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ET EQUITABLE ANDRE’ TIRAQUEAU … ”: IL TRATTATO DE POENIS

TEMPERANDIS

Paragrafo 1 – Un magistrato del cinquecento al lavoro: le fondamenta del potere di

punire

Un’altra delle opere più importanti di T. è il trattato DE POENIS TEMPERANDIS che

nasce dalla prassi, a T. ben nota, ed è rivolto alla prassi stessa.

In quest’opera T. cerca di inserire in categorie le cause di mitigazione e di esclusione della

pena prevista dalla legge o dalla consuetudine per punire i vari reati. In vari punti del

trattato T. dimostra di essere cosciente del ruolo svolto dal giurista nel sopperire alle

lacune della legge. Egli conosce bene l’ampio spazio riservato all’arbitrium del giudice e

l’importanza di questo potere discrezionale all’interno del giudizio. Potere discrezionale

che non è illimitato, anzi è limitato e i suoi confini sono stabiliti dalla legge stessa.

Nel riflettere sulle cause che legittimano il giudice a cambiare la pena o a diversificarla, in

parte disapplicando la norma in vigore, T.: da un lato costruisce una complessa teoria

sulla responsabilità penale, precorrendo i tempi, dall’altro affronta un altro grande tema di

quell’epoca che è lo spostamento dell’attenzione dall’attività giurisdizionale all’attività

legislativa con la conseguente difficile ricerca di un punto di equilibrio tra arbitrio del

giudice e potere politico (attuale potere legislativo).

Quest’ultimo argomento è un punto centrale del trattato. Lo si ricava anche dal fatto che

già nella praefatio T. esordisce ammettendo la superiorità delle norme e della loro

obbligatorietà nei confronti del magistrato.

Nello sviluppo del suo ragionamento T. dice che davanti al diritto positivo (ormai tutto

scritto, visto lo sforzo di certificare le consuetudini) i poteri del giudice sono limitati ad

accertare il fatto e non possono sostituirsi al legislatore fissando uno degli elementi per la

configurazione del reato. In particolare la sanzione da comminare deve essere una

prerogativa politica e, in quanto tale, di competenza del legislatore. Da questo punto di

vista non vi è differenza tra legge e consuetudine, poiché compito di entrambe è appunto

quello di determinare la sanzione ponendo un limite al potere del giudice.

Tuttavia nello sviluppo del suo discorso T. giunge ad una conclusione apparentemente

opposta alla premessa (superiorità delle norme e loro obbligatorietà nei confronti del

giudice), ponendosi la domanda se è possibile o meno, da parte del giudice, derogare a

quanto stabilito dalla legge in ordine alla pena da irrogare. Secondo T. se la deroga è il

frutto di mero arbitrio da parte del giudice non supportata da giusta causa, allora non è

ammissibile perché nuoce alla collettività. Se invece la disciplina legale risulta superata o

manchevole e si configura, quindi, come fonte di iniquità allora il giudice può intervenire

mitigando o eliminando la pena.

Le due affermazioni apparentemente in contraddizione (1. Superiorità delle norme sul

giudice e 2. Possibilità del giudice di derogare alle norme) in realtà si conciliano, secondo

T. , laddove venga messa al centro del sistema l’esigenza di emanare norma giusta, che

verrebbe meno qualora il giudice applicasse acriticamente la norma. In altri termini,

secondo T., ciò che legittima la deroga da parte del giudice è l’esistenza di una serie di

parametri oggettivi che devono essere richiamati nella sentenza per giustificare

l’allontanamento dalla pena edittale. In questo modo i motivi sono oggettivi e sono sottratti

al capriccio del giudice.

Paragrafo 2 – La dialettica tra legge del sovrano ed arbitrium iudicis

La trattazione continua indicando quali sono le fondamenta teoriche che giustificano la

posizione favorevole di T. al riconoscimento dei poteri discrezionali del giudice.

In primo luogo, T. sostiene che il giudice può discostarsi dalle norme e decidere per il

meglio quando ci si trovi in presenza di una causa che muti la situazione regolata dalla

norma questo per perseguire la giustizia del caso concreto e garantire la tenuta

dell’ordinamento. Da ciò, secondo T., discende che l’attività del giudice richiede un

approccio equilibrato e non dogmatico al problema della fissazione della pena. In secondo

luogo T. sostiene la possibilità di mitigare o escludere la pena è paragonabile al caso di

chi cambia opinione anche se ciò porta ad intaccare una posizione giuridica altrui. T.

precisa che ciò è possibile solo in presenza di una causa sopravvenuta e dichiarata come

tale. Il principio enunciato da T. è valido non solo per quanto riguarda il giudice ma trova

applicazione ad esempio anche nel caso della Civitas che decide di derogare alla

normativa vigente impedendo a qualcuno di fruire dei propri diritti se ciò accade in base ad

una causa sopravvenuta (ex causa).

Tra le deroghe ex causa T. vi fa rientrare anche alcune garanzie previste per l’imputato

quali ad esempio il diritto al contraddittorio considerato presupposto fondamentale per il

diritto alla difesa.

Con ciò T. sostiene di aver dimostrato come il diritto possa essere derogato non solo da

coloro che detengono il potere legislativo ma anche da tutti coloro che detengano, in

qualche misura, la possibilità di esercitare legittimamente una parte della potestà

normativa in perfetta autonomia. Da ciò, secondo T., discende che anche il giudice, in

quanto soggetto dotato di una limitata ma effettiva iurisdictio può ribaltare le previsioni

normative adattandole al singolo caso per giungere ad una decisione giusta. Unico limite

posto al giudice nel perseguire una decisione giusta è l’obbligo di enunciare, attraverso

una sentenza, le motivazioni che lo hanno spinto a derogare alla norma positiva. È infatti

attraverso la sentenza che il potere legislativo controlla che non vengano usurpati i propri

poteri e che la giustizia sia amministrata correttamente e si garantisce alle parti la

possibilità di adire in appello contro la sentenza viziata. Si viene così a creare una

situazione per la quale il giudice deve ritenersi dotato di un arbitrium che lo rende

autonomo rispetto alle scelte operate dal princeps il quale a sua volta subirà una erosione

della sua potestà normativa per opera dei suoi subordinati (i giudici).

Riassumendo T. sostiene che il giudice possa decidere contra regulam quando,

discostandosi dalla legge, il principio di giustizia sostanziale venga maggiormente

rispettato. Tale eccezione viene tollerata solo in quanto ben motivata non potendosi

intendere la possibilità di deroga del diritto positivo come una delega in bianco del potere

politico. Vi è inoltre un ulteriore limite imposto a colui che vuole violare la norma ossia

indicare in basi a quali altre regole può avanzare tale pretesa, ciò si concretizza per il

giudice nella stesura di una esauriente motivazione pena la nullità dell’atto. La motivazione

della sentenza, secondo T., non è necessaria ad substantiam ma risponde ad una forma

di autotutela del giudice. La sentenza rimane valida anche se carente di alcuni requisiti in

quanto è la legge stessa che le attribuisce direttamente tale forza.

Paragrafo 3 – Spunti per una sistematica delle cause di mitigazione della pena

Nel corpo del trattato T. individua le cause di limitazione o esclusione della pena.

Nel diritto moderno le cause di mitigazione o esclusione della pena vengono ricercate in

una serie di elementi astrattamente previsti dalla legge e tenendo in considerazione la

situazione in cui versa l’autore del reato al momento del compimento dello stesso. T.

sostiene, invece, che la mitigazione o l’esclusione della pena non hanno alcun rapporto

con il reato commesso, dipendendo invece dalle circostanze nelle quali il crimine si è

verificato e dalle qualità personali del reo che vengono valutate dal giudice.

Nel suo trattato T. sostiene la possibilità che il giudice possa escludere o limitare la pena

ed elenca, seppur in modo non sistematico quali siano i motivi che possono condurre a

tale decisione. È comunque necessario osservare che le ipotesi, previste da T., che

consentono al giudice di far ricorso alla propria discrezionalità nell’applicazione della pena

derivano quasi tutte dalle consuetudini e non trovano fondamento nelle legge, sia essa

regia che romana.

Tra i fattori esimenti la responsabilità del reo T. suddivide quelle che concernono uno stato

individuale di momentanea incapacità del soggetto quali ad esempio l’ira o l’ubriachezza,

seguono poi quelle legate ad una condizione personale come ad esempio l’età, il sesso o

le origini nobili piuttosto che povere.

Infine T. tratta le figure che attenuano la responsabilità del reo quali ad esempio

l’ignoranza del fatto o il dolo lieve oppure ancora il caso in cui il delitto è stato commesso

in forza di legami di sangue, o verso amici e vicini. Osservando queste ultime figure di

attenuazione della responsabilità possiamo notare un dato caratteristico del medioevo ma

rilevante anche nel ‘500, ossia l’appartenenza di un soggetto ad una comunità, la quale,

se da un lato esige rispetto e dedizione, dall’altro, offre tutela all’individuo.

Secondo T. altra causa esimente o attenuante della responsabilità è la condizione di

povertà del reo, che può appunto essere indotto a delinquere dallo stato di necessità.

Altre cause esimenti o attenuanti si hanno nel caso in cui il reo subisca una violenza

morale per timore di un’autorità (ordine del superiore) o nel caso di un’istigazione.

Ancora il tentativo può essere punito diversamente rispetto alla condotta che ha provocato

il danno.

Anche la condotta che il reo ha tenuto prima del reato è importante per determinare la

pena: i meriti acquisiti verso lo stato o un comportamento lodevole non possono non

influenzare favorevolmente la decisione del giudice.

Infine la determinazione della pena dipende anche dalle circostanze nelle quali il reato si

consuma: se vi è il concorso di cause o un comportamento delittuoso anche della vittima,

questo non può non influenzare la decisione del giudice.

Concludendo il de poenis sarà un’opera di usuale consultazione per la dottrina. Il

problema dello spazio da riconoscere al giudice e del suo arbitrium è un elemento al quale

la legge cerca di dare risposte efficienti in termini di funzionamento complessivo del

sistema, oscillando tra una formazione di dettaglio (quindi che tende a limitare la libertà del

giudice) e una sorta di delega in bianco al giudice (il che gli consente ampia

discrezionalità). CAPITOLO VI

Dettagli
Publisher
A.A. 2016-2017
28 pagine
2 download
SSD Scienze giuridiche IUS/19 Storia del diritto medievale e moderno

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Fuocopk di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia del diritto medievale e moderno e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Verona o del prof Rossi Giovanni.