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Il fenomeno dei graffiti: dalle strade alle gallerie d'arte
Le opere murali, artistiche e trasgressive, sarebbero forse rimaste episodiche se il grande movimentograffitista che scosse gli Stati Uniti nei primi anni Settanta non avesse assunto dimensioni inattese. Suglispazi di tutta New York i giovani usciti dai ghetti lasciano le loro firme pseudonime, spesso abbinate ainumeri delle loro strade. Nasce così la tag, un marchio che invade la metropolitana e percorre l’intera città.Si trasformano così in graph, complesse elaborazioni grafiche le cui dimensioni impressionanti sottendevanouna precisa ambizione estetica. E il fenomeno non poteva non suscitare l’immediato interesse delle galleried’arte, le quali invitarono i migliori graffisti a lavorare sia su tela che su carta. I graffiti sono connotati daalcune pertinenze, funzionali o strutturali. Una di queste li rende antitetici ai quadri. Ignorano il canonedel quadro, <<non tengono conto del campo di cui si sono appropriati>>. Dal momento in
cui vengono dipinti su tela, subiscono gli inconvenienti e accettano i vantaggi di questa metamorfosi. Tra il graffito, strictosensu, e l'arte, la differenza non è soltanto relativa alla qualità. Intrasportabili, i graffiti dipendono da un'arte in situ. Nel 1980 alcuni giovani organizzano a New York, in una sala abbandonata, il Times Square Show, una riunione di artisti in rotta con l'establishment, la street art si sviluppa così. Il muro di Berlino fu uno dei luoghi simbolo, prima del suo abbattimento, delle testimonianze <<selvagge>> di una libertà che poteva esprimersi solo a Ovest. Keith Haring si fece conoscere ridisegnando con il gesso i cartelloni ricoperti da manifesti monocromi della metropolitana di New York, prima di diventare famoso per il suo virtuosismo e la sua originalità. Nel 1990, la mostra <<High & Low>> prevede una sezione dedicata ai rapporti tra arte e graffiti. Il catalogo aggiunge spazioriservato alla mostra propriamente detta un capitolo, Contemporary Reflections, in cui riproduce e loro opere, affiancate a numerose immagini di graffiti e tag recenti. 3. L'art brut La psichiatria era una disciplina ancora giovane, e l'<<arte dei folli>> suscitava l'interesse dei medici. Due erano gli atteggiamenti prevalenti. Marcel Réja, ad esempio, pubblicò L'art chez les fous. L'intento del libro è quello di studiare un'<<arte>> specifica, o più precisamente, un'infanzia dell'arte, per riuscire a illuminare i meccanismi del genio. L'autore esamina anche i <<disegni dei bambini e dei primitivi>>, ne rileva le differenze e constata che hanno in comune un certo <<disprezzo>> della realtà. Altri, come Clive Bell, ritengono più giusto il contrario. Hans Prinzhorn nel 1922 pubblicò Espressioni della follia. Apprezzava l'arte del suo tempo eIncoraggiava i malati a esprimere se stessi mediante la pittura e la scultura. Il suo libro e i suoi lavori testimoniano un approccio nuovo alla creatività, sia un mutato atteggiamento nei confronti della "follia". Ne seguì un maggiore interesse per l'arte dei malati di mente. Artisti e poeti hanno sempre manifestato interesse per le opere prodotte da una creatività sregolata, ma nessuno è mai sembrato preoccuparsi della loro conservazione. Le collezioni psichiatriche hanno un ruolo determinante. Jean Dubuffet decise di farsi promotore di una collezione che consentisse la conservazione e lo studio dell'art brut. Noi intendiamo con ciò opere eseguite da persone prive di cultura artistica, dal momento che i loro autori attingono tutto quanto dal fondo di se stessi. Noi assistiamo qui all'atto artistico assolutamente puro, bruto, L'art brut non è un reinventato dall'autore nella totalità delle sue fasi.
Muovendo unicamente dai propri impulsi. Movimento. Le opere realizzate al di fuori della sfera artistica vengono raggruppate sotto tale etichetta da coloro che vi scorgono il segno di una creatività che si manifesta a dispetto dell'esclusione sociale di cui soffrono i loro autori.
4. Il museo immaginario
Da Rinascimento in poi, ci sono album che raccoglievano gli elementi visivi di una cultura artistica <<universale>>. Costituivano, in qualche modo, un museo portatile. Finché la scoperta e gli sviluppi della fotografia contribuirono a sconvolgere le gerarchie. La fotografia era in grado di riprodurre con una fedeltà mai raggiunta fino ad allora. André Malraux: si è aperto un museo immaginario, che porterà alle estreme conseguenze il confronto, incompleto, con i musei veri: rispondendo all'appello e al pressante invito di questi, le arti plastiche hanno.
Le opere sembrano aver acquisito un vero dono.
dell'ubiquità. Inventato la loro stampa. Walter Benjamin, analizza in un saggio del 1936, gli effetti del cinema. Riprodotti, i dipinti perdono in particolare quell'autenticità che deriva dall'"unicità della loro presenza nel luogo di loro competenza", in altri termini, l'aura. L'aura di un'opera è quell'elemento che le appartiene propriamente ed esclusivamente, in quanto traccia irripetibile. Alla fine degli anni Quaranta il fenomeno aveva assunto una tale importanza che Malraux affermava: "la storia dell'arte da cent'anni a questa parte, da quando è stata sottratta agli specialisti, è la storia di quanto è fotografabile". La fotografia isola l'opera dal suo contesto e avvicina allo sguardo le decorazioni dei soffitti o vetrate poste talvolta ad altezze inaccessibili. Di più: i dettagli creano dei quadri che non esistono. Per le sculture, l'inquadratura,L'illuminazione, l'angolo di ripresa diventano determinanti. Malraux constata che le fotografie del <<museo immaginario>> non si limitano affatto a riprodurre le opere: la riproduzione ha creato degli artifici, falsando sistematicamente la scala. Il <<museo immaginario>>, anziché aiutare a percepire l'<<essenza>> della pittura, contribuisce a trasformare le pratiche estetiche. Marcel Duchamp, che si interessava di fotografia, fece appello alle potenzialità del <<museo immaginario>> quando fece fotografare da Alfred Stieglitz Fountain (1917) e ne stampò la riproduzione sulla rivista creata per l'occasione, <<The Blind Man>>, affidando all'immagine la testimonianza dell'<<oggetto smarrito>>. Yves Klein fece stampare in Spagna un piccolo libro intitolato Yves Peintures (1954). Sotto la copertina, dieci tavole libere, ognuna delle quali regge un rettangolo.
di cartasottile, a un solo colore, in fondo al quale è indicato il nome dell'autore, <- La casualità
Introdurre la casualità nel processo creativo vuol dire opporsi all'idea di un pieno controllo del proprio mestiere e all'idea di un controllo assoluto esercitato dall'artista sulla sua opera. La rivendicazione della casualità ha fatto il suo ingresso nel campo artistico all'inizio del XX secolo. Gli artisti dada sono i primi a celebrare le sue virtú e a trarne vantaggio. Nel 1916 Hans Arp, allora dadaista, insoddisfatto di un disegno già molto travagliato, strappa i fogli e ne getta i brandelli sul pavimento. Colpito dall'effetto inatteso prodotto dalla loro disposizione, Arp li incolla su un supporto in modo da conservare traccia dell'<<ordine voluto dal caso>>. Marcel Duchamp fu uno dei primi e più importanti apologeti del caso del XX secolo e contribuì
largamente a imporne il successo negli Stati Uniti, dove il suo amico John Cage, anch'egli grande interprete della casualità, divenne per Duchamp un punto di riferimento. Nel 1913 Duchamp crea Erratum musicale, testo da cantare tre volte, da tre persone diverse, a partire da tre partiture le cui note sono state tirate a sorte dentro un cappello. Considerava il "Che ha dato il nome al gioco è legato alla prima frase che ne scaturì, articolata in questo modo: Le cadavre – exquis – boira – le vin – nouveau.
Molto più serio, l'automatismo psichico non si identifica con la casualità, ma concorre come la casualità a modificare l'atteggiamento nei confronti della padronanza creativa e operativa dell'artista. Il metodo creativo di Dalì, da lui definito "paranoico-critico", era fondato sulla "forza istantanea delle associazioni sistematiche propria dei fenomeni deliranti". E tale metodo, così come lo ha descritto, includeva la casualità. La casualità celebrata e praticata dai surrealisti e dai dadaisti bandisce, oltre alla volontà di controllo, qualsiasi razionalità. Appariva comunque ancora secondaria o marginale quando August Strindberg dedicò un articolo intitolato "Del caso nella produzione artistica" (1894).
La sua <<teoria dell’”arteautomatica”>> termina con queste parole: la formula dell’arte a venire è imitare la natura in modo approssimativo e soprattutto imitare il modo approssimativo in cui crea la natura. Nel corso del XX secolo, dopo le provocazioni dadaiste, il caso si è