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RIASSUNTO “INTRODUZIONE AL TEATRO LATINO”
1- I CARATTERI GENERALI DEL TEATRO LATINO
1.1 Prima del teatro scritto
La data d’inizio del teatro è il 240 aC, anno in cui Livio Andronico mette in scena, durante i ludi
Romani, una fabula di argomento e costume greco, riprendendo e traducendo drammi attici.
Essa però è preceduta da più di un secolo di teatro: nel 364 aC infatti viene inserita nel programma
della festa la “satura” (cioè “[spettacolo] farcito [di vari numeri]”): un insieme di scene farsesche,
parodie, canti e danze e acrobazie, in una scenografia scarna e provvisoria.
Ma anche questo spettacolo ha un precedente: performance musicali e teatrali nelle feste agricole
dell’entroterra laziale. Esistono infatti danze antichissime di carattere apotropaico (cioè di difesa)
che hanno la funzione di tenere lontano il malocchio e le sue manifestazioni. Vengono messe in
scena alle scadenze principali del calendario agricolo. Esse hanno scopo sia apotropaico sia
propiziatorio: gli dei dovrebbero sia tenere lontano il male dal raccolto, sia proteggere la fertilità
della terra e del raccolto.
Il vero tema delle feste agricole è la sopravvivenza della comunità.
La danza serve quindi a esprimere gratitudine agli dei ma anche a cercare di tenere sotto controllo
i meccanismi riproduttivi e di ottenere la protezione divina.
1.2 La danza delle danze
Conosciamo alcune delle figure principali di danza: quella in tondo, che comporta movimenti sia in
senso orario sia antiorario, e quella in file contrapposte che si corrono incontro per poi allontanarsi.
Il grammatico Aftonio spiega che i componimenti lirici sono costituiti da “strofe, antistrofe ed epodo”
poiché quando gli antichi cantano intorno agli altari, lo fanno prima verso destra (“strofè”, cioè
evoluzione), poi verso sinistra (“antistrofe”) e infine stanno fermi (“epodo”, cioè “canto eseguito sul
posto”).
L’origine della danza poi risalirebbe a Teseo che, ucciso il Minotauro, si sarebbe messo a imitare
con la danza il percorso labirintico, oppure secondo altri essa sarebbe un’imitazione del moto e
dell’armonia dell’universo: verso destra perché il cielo dall’alba al tramonto va verso destra, poi
verso sinistra perché dal tramonto all’alba ruota verso sinistra e infine da fermi perché la terra sta
immobile al centro dell’universo mentre il cielo le ruota intorno.
1.3 Corteggiamento, contrasto
Le origini della danza spesso sono colllegate, oltre che a una dimensione di armonia cosmica, a
un’imitazione del mondo animale, ed entrambi gli aspetti, attraverso l’immagine dell’avvicinamento
e allontanamento, esprimono sia l’incontro/scontro dell’amore, sia l’incontro/scontro negatico,
aggressivo, del contrasto politico. Queste due dimensioni sono collegate: quasi sempre infatti le
danze di guerra sono anche danze di corteggiamento.
A questa doppia valenza, politica e di corteggiamento, si ricollegano anche i “versi fescennini”. La
loro etimologia li ricollega a Fescennia, città del Lazio, e sono scambi di battute in una metrica
improvvisata, accompagnati da una mimica (soprattutto gestuale) e forse anche dalla musica.
Sono caratterizzati dall’aggressività verbale e dalla denuncia ad personam, rievocando un passato
recente e criticando personaggi in vista.
Spesso poi insistono su particolari anatomici, sono caratterizzati da una volgarità bassa e
argomenti sessuali.
Inizialmente i versi fescennini sono tipici solo della sfera contadina, ma quando cominciano a
diffondersi nella capitale, diventano insulto e attacco politico mal visti da senato e magistrati, che li
vietano.
Banditi dalle occasioni pubbliche, i fescennini si mantengono nei riti privati delle nozze,
mantenendo la loro funzione apotropaica e di propiziazione della fertilità della donna, che va difesa
dal malocchio. Si ritiene che l’oscenità sia la maniera per allontanarlo: basta qualcosa di insolito,
anormale, eccessivo o deforme per tenere lontana la malìa. L’immagine per eccellenza in tal senso
è quella del fallo, ma tutto ciò che è osceno e grottesco va bene.
Gli interpreti dei fescennini usano maschere in corteccia o si dipingono il viso di rosso,
gesticolando in maniera scomposta.
Esiste un’altra ipotesi etimologica, che farebbe risalire alla parola “fascinum” (malocchio) l’origine
della parola fescennini.
Il loro mantenimento nelle cerimonie nunziali poi conferma il loro legame con la sfera del
corteggiamento.
Secondo Orazio, i fescennini raggiungono un livello d’aggressione e violenza tale che i politici sono
costretti a vietarli, preparando il terreno per l’accoglienza del più raffinato teatro attico, ma allo
stesso tempo lasciando Roma senza alcuna forma di teatro per secoli.
I fescennini infatti sono una forma di teatro: sono basati sulla parola, sul dialogo, sul camuffamento
e sulla mimica; manca però loro la qualità dei versi e l’assoggettamento a un’arte.
1.4 La nascita della satura
L’unione tra i fescennini e una forma d’arte nasce nel 365/4 aC, quando, a causa di una gravissima
pestilenza, per placare l’ira degli dei vengono istituiti i ludi scenici, nei quali dei danzatori etruschi,
senza alcun canto, danzano al suono del flauto secondo la moda etrusca. I giovani romani
cominciano allora ad imitarli, aggiungendo versi rozzi e grossolani sul tipo dei fescennini. L’uso si
diffonde sempre di più, e a versi improvvisati si sostituiscono “varietà” (saturae) di melodie
accompagnate dal suono del flauto e da movimenti armonizzati.
1.5 L’introduzione del teatro attico
Livio Andronico per primo si allontana dalla satura, elaborando un dramma a soggetto. In esso
però gli attori, dovendo recitare e cantare, perdono la voce, così viene introdotto il coro e agli attori
si lascia solo da recitare.
Questo nuovo spettacolo si allontana dal riso e dall’improvvisazione trasformandosi in arte; i
giovani romani allora, lasciando agli istrioni quest’arte, ritornano alla tradizione di versi buffi
inventando gli exodia.
I Romani dunque sperimentano il problema del trapianto di genere, dalla Grecia a Roma, e sono
loro a inventare la “traduzione artistica”.
Essi prendono possesso di questa nuova drammaturgia, inventando la “paetexta” (tragedia d’abito
e argomento romani) per sopperire alla “cothurnata" (tragedia d’abito e argomento greci) e la
“togata” (commedia in costumi romani) in sostituzione della “palliata” (commedia d’abito e costumi
greci).
1.6 La tragedia attica
L’etimologia della parola “tragedia” è incerta: essa significa infatti “canto del coro”, ma non
sappiamo in che senso; potrebbe riferirsi al fatto che il coro sia formato da satiri, creature dai tratti
caprini, oppure c’è l’ipotesi che in origine, in palio per le gare tragiche, ci fosse un capro. La scelta
poi dell’animale sarebbe dovuta al fatto che il capro ama brucare la vite, e quindi è nemico del dio
Dioniso.
Anche sulle origini del teatro tragico non c’è chiarezza: Aristotele fa riferimento al ditirambo, canto
in onore di Dioniso eseguito da un coro di satiri.
Il poeta lirico Arione di Lesbo, nel VI sec aC, avrebbe aggiunto alla musica e alla danza il canto di
miti di dei ed eroi in versi.
Tespi poi, a metà del VI sec aC, avrebbe introdotto il prologo sull’antefatto e trasformato il
capocoro nel protagonista che dialoga col coro. A lui si attribuisce la prima rappresentazione
tragica alle Grandi Dionisie del 534 aC.
Egli poi utilizza un coro umano, che varia identità a seconda del mito trattato.
L’origine satiresca non si perde, infatti Pratina di Filunte inizia a comporre drammi satireschi che
hanno protagonisti e coro di satiri modellati sulla nascente tragedia. Il tema è il mito e i protagonisti
sono eroi, il tutto trattato in chiave comica. Egli esordisce ad Atene nel 515 aC. Dato però
l’argomento alto delle opere, i drammi satireschi sono comunque composti da autori tragici.
Il passo verso la pienezza formale e strutturale si ha con Eschilo (525-456 aC) che introduce due
novità tecniche: il secondo attore (che permette un aumento del numero di personaggi grazie ai
cambi di maschera) e la trilogia legata.
Sofocle invece introduce il terzo attore e porta il coro da 12 a 15 elementi.
Le innovazioni di Euripide invece non riguardano aspetti tecnici, ma di “atmosfera”: egli fa uso
frequente del “deus ex machina” e sottopone il mito e i suoi protagonisti a un disincanto, ponendoli
in una dimensione più umana e rendendo quindi la tragicità ancora più accentuata. Egli poi
sottolinea costantemente la funzione del caso, superiore anche alla volontà divina.
Avendo come oggetto il mito, la tragedia si pone in relazione alla poesia epica, ricavandone
contenuti e arricchimenti, ma essendo allo stesso tempo originale. Infatti la novità nelle tragedie
sta nell’organizzazione formale secondo la struttura costituita da prologo, parodo, episodi
inframezzati da stasimi e infine esodo. Il coro può partecipare all’azione attraverso il corifeo o
commentando col canto i dialoghi tra i personaggi.
Nei soggetti mitici, la tragedia preferisce quelle vicende in cui i protagonisti, mossi da un qualche
sentimento, infrangano le leggi della natura o della società (la gravità dell’infrazione però non
dipende dal grado di consapevolezza che l’accompagna).
1.7 La commedia attica
I satiri sono pèrotagonisti, insieme ad altri personaggi buffoneschi e farseschi, delle sfilate
propiziatrici, dette “falloforie”, in cui viene portato in giro un fallo simbolo di fertilità a scopo
beneaugurante.
Questi cortei legati alla mimica e alla musica sono detti “komoi”, e da questo nome deriva
“komoedia”, cioè “canto festoso”; secondo altri invece la parola deriva da “kome” (“villaggio”) e
dunque la commedia è il “canto del villaggio”.
Lo scopo provocatore e allo stesso tempo di equilibratore sociale, spiega perché la commedia
(introdotta negli agoni delle Grandi Dionisie del 486 aC) abbia come oggetto la politica, i fatti e i
personaggi dell’attualità all’inizio; mentre la commedia nuova del IV sec torna a concentrarsi
sull’altra tematica delle feste rurali, cioè la donna e la famiglia.
Le commedie di Aristofane seguo uno schema: il protagonista si ribella al degrado della polis con
un’idea paradossale per risollevare la città o per evadere in un mondo alternativo.
Mentre la tragedia gi&