
II. alto potere della fonte e basso potere dei media -> il politico manipola il mezzo;
III. basso potere della fonte e alto potere dei media -> l'emittente strumentalizza il pensiero della
fonte;
IV. basso potere della fonte e basso potere dei media -> “stampa alternativa”.
Non a caso, una ricerca condotta da Sigal (1973) sul Washington Post e sul New York Times aveva
messo in luce che il 70% delle fonti giornalistiche sono di origine governativa, contro il 17% di altro
tipo. Si rileva dunque una prossimità tra sistema giornalistico e sistema politico che induce al sospetto.
Entman (1989) spiega il fenomeno con l'analogia del mercato, secondo cui l'interesse dei giornalisti di
ricorrere a fonti sicure è bilanciato dall'interesse dei politici a occupare spazio mediale. Entman parla
anche di “news slant” riferendosi al fatto che i giornalisti spesso ricorrono ad opinioni espresse da
politici per trattare un tema.
Ricordando che il frame di cui parla Goffmann è dato dalle strutture cognitive che guidano
inconsciamente l'individuo su ciò che va notato di rilevante per la propria situazione sociale, ciò che in
definitiva avviene con il fenomeno dell'agenda setting è, in termini goffmanniani, la costruzione e il
passaggio continuo del frame, per mezzo del quale si tratta un particolare tema, dai giornalisti verso il
pubblico. Il tema può, infatti, essere definito come un oggetto con particolari “attributi” che «ne
completano l'immagine»; variando gli attributi di ciascun oggetto, i frames dei giornalisti e del
pubblico fanno sì che si focalizzi l'attenzione su alcuni attributi distogliendola da altri. Il modo in cui i
frames utilizzati dai media influenzano l'agenda del pubblico è definito il “secondo livello” dell'agenda
setting.
L « »
A TEORIA DELLA SPIRALE DEL SILENZIO
La teoria sviluppata nel corso di vari anni (perlomeno tra il 1965 e il 1991) da Noelle-Neumann
rappresenta la prima reazione, da parte degli studiosi di media, al predominio del paradigma degli
“effetti limitati”. Noelle-Neumann (1991), ricordando le campagne elettorali tedesche tra il 1965 e il
1972, distingue in via preliminare due tipologie di opinione pubblica:
I. concezione “normativa” dell'opinione pubblica,
II. concezione “integrativa” dell'opinione pubblica.
Posta la prima come, se così si può dire, “gruppo di controllo”, la seconda si caratterizza per la
pressione a conformarsi e per la paura dell'isolamento sociale che muove l'individuo. E' questa seconda
concezione infatti a spiegare la formazione dell'opinione pubblica, intesa come «l'interazione tra il
monitoraggio che l'individuo compie sull'ambiente sociale e gli atteggiamenti e i comportamenti
dell'individuo stesso»: tale paura di isolamento induce gli individui a valutare costantemente il clima
d'opinione, che a sua volta influisce sul comportamento pubblico, in particolare limitando la libertà di
esprimere opinioni. Il fatto che le persone sono in grado di stimare «quanto sono forti le posizioni
all'interno del dibattito pubblico» viene chiamato “competenza quasi statistica”, mentre effettuare
valutazioni distorte del clima d'opinione (per esempio quando si tiene conto più della notizia diffusa
tramite i media che non di quella ottenuta per via diretta) si parla di “ignoranza pluralistica”. Può
verificarsi anche il caso di un “doppio clima d'opinione”: se chi segue il dibattito (politico) pubblico
perlopiù attraverso i media (generalmente la televisione) si fa un'idea molto diversa rispetto a chi si
tiene informato aldilà del mezzo di comunicazione di massa, si verifica quanto accadde in occasione
delle elezioni in Germania nel 1976, che videro affermarsi la SPD a danno della CDU/CSU,
effettuando, secondo i sondaggi, un rovesciamento di posizione di circa 20 punti. I media – in
particolare la televisione – stimolano dunque l’emersione di posizioni maggioritarie attraverso tre
meccanismi:
1. “consonanza”, ossia la presenza di argomentazioni molto simili all'interno della
programmazione televisiva sugli stessi temi (un consumo mediale che si protrae per anni);
2. “cumulatività”, ossia la periodica ripetizione dei medesimi temi (stabilità dell'offerta
mediale);
3. “abbattimento della selettività”, ossia il fatto che sia impossibile parlare ancora di
“percezione selettiva” quando il mezzo televisivo è talmente diffuso e onnipresente.
Tale “spostamento dell’opinione pubblica” può avvenire anche in altri due modi:
a) coloro che hanno un punto di vista ritenuto o percepito minoritario sono maggiormente
disposti ad esprimersi se sono supportati dai media;
b) la presenza intensa e l’esplicitazione di un determinato punto di vista dei media fornisce, a
coloro che sposano tale punto di vista, il vantaggio di essere meglio equipaggiati
nell’esprimerlo e difenderlo nelle interazioni sociali (“funzione di articolazione”).
La teoria di Noelle-Neumann si espone, infine, a diverse critiche: innanzitutto è difficile affermare che
un paese democratico metta a tacere, per mezzo dei media, una parte delle posizioni in merito ad un
tema; in secondo luogo, l'ubiquità del mezzo televisivo non implica, secondo Losito (1994), l'assenza
di processi selettivi. Agli occhi di Moscovici (1991) risulta una macchinazione orwelliana presentare in
maniera troppo semplice la cumulatività e la consonanza del mezzo televisivo.
L « »
A TEORIA DELLA COLTIVAZIONE
Il ruolo svolto dalla televisione nell'era delle comunicazioni di massa è oggetto di indagine anche da
parte della teoria della “coltivazione”, il cui ispiratore è Gerbner. Oltre a lui, alcuni studiosi hanno
conferito alla televisione le funzioni “affabulatoria”, per Casetti & Di Chio (1998), e “bardica”, per
Fiske & Hartley (1978). Si distinguono in quanto la prima è legata alla natura orale del discorso
televisivo, che racconta e propone storie in grado di soddisfare il bisogno di evasione dello spettatore,
stimolando la sua immaginazione, mentre la seconda sottolinea la capacità della televisione di
raccontare specificamente storie della comunità, tratte dalla realtà sociale. Secondo gli ultimi due
studiosi, il ruolo bardico della televisione consiste nel:
l'individuare la realtà culturale,
coinvolgere i membri della cultura nel sistema di valori dominante (rafforzando l'ideologia
sottesa),
celebrare e giustificare le azioni dei singoli rappresentati nei confronti del mondo esterno,
rassicurare la cultura in generale dell'adeguatezza pratica dell'ideologia sottesa,
svelare inadeguatezze pratiche della cultura per dar il via a nuove posizioni ideologiche,
convincere il destinatario che il suo status e la sua identità sono garantiti dalla cultura stessa,
trasmettere appartenenza culturale (sicurezza e coinvolgimento).
In definitiva, secondo Gerbner & al. (2002) la televisione è un sistema centralizzato di “storytelling”.
Gerbner, Signorielli & Morgan (1990) diedero vita al progetto di ricerca Cultural Indicators che fu
condotto negli Stati Uniti dal 1967 al 1974 (e oltre), centrato sul mezzo televisivo. La ricerca nacque
con lo scopo di indagare la natura della violenza provocata da certi programmi televisivi con un
monitoraggio a lungo termine; poi furono affrontati altri svariati temi nel corso degli anni.
La Cultivation Analysis inizia con l'identificazione e la valutazione dei modelli più stabili e ricorrenti
nel contenuto televisivo, per poi tentare di accertare se coloro che passano più tempo davanti alla tv (i
cosiddetti “consumatori forti”, fino a circa sette ore di esposizione al giorno) tendano a percepire la
realtà in un modo che riflette i messaggi o meno, rispetto ai consumatori “deboli” (meno di due ore al
giorno). Si costruisce così un “differenziale di coltivazione” frutto della sottrazione delle risposte dei
deboli da quelle dei forti. I dati di una ricerca mostrano, ad esempio, che, in una serata televisiva:
• sono più i maschi vittime rispetto a quelli che commettono violenza (11 contro 10),
• sono molte di più le donne vittime che quelle che commettono violenza (16 contro 10),
• il rapporto aumenta nel caso di donne straniere e minoranze (22 contro 10),
• tra i gruppi con maggior probabilità di subire violenza, solo in un caso è un uomo anziano, per
lo più si tratta di donne.
Si è sottolineato che donne, giovani, anziani e alcune minoranze «hanno maggiori probabilità di essere
proposte come vittime dal mezzo televisivo», e i consumatori forti appartenente ad uno di questi gruppi
«esprimono un forte senso di apprensione e sfiducia per il mondo reale» rispetto agli altri gruppi.
Inoltre, i fruitori deboli tendono ad essere esposti a più fonti di informazione, al contrario dei forti che
si limitano alla fonte televisiva. Ad incidere sul grado di fruizione sono anche fattori quali il sesso, il
reddito, l'istruzione, l'occupazione, la razza, l'uso del tempo, l'isolamento sociale e l'integrazione.
Aspetto rilevante dell'analisi è che si interessa non dei macroscopici cambiamenti delle prospettive
comuni, quanto invece delle modifiche lievi ma reiterate, pervasive, nella “coltivazione” di tali
prospettive: «coltivazione dunque significa il saldo arroccamento sugli orientamenti più diffusi, nella
maggior parte dei casi, e la sistematica ma alquanto impercettibile modificazione dei precedenti
orientamenti, negli altri; in altre parole: conferma per i credenti e indottrinamento per i devianti».
L'analisi della coltivazione viene descritta come un terzo del progetto, che comprende infatti anche le
analisi tanto dei processi istituzionali sottesi alla produzione del contenuto dei media, quanto delle
immagini nel contenuto dei media. Infatti «la tv è divenuta uno dei più comuni e costanti ambienti
formativi della nostra nazione (e in misura crescente del mondo)... è la più grande distributrice di
immagini e modella il mainstream della nostra cultura popolare». Per “mainstream” si intende quel
flusso di idee, sensazioni e atteggiamenti che caratterizza, spesso inconsapevolmente, la cultura
dominante in e di una società. «Tale corrente predominante non rappresenta semplicemente la somma
delle altre; piuttosto è una sorta di corrente principale più generale e stabile (anche se non statica), che
rappresenta le dimensioni più ampie e comuni di significati e affermazioni condivisi», determinando
tutte le altre “correnti”. Ebbene la televisione va considerata, secondo questo programma di ricerca,
come «l'espressione primaria del mainstream della nostra cultura», dacché essa «coltiva prospettive
comuni».
Oltre alle difficoltà rilevate dagli stessi autori nel capire con assoluta precisione gli effetti della
coltivazione, a causa del fatto che un consumatore debole, o persino un dichiarato “non-consumatore”,
può essere comunque informato da uno forte rendendo impossibile la rilevazione della reale incidenza
del messaggio televisivo, non mancano le polemiche nei confronti di tale programma. Su tutte, quella
di Hughes (1980), che critica l'assegnazione da parte di Gerbner dell'etichetta di variabile indipendente
all'esposizione al mezzo televisivo: così facendo viene fornita un'interpretazione (di cause ed effetti)
dei dati, non una rilevazione. Inoltre sono rintracciabili dei “problemi attuali” della ricerca:
1. Come si può verificare l'effetto della coltivazione?
2. Quanto e in che modo la coltivazione è influenzata dalle relazioni familiari e
interpersonali?
3. Quali sono i livelli di coltivazione?
(a) Rispetto ai “fatti della vita” (“primo grado”) e inferenze più generali su tali fatti (“secondo
grado”)?
(b) Livelli “sociale” e “personale”?
4. Che ruolo gioca l'esperienza personale nella coltivazione?
5. Gli orientamenti degli spettatori verso la televisione influenzano la coltivazione?
(a) Visione “attiva”o “passiva”?
(b) Visione “selettiva”?
(c) Secondo “usi e gratificazioni”?
(d) “Coinvolgimento”?
(e) Interpretazioni consapevoli del contenuto televisivo e della realtà?
6. Quali sono i ruoli di programmi e generi specifici nella coltivazione?
(a) Incidono di più le soap operas?
(b) O i programmi “per famiglie”?
(c) E gli orari dei programmi?
7. Come e cosa coltivano gli altri media?
8. Come le nuove tecnologie influenzano la coltivazione?
9. L'effetto della coltivazione si verifica anche in altri paesi?
Insomma, la teoria ha ancora molta strada da percorrere.
L « »
A TEORIA DEGLI SCARTI DI CONOSCENZA
Lo studio di Star & Hughes (1950) sulla conoscenza delle Nazioni Unite a Cincinnati rivelò
l'importanza dell'istruzione nella conoscenza di un tema, in quanto molla che spinge ad acquisire
informazioni. In quell'occasione furono individuati dei precisi fattori:
• le abilità comunicative degli individui (i più istruiti hanno più strumenti per ottenere le
conoscenze desiderate),
• l'informazione posseduta (quel che già si conosce – l'«enciclopedia» personale – facilita
l'elaborazione di nuovi temi),
• i contatti sociali (la discussione con gli altri è importante),
• l'esposizione selettiva, l'accettazione e memorizzazione dell'informazione (accettazione dei
meccanismi della selettività),
• la natura del mezzo informativo (la stampa soddisfa di più gli istruiti, ad esempio).
Questo e altri studi simili condussero alla teoria del “knowledge gap” elaborata da Tichenor, Donohue
& Olien (1970) che mette in luce un aspetto opposto dei mezzi di comunicazione di massa rispetto alle
teorie or ora affrontate, cioè il fatto che, al contrario di produrre omologazione ed un terreno comune,
essi creano la diversificazione delle conoscenze nella popolazione. In particolare si teorizza che:
l'acquisizione di conoscenza su temi molto pubblicizzati sarà molto più rapida per i soggetti più
istruiti rispetto ai meno,
mentre si istituisce, ad un certo punto, una correlazione tra temi molto pubblicizzati dai media
ed il livello d'istruzione, in realtà ciò non avviene per i temi meno pubblicizzati.
I tre studiosi portano il caso dell'allunaggio: in proporzione i laureati erano più propensi a pensarne
realistica la possibilità, rispetto ai meno istruiti. Allo stesso modo il caso di 600 persone a cui era stato
fatto leggere un articolo per poi rispondere a delle domande. I valori più alti furono ottenuti dagli
articoli più pubblicizzati nel tempo, rispetto ai meno.
Nowak (1977) sintetizza parlando del fattore del “potenziale comunicativo”, cioè tutte le risorse che
consentono il flusso maggiore di informazioni facilitando la comunicazione dell'individuo, dipendenti
da tre caratteristiche:
A) personali (attitudini, personalità, facilità di comunicazione),
B) legate alla posizione sociale dell'individuo (reddito, educazione, età e sesso),
C) della struttura sociale in cui l'individuo vive (appartenenza a gruppi primari o secondari).
Della “chiusura dei gap” si occupano invece, prima Thunberg, Nowak & Rosengren (1982) e poi
Gaziano (1983). Mentre il secondo rileva che la televisione (che richiede meno istruzione) può fungere
da livellatore di conoscenze (a lungo termine), i primi identificano questa funzione negli “effetti
soglia”:
1. i privilegiati raggiungono un livello di informazione tale da potersi fermare e consentire il
“recupero” dei meno privilegiati;
2. può annullare lo scarto la ripetitività e la diffusione delle informazioni;
3. la preoccupazione su un tema può omogeneizzare la sua diffusione;
4. la conflittualità di un argomento spinge i meno privilegiati a competere per la sua diffusione;
5. la chiusura degli scarti è più rapida all'interno di comunità omogenee (soprattutto coi leaders
d'opinione).
6. la televisione ha maggiore potenzialità di chiudere i gap rispetto alla stampa.
A riportare attuale la teoria degli scarti conoscitivi è stato il tema oggi molto discusso del “digital
divide”. Vengono ad essere sempre più distinti gli “information haves” dagli “information have nots”,
ossia i paesi più industrializzati da quelli dove l'informazione circola con più lentezza, ad esempio per
l'assenza di reti Internet. Internet è un mezzo diversificato, personalizzabile, che richiede
apprendimento, richiede capacità di scrittura e lettura, richiede la conoscenza dell'inglese e del
computer.
Rogers (1995) ha redatto, a questo proposito, una “curva cumulativa a S della diffusione tecnologica”,
dalla quale si evince che i paesi in difficoltà apprendono con ritardo netto le informazioni “globali”: si
avviano, con Internet, il passaggio dal “broadcast” al “netcast” e la crisi della tv generalista.
L
A TEORIA DELLA DIPENDENZA DAL SISTEMA DEI MEDIA
Proprio a proposito della televisione De Fleur & Ball-Rokeach (1976) discutono nella loro teoria. La
tv non è un semplice svago ma assolve funzioni di integrazione sociale e personale, essendo possibile
anche personalizzare il sistema mediale (con le nuove tecnologie). L'interesse della teoria che postula
una dipendenza del pubblico dal sistema dei media – pur senza dimenticare l'influenza esercitata dalle
relazioni sociali che l'individuo intrattiene – è ben più ampio, però. A parte il fatto che si interessa dei
cambiamenti nell'uso dei media da parte del pubblico – che però generalmente avviene solo in casi di
crisi o necessità, per poi tornare all'uso normale – il punto focale dell'intera teoria sta nella sua
“ecologicità”, di impronta funzionalista: essa considera la società «come una struttura organica e
analizza il modo in cui le componenti dei sistemi sociali micro (piccole) e macro (grandi) sono
collegate tra loro, cercando così di spiegare il comportamento delle parti in gioco in riferimento a
queste relazioni», costituite essenzialmente da “obiettivi” e “risorse” per ottenerli. I media sono
“potenti” semplicemente perché controllano le tre seguenti risorse:
1. la raccolta o creazione di informazione,
2. il trattamento dell'informazione,
3. la distribuzione dell'informazione alla massa.
Esiste una gamma di tipologie di relazioni individuali di dipendenza dai media:
1 comprensione
1.1 di sé,
1.2 sociale;
2 orientamento
2.1 all'azione,
2.2 all'interazione (come affrontare situazioni nuove o difficili);
3 svago
3.1 individuale,
3.2 sociale.
La teoria si avvale di aspetti che la accomunano a molte teorie classiche della sociologia. Il contributo
del paradigma cognitivo conferisce alla teoria la larga considerazione di aspetti legati all'individuo e
alla sua attiva propensione nei confronti del medium cui si rivolge. Con media specifici, è possibile
enucleare quattro “fasi di dipendenza”:
1) il selezionatore è attivo e l'esposizione selettiva (quando non è casuale, ma è raro);
2) maggiore è l'intensità della dipendenza iniziale, più alto è il grado di stimolazione cognitiva e
affettiva;
3) più forte è la stimolazione, maggiore è il coinvolgimento nel processo informativo;
4) maggiore è il coinvolgimento, più alta è la probabilità di effetti mediali cognitivi, affettivi e
comportamentali.
Il contributo dell'interazionismo simbolico si evince, in primo luogo, dal ruolo svolto nella teoria dalle
situazioni di minaccia, ambiguità o cambiamento sociale: in tutti questi casi le relazioni di dipendenza
tendono a rafforzarsi. E, in secondo luogo, dal tenere in larga considerazione le relazioni interpersonali.
Le influenze si suddividono, infatti, in:
a) influenza indiretta (risultante dall'esposizione cumulativa per lunghi periodi),
b) influenza indiretta tramite opinion leaders,
c) influenze dirette.
Il contributo del paradigma del conflitto e del funzionalismo è stato accennato in qualche modo prima:
la teoria pone l'accento tanto sul cambiamento quanto sulla stabilità dell'uso mediale, senza dimenticare
il ruolo del conflitto, da intendersi come «contesa per risorse limitate» che può rimanere latente per
lunghi periodi e manifestarsi solo al momento opportuno (oppure come asimmetria tra il potere dei
media e quello degli altri sistemi sociali).
Il contributo dell'evoluzionismo sociale postula il costante adattamento delle realtà sociali nei confronti
dell'evoluzione verso forme sempre più complesse della società; ebbene la teoria non dimentica questa
lezione e ne sottolinea la rilevanza in merito al rapporto politica-sistema dei media: la dipendenza è
sempre in aumento ed è reciproca. Si parla di “effetto onda”: i cambiamenti che si verificano nella
società si ripercuotono conflittualmente sui rapporti tra i diversi sistemi (politico, economico, mediale,
etc.), quindi sulle organizzazioni (corporazioni, movimenti, etc.), poi sulle reti personali e dunque sugli
individui.
Il sistema dei media, secondo tale concezione della dipendenza, è indispensabile, oggi, per tutti i
sistemi sociali.
S
ECONDA PARTE
CAMPAGNA ELETTORALE ED OPINIONE PUBBLICA
T :
ESTI DI RIFERIMENTO Mazzoleni, G., La comunicazione politica, Il Mulino, 2004 (capp. 1, 5-8);
Sampugnaro, R., Fare campagna fuori dai media. Tendenze postmoderne e persistenze tradizionali a
Catania: un confronto fra Amministrative ed Europee, in Merletti, C. (a cura di), Il leader postmoderno,
Franco Angeli, 2007;
Grossi, G., L'opinione pubblica. Teoria del campo demoscopico, Laterza, 2004.
M « »
ODELLI E DEFINIZIONI DEL CAMPO DELLA COMUNICAZIONE POLITICA
Il “campo della comunicazione politica” ha origini antiche, ritrovandosi nel pensiero di molti filosofi
dell'antica Grecia, primi fra tutti Platone e Aristotele. Con la retorica latina, su tutti Cicerone, ha luogo
il vero “laboratorio” delle dottrine politiche, coltivando quell'aspetto della comunicazione che è la
persuasione. In senso pieno, però, la comunicazione “politica” per come oggi si intende si sviluppa nel
Novecento, solo con l'avvento della comunicazione di massa.
A partire da ciò, il primo modello fondamentale che viene delineato è quello di Habermas, che ritiene
il pubblico dei cittadini un pubblico attivo, informato e «depositario delle strutture e dei processi della
democrazia, cioè del controllo e della gestione del potere, della rappresentanza della volontà popolare,
della discussione e dell'opinione pubblica, della pubblicità». Dahlgren distingue, in quella che
Habermas chiama “sfera pubblica”, una sfera pubblica “culturale” da una “politica”. Mentre nella
prima circolano idee e discussioni sulla letteratura e sulle arti, la seconda si caratterizza per la relazione
stretta con la democrazia, il luogo dove il pubblico dei cittadini può discutere degli interessi condivisi,
essenziali per la democrazia. Poi Pizzorno criticherà la concezione di Habermas proponendo la “sfera
pubblica” come, piuttosto, «il terreno della retorica discorsiva, della negoziazione, del confronto
identitario»: infatti l'opinione pubblica non nasce dalla verità, come dice Habermas, bensì da giudizi di
valore. I due elementi della “sfera pubblica” sono quindi tanto la democrazia quanto il mercato, nella
fattispecie il “mercato delle idee” di cui parla Ginsberg.
Il secondo modello è detto “pubblicistico-dialogico” e consta di tre parti: il sistema politico, il sistema
dei media e i cittadini, che condividono uno spazio ai cui bordi sta la comunicazione politica e al cui
centro risiede la cosiddetta “comunicazione politica mediatizzata”. Tale modello è oggi superato da
quello “mediatico”, terzo ed ultimo, che vede il sistema politico e i cittadini “immersi” nel sistema dei
media, non più alla pari rispetto agli altri due bensì in veste di cornice, di sfondo, di territorio comune
in cui si trovano gli altri due sistemi. Esistono dunque dei flussi tra i sistemi, secondo questo schema:
1. dal sistema politico
(a) verso il sistema dei media, caratterizzato da
i. regolamentazione,
ii. “media information management” (il sistema politico cerca di manipolare i media
tramite, ad esempio, la “lottizzazione”),
iii. fonte di informazione (scambio tra le due parti),
(b) verso il cittadino, caratterizzato da
i. comunicazione pubblica o istituzionale,
ii. contatto personale,
iii. pubblicità (non più propaganda);
2. dal cittadino
(a) verso il sistema politico, per mezzo di
i. voto,
ii. dibattito pubblico,
iii. interazione diretta,
iv. sondaggi di opinione (solo come ipotesi),
(b) verso il sistema dei media, per mezzo del “feedback”;
3. dal sistema dei media
(a) verso il sistema politico, caratterizzato da presenza di
i. informazione (tradizionale referenzialità giornalistica),
ii. vigilanza e critica,
iii. “collateralismo” (i media come portavoce di lobby politiche),
iv. “mediatizzazione” («quando i media impongono i propri formati ai messaggi
provenienti dal sistema politico»),
(b) verso il cittadino, con mezzi quali
i. informazione (spesso “infotainment”),
ii. manipolazione (con logiche di parte),
iii. pubblicità del partito o del candidato.
Secondo Gerstlé quasi tutti i comportamenti politici implicano il ricorso ad una qualche forma di
comunicazione, con tre fondamentali dimensioni: “pragmatica”, “simbolica” e “strutturale”. La prima
serve a convincere, la seconda ingloba i riti del consenso e del conflitto e la terza è quella che transita
sui canali istituzionali, mediali e interpersonali. Al contrario di chi crede che la comunicazione politica
distorca la politica stessa, per Wolton è la comunicazione politica a rendere possibile la politica nella
democrazia di massa.
Gli studi sulla comunicazione politica sono ormai ben avviati a costituire una disciplina matura ed è già
possibile stilare un elenco dei contributi europei a questo tipo di ricerche (anche se resta evidente
l'influenza dei lavori d'oltreoceano):
il superamento del modello lazarsflediano,
una prospettiva olistica,
l'approccio cognitivo “misto”,
l'incorporamento della prospettiva normativa nell'analisi del sistema dei media nell'arena
politica,
l'enfasi sull'interazione tra media e politica,
l'analisi longitudinale delle tendenze nella comunicazione politica.
F :
ARE CAMPAGNA FUORI DAI MEDIA LA COMUNICAZIONE DIRETTA
Si può condurre una campagna elettorale anche facendo a meno dei mezzi di comunicazione di massa
nell'era dei media? Assolutamente si. Anzi, si sta verificando una rivalutazione della comunicazione
diretta come strumento di mobilitazione sociale. E non si tratta di un “ritorno al passato”.
In un primo periodo la campagna era “local-active” (a raggio locale, puntando sul territorio) e i
messaggi erano «perlopiù rivolti all'elettorato identificato e agli appartenenti al partito». In un secondo
periodo (durante gli anni Sessanta fino agli Ottanta) le campagne diventarono «più centralizzate,
professionali e costose». L'esperienza divenne più passiva e buona parte degli elettori divenne
«distaccata e “disengaged”». Il terzo ed ultimo periodo, quello che Norris definisce “post-moderno”,
comincia intorno agli anni Novanta. Si verifica una maggiore frammentazione dell'offerta cui si
accompagna una segmentazione dei pubblici; si usano comunicazioni «più localizzate e interattive» e
strumenti più moderni (digitali); ritorna la comunicazione diretta, “face to face”, potenziandosi il ruolo
dello staff di consulenti (si crea il leader's office). Il punto è che lo staff è usato con difficoltà dai partiti
politici occidentali in quest'epoca di «contrazione della membership», mentre è sfruttata al massimo
dalle organizzazioni locali.
Qual'è il peso della comunicazione diretta nelle amministrative (2003) ed europee (2004)? Ne è
risultato il seguente elenco:
meglio il “faccia a faccia” che il mailing o il telefono,
meglio se già conosciuti dal cittadino,
meglio se il contatto è ripetuto più volte,
meglio i volontari che le agenzie specializzate nella mobilitazione,
efficacia dell'«egocentric network» ossia «un set di stimoli provenienti dalle persone con le
quali l'individuo è in contatto direttamente e senza mediazione»,
fondamentali risultano essere ampiezza e qualità del network individuale,
sono rilevanti anche gli “spatial dispersed network” ossia reti che congiungono soggetti “non
omogenei” per residenza o per interessi),
gli sfidanti sono i candidati avvantaggiati (hanno più ampio margine di miglioramento).
La comunicazione diretta è rivalutata nelle campagne per far fronte alla mancanza di legittimità e alla
crisi della rappresentanza, che coinvolgono i partiti. Si rende necessario perciò «aumentare la
conoscenza dell'elettorato e investire su una comunicazione mirata e personalizzata». Secondo Gould
(dello staff di Blair) è finita l'era del broadcast media, è iniziata quella dei mezzi personalizzati, del
narrowcast. Le differenze fondamentali rispetto a prima riguardano:
1. la scelta degli interlocutori;
2. la scelta del messaggio, che con la segmentazione del potenziale elettorato e la targetizzazione
del messaggio grazie alle nuove tecnologie deve adottare procedure come
a) la costruzione di messaggi differenziati (“different & truths”),
b) provvedere ad un'idonea consegna (“delivering”) cosicché la campagna sia “unique”;
3. la meta-comunicazione (l'utilizzo mediatico) cioè come il sistema dei media discute gli incontri
comunicativi.
Le occasioni di incontro tra i politici e l'elettorato possono essere di quattro tipi:
1. forme di comunicazione “assicurate al candidato”, cioè all'interno di partiti con elettorato
d'appartenenza;
2. forme “promosse” ossia che richiedono un “minimo impegno dell'elettore” (comizi, incontri
organizzati, per simpatizzanti);
3. forme dette “moltiplicate” che implicano una “ricerca attenta dell'elettore indeciso”
(“canvassing”) tentando di moltiplicare le occasioni di incontro per l'elettorato indistinto (sia
“porta a porta” che in luoghi pubblici);
4. forme “selettive”, simili alle “moltiplicate” ma si tratta di incontri “caldeggiati dal politico” e
dunque con carattere più selettivo (incontri nei luoghi di lavoro, in case private, etc.).
La comunicazione deve essere voluta, con una conoscenza preventiva dell'elettorato, passando così
dall'«interruption marketing», che prevedeva “i volantini infilati sotto la porta”, al «permission
marketing» che invece offre un contatto voluto anche dall'elettore.
La vera e propria campagna elettorale al di fuori del campo dei media di massa si articola in tre fasi:
1. la ricerca della visibilità sociale, la cui applicazione in Sicilia produce ottimi risultati
(l'83% dei soggetti presi in esame è in contatto personale con un candidato, in particolar modo
in occasione delle amministrative e con una maggiore propensione per candidati del
centro-destra), si ottiene tramite
(a) la costruzione di eventi dove il candidato testimonia di aver raggiunto un obiettivo
(inaugurazioni, report di ricerca, etc.),
(b) la costruzione di eventi (convegni, concerti, feste, cene, etc.) che consentono al candidato di
incontrare target selezionati e difficilmente raggiungibili,
(c) la frequentazione di luoghi che raccolgono tradizionalmente molte persone (mercati rionali,
eventi organizzati da altri soggetti, cerimonie religiose, etc.);
2. la scelta dei luoghi, con rilevanza delle comunicazioni “moltiplicate” e “selettive”
(difatti il 33% delle occasioni di penetrazione sono quelle che i candidati tendono a moltiplicare
nel corso della campagna);
3. l'attivazione delle reti, sia di quella “primaria” che di quella “secondaria” (cioè
intermedia), secondo la nota “legge dei legami deboli” di Granovetter; la mobilitazione può,
comunque,
(a) distinguersi in
i. “diretta” (i partiti contattano i votanti per convincerli a votare per loro),
ii. “indiretta” (la gente è spinta dai propri “social networks” ossia amici, parenti, colleghi e
vicini di casa);
(b) essere suddivisa, come fa McLung, in due tipi di “influenze”, che sono
i. “informational contagion”, che comprende le ipotesi dette
A. “del volume”, per cui i contatti realizzati dal partito creano scambio di informazione
politica nelle reti sociali spingendo la gente a parlarne,
B. “del contenuto”, per cui i contatti iniziali da parte delle élite politiche influiscono sul
modo in cui gli individui parlano di politica,
ii. “behavioral contagion”, ossia l'ipotesi secondo la quale non importa cosa si dice di
politica ma “contagia” già il solo essere “politicamente schierati” o “attivi”;
(c) presentare diverse modalità di contatto, quali quelle
i. inter-personale (meno influente),
ii. familiare,
iii. mediata da un'associazione,
iv. mediata da una rete di sostenitori,
v. mediata da un amico,
vi. per lettera o mailing (risultata molto influente).
Si è ottenuta, così, una serie di risultati sulla campagna elettorale fuori dai media, ovvero:
una differente capacità di mobilitazione da parte dei due poli,
un'esposizione prevalente verso uno solo dei due poli da parte degli elettori,
il centro-destra più capace di mobilitare e attivare contatti a largo raggio (nel caso di contatto
diretto),
riattivazione e rafforzamento piuttosto che conversione e recupero al voto dall'astensionismo,
il ruolo della famiglia come “cassa di risonanza” della campagna elettorale (in particolare nelle
amministrative) per cui ogni contatto diventa “contatto familiare” (trasmettendo la
comunicazione politica a giovani e donne),
le donne sono meno esposte all'attività dei candidati e ai riti della politica (leggero il divario
nella comunicazione “moltiplicata”),
le donne occupate presentano maggiore esposizione alla politica rispetto alle non occupate,
buona esposizione dei giovani (16 – 29 anni).
Si può stabilire che l'attività diretta sul territorio, «condotta dai candidati con gli strumenti tradizionali
della comunicazione politica, può migliorare la visibilità della campagna elettorale e determinare
l'attivazione di un grande numero di contatti, anche in presenza di una disaffezione del cittadino nei
confronti della politica», differentemente rispetto a quanto si verifica in occasione delle campagne che
vengono affrontate con l'ausilio dei mezzi di comunicazione di massa.
L '
A CAMPAGNA ELETTORALE NELL ERA DEI MEDIA
Le ricerche sulle campagne elettorali esauriscono circa due terzi dell'intera produzione scientifica sulla
comunicazione politica. Se ne distinguono due tipi:
I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Exxodus di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Sociologia dei processi culturali e comunicativi e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Catania - Unict o del prof Sampugnaro Rossana.
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