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Regia: Edward Sedwick produzione: Buster Keaton per MGM USA 1928
8) L’uomo con la macchina da presa
Regia: Vertov URSS 1929
Il cameraman è uno degli ultimi film muti di Keaton, quindi opera che chiude un ciclo, quello
della comicità slapstick che affondava le proprie radici nella pantomima ed era connessa ad
un cinema senza parole.
Questo genere inventato negli USA da Mack Sennett e David Griffith, si è sviluppato in due
fasi distinte. La prima è dominata da volgarità e violenza, da esagerazioni di ogni tipo,
stravaganze, licenziosità sessuale e cinico antiromanticismo.
Le associazioni per la morale e il buoncostume criticano un tipo di film popolato da
ubriaconi scostumanti, truffatori e altri eroi del caos. La seconda fase, obbligata dalla
pressione e dalle nuove regole imposte dal lungometraggio, con gli Charlot, Harry Langdon,
Harold Lloyd e Buster Keaton, fase in cui la carica eversiva si attenua o si carica di valenze
metaforiche e perfezionati i meccanismi del gag.
Nel Cameraman Keaton è un modesto fotografo che si illude di far innamorare una ragazza
semplicemente ritraendola, Ma si accorge che non basta e dovrà impegnarsi come cineasta
per riuscire nell’impresa, alleandosi con le macchine e superando gli ostacoli che un
rapporto conflittuale con la realtà e le sue leggi fisiche pongono sul cammino. Quando
Keaton cerca di rompere il salvadanaio, ci troviamo nella classica sproporzione fra gli
obiettivi e i mezzi impiegati, e gli oggetti implicati nell’azione rivelano una bizzarra
proprietà transiva. Il salvadanaio resiste a ogni colpo, ma vanno in frantumi altre cose.
Messo in movimento questo eroe astratto non riesce mai a centrare le esatte coordinate del
proprio percorso e finisce in cantina o sul soffitto senza rendersene conto. Lo spazio gli si
allarga (lo stadio vuoto) o riduce senza che lui riesca ad adattarsi e non si trova a suo agio
con l’autorità, poliziotti, status symbol (automobili, vestiti, denaro) e neppure con il sesso.
The cameraman è prima di tutto un saggio sul cinema, un’opera metacinematografica.
Keaton al principio riprende la gente in pose statiche, mentre altri riescono a riprodurre il
movimento e a cogliere la realtà sul fatto. Non è un problema di tecnica ma è la natura del
mezzo. Solo quando Keaton
si inchina allo strapotere del dispositivo e lascia che sia la scimmia a girare la manovella
(cinema, arte della riproduzione tecnica, arte che prescinde dall’uomo) solo allora il cinema
si decide a lasciar comparire sullo schermo le cose come effettivamente sono.
Un anno dopo Vertov stesso titolo., teorico del cineocchio, inventore di un cinegiornale e
sostenitore di un cinema capace di cogliere sul fatto la nuova realtà che la rivoluzione
d’ottobre avrebbe dovuto realizzare. Secondo lui tutto lo stato sovietico avrebbe dovuto
rendere accessibile la macchina da presa alle masse, per poterla usare come strumento di
conoscenza, al di fuori del concetto borghese di arte. Decostruire il mondo come era stato
ora lega l’uomo agli
rappresentato e ricostruirlo tenendo conto del nuovo rapporto che
altri uomini e alle cose. Le strade di mosca si rivelano a Vertov in tutta la loro
bellezza e cosi il movimento delle cose reali che documenta e propone.
L’arte di Keaton nasce da un lavoro collettivo (attore comico, regista Sedwick,
sceneggiatori, il produttore Thalberg ecc..). Questo film non viene capito perché si
scontra con le accuse di sperimentalismo, formalismo, incomprensibilità.
9) La passione di Giovanna D’arco
Francia, 1928 regia: Carl Theodor Dreyer
1927, Parigi, un grave scandalo turba il mondo cinematografico francese. Un regista
danese, noto per una rivisitazione di “Intolerance” dal titolo “Pagine del libro di satana” ha
iniziato a realizzare un’opera che si tratta dell’eroina francese per eccellenza.
Fra proiezioni private per il clero (preoccupazione di non offendere la chiesa), proclami a
garanzia della francesità del film e pubbliche accuse piovute dalla destra, la Giovanna
D’arco di Dreyer non avrà una vita facile. Distribuita poco e male scomparirà durante la
seconda guerra mondiale per poi ricomparire a metà degli anni 50, in una versione
insonorizzata che non piacque al regista. Tornerà al suo splendore solo negli anni 80, grazie
a una copia trovata in un manicomio norvegese.
Si tratta di un’operazione concepita in quel clima avanguardistico che informa di sé il
meglio del cinema francese negli anni 20. Il film di Dreyer è talmente estremo, nel rigore
del suo approccio all’arte cinematografica, da soddisfare anche il gusto delle avanguardie
radicali, quelle storiche che hanno in Luis Bunuel il loro principale esponente nel cinema.
Bunuel in una sua recensione scrive: realizzato a base di primissimi piani l’autore usa
raramente il piano d’insieme e il primo piano. Ciascuno di essi è stato composto con tanta
cura e tanto senso artistico che molte volte diventa “quadro” senza mai cessare di essere
“inquadratura”. Inquadrature non frontali, con violentissimi scorci, ottenuti quasi sempre
inclinando il livello della macchina. Nessuno degli interpreti si è truccato, nei loro volti
prende maggior rilievo la vita in carne d’ossa.
La genialità di Dreyer sta nel modo in cui ha saputo dirigere i suoi interpreti. L’umanità delle
espressioni trabocca dallo schermo e riempie la sala.
10) Scarface, Shame of a nation
Regia Howard Hawks, USA 1932
Howard Hawks è un caso limite. Figlio di una famiglia di industriali più che agiati, si
interessa di automobili veloci e di aeroplani finchè non entra nel mondo del cinema, prima
come tecnico e poi come sceneggiatore, supervisore alle produzioni, regista non accreditato
che copre i buchi degli altri. Nel 1926 si muove sempre nel rispetto del sistema dei
generi e dello studio system. Straordinaria macchina da film. I suoi film sono tutti “film di
genere” e allo stesso tempo i suoi sono capolavori che si possono considerare quasi degli
archetipi del genere di cui sono espressione. Così come è per la commedia propriamente
detta (susanna, 20 secolo, il magnifico scherzo, lo sport preferito dall’uomo), per la
commedia musicale (gli uomini preferiscono le bionde), per il western (il fiume rosso, un
dollaro d’onore. Il grande cielo, el dorado), il film bellico (Il sergente York, arcipelano in
fiamme), l’avventura (l’urlo della folla, avventurieri dell’aria), il gangster movie ( codice
penale, scarface), il noir (il grande sonno, acque del sud) e anche per le sue brevi ma
intensissime apparizioni in territori mai frequentati come l’horror fantascientifico (la cosa da
un altro mondo) o il colossal storico-mitologico (la regina delle piramidi), quasi per
dimostrare di essere davvero capace di saper fare al meglio qualsiasi cosa potesse
interessare il pubblico in tutto il mondo.
La critica ha scoperto due elementi caratterizzanti della sua impronta personale: la capacità
al servizio di ottime sceneggiature senza mai prevaricare la messa in
di mettersi
scena con il proprio narcisismo autoriale e il suo rispetto assoluto per i personaggi
che compaiono nel film. A loro è subordinato tutto il resto, a partire dal ritmo della
regia e del montaggio. Per questo Hawks è considerato il cineasta dell’evidenza e
dell’intelligenza.
Del mezzo cinematografico non deve rimanere nessuna traccia perché il gioco funzioni.
Scarface è un esempio. La vicenda prende spunto dal romanzo omonimo di Armitage Trail,
di cui viene stravolto l’impianto. Hawks e Hughes, qui nelle vesti di produttori indipendenti,
decidono di ravvivare la storia con riferimenti cronachistici che il pubblico possa riconoscere
e usano come modello la biografia di Al Capone. Hanno poi l’idea di aggiungere un lato
melodrammatico, stabilendo un collegamento tra la parabola della famiglia di Camonte e
quella dei Borgia, suggerendo fra le righe l’esistenza di una passione incestuosa di Tony nei
confronti della sorella Cesca. Un problema
sociale come quello del gangsterismo, sentito nell’America della Depressione, è fuso
insieme a un dramma storico di saghe familiari maledette. I volti adatti a queste figure
vengono scovati in luoghi impensabili: l’animalesco Tony Camonte è Paul Muni, un rigoroso
e coltissimo attore ebreo di teatro, emigrato negli usa, il mellifluo Johnny Lovo è
interpretato da Osgood Perkins, proveniente dai sofisticati teatri newyorchesi e Boris Karloff
era fino ad allora relegato in ruoli da cattivo di secondo piano.
Alla rappresentatività delle facce fa da contrappunto un dialogo che tiene l’attenzione dello
spettatore sempre all’erta, contraddicendo i più triti luoghi comuni.
I killer spietati di Chicago non sono degli angeli del male sempre concentrati sui loro traffici,
ma dei bambini troppo cresciuti che non hanno percezione della distinzione fra ciò che è
moralmente accettabile e ciò che non lo è. Tony si rivolge alla nuova mitragliatrice con
espressioni che fanno pensare a un adolescente alle prese con una nuova bicicletta e i suoi
uomini per condurlo a un regolamento di conti, devono strapparlo quasi con forza da una
commedia teatrale della quale vorrebbe vedere il finale.
Stile influenzato dall’espressionismo (Murnau), il massacro di San Valentino è una
fucilazione di ombre rosse riflesse su una parete, uguale la morte di Karloff “significata”
senza essere mostrata direttamente, dalla caduta dell’ultimo birillo che la palla da bowling
pareva aver risparmiato. Una luce premonitrice proietta una croce su tutti coloro che hanno
un destino tragico di fronte, infatti la croce è la forma simbolica che torna continuamente,
cicatrice che ha lo sfregiato.
Nell’insieme il film risulta fin troppo efficace, per i parametri di quell’epoca in cui
l’invenzione del sonoro attribuiva al cinema un indice di realismo supplementare al quale lo
spettatore non era ancora abituato. La censura ne impedisce l’uscita in numerosi stati.
Hughes rifiuta ogni compromesso e Scarface resta bloccato per oltre un anno e
successivamente vengono aggiunte alcune scene con lo scopo di ammorbidire la brutalità
del film con i quali Hawks dichiarerà di non avere nulla a che fare. Lo stesso regista dovrà
girare tre differenti finali: quello “canonico” della morte di Camonte per strada, uno che lo
mostra simbolicamente mentre cade nello sterco ed un altro che ne descrive la legale
impiccagione. Niente di tutto questo servirà a impedire il trionfo della pellicola.
11) L’Atalante
Francia 1934 Regia: Jena Vigo.
Vigo trascorre l’adolescenza in collegio, dopo la morte del padre morto misteriosamente in
carcere