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Attivismo e relativismo fascisti In antitesi rispetto a comunismo e democrazia, il fascismo si distinse anche da

conservatorismo e ideologia reazionaria, per le discriminanti date da attivismo e primato della politica. Il pensiero

conservatore è infatti solitamente scettico verso qualsiasi mutamento radicale, che non tenga conto di condizioni

storiche e naturali, e seppure non accetti i principi di un ordine costituito, ritiene deleteria la rivoluzione. Il

conservatorismo non ha il mito del futuro, e non accetta il primato della politica mostrandosi fedele alla distinzione

tra le forme autonome dello spirito (origine della diversità fra Croce e Gentile). Le ideologie reazione hanno invece

come principio l’idea dell’ordine come archetipo assoluto; la politica è strumento di valori eterni e immutabili, e

secondo alcune realizzati in particolari società del passato. A differenza del fascismo, hanno invece il mito del

passato, e giudicano la storia come degenerazione continua. Fra ideologia reazionaria, conservatrice e reazionaria vi

furono quindi confutazioni e collusioni, ma non si può parlare di un ceppo unico: quella fascista, poi, non era

assimilabile neppure al tradizionalismo, inteso come fedeltà ai valori permanenti. Senza queste differenze formali,

non si comprendono storicamente le ideologia di alcuni intellettuali fascisti. L’opinione di una cattura ideologica del

fascismo da parte del nazionalismo risulta quindi infondata, ed è al più possibile dire che fu il fascismo ad assorbire

il nazionalismo. Il fascismo affermò l’idea di nazione come mito, mentre per i nazionalisti era realtà naturale; per il

fascismo non vi erano invece principi oggettivi, e in un mondo considerato senza senso, la vita umana era soltanto

manifestazione della volontà di potenza, senza giustificazione metafisica. Accettando l’identificazione di Adriano

Tilgher tra fascismo e relativismo, Mussolini affermò che il fascismo fu la più formidabile creazione di una volontà di

potenza, individuale e nazionale. Analogamente, Drieu La Rochelle ripeté il concetto, individuando nel capo e nel

gruppo subordinato il cuore del fascismo, riconosciuto a suo dire dallo stesso Nietzsche, che aveva postulato nella

volontà di potenza l’autonomia dell’uomo.

La politica come spettacolo Dalla concezione fascista della vita derivò il modo fascista di fare politica, organizzando

la vita sociale facendo appello all’istinto, alla fede e al fascismo del Capo. Il fascista non discuteva la dottrina, poiché

vi credeva soltanto, e il fascismo apparve come un’evasione da tutto ciò che dava dimensione alla vita, sottraendole

il carattere pittoresco. Avventura, eroismo, rituali di massa e martirio in guerra: questi erano i caratteri del gruppo

fascista, secondo un atteggiamento soggettivo verso la politica, per cui si parlò di romanticismo fascista. Contro il

materialismo di capitalismo e comunismo, il fascismo rialzava i valori dello spirito, astraendo l’individuo dalla sua

dimensione burocraticamente imposta dal degradante sistema collettivistico della società moderna. Il fascismo

parve riportare colore e gioia, e nello Stato totalitario la vita era spettacolo continui, dove l’umo sfascista si esaltava

rispetto alla massa, con riti, simboli e il suggestivo richiamo alla solidarietà, secondo una fusione mistica piscologica

ed emotiva. Seppure questi siano aspetti diffusi anche in altri regimi totalitari, nel fascismo essi vennero posti come

l’ideale della vita e furono uno dei motivi di maggiore successo. La liturgia delle adunate e lo spettacolo della

gioventù affascinarono lo scrittore Brasillach. Un sistema politico basato sull’irrazionalismo riduce la partecipazione

politica allo spettacolo di massa; quando si disprezza l’uomo per il suo idealismo reazionale, allora l’uomo stesso è

ridotto a elemento della folla, e in quanto tale suggestionabile solo attraverso la sopraffazione psicologica e la

manipolazione delle coscienze. Esaltando la fantasia e i complessi si distrugge però la capacità di scelta e critica

dell’individuo: simboli e riti – come la Battaglia del grano – diventano quindi l’unica partecipazione possibile delle

masse al poter, come spettatrici del dramma che si svolge con loro ma al di sopra.

La tragedia del pessimismo attivista L’ideologia fascista si presentava nelle due forme contradditorie di esaltazione

vitalistica dell’esistenza, corsa verso la grandezza e la morte eroica, oppure come realismo cinico e spregiudicato,

semplificazione della vita civile e sociale a scontro di volontà e potenza. Gli intellettuali fascisti furono per questo

definiti da Giaime Pintor come intellettuali senza fede, poiché celavano la radice del fallimento nella loro concezione

della vita; sempre Pintor, a proposito del fallimento degli intellettuali fascisti, scrisse che non si poteva infatti essere

pessimisti verso l’uomo in quanto tale. Questi intellettuali credevano infatti che il fascismo fosse l’ultima fase di

splendore dell’Europa prima della sua fine; per il suo pessimismo attivista il fascismo era quindi destinato

inevitabilmente a sfociare in tragedia, in quanto – per l’idea di trasformare l’uomo disincantato in eroe integro, senza

però dargli la fiducia di cambiare – la strada per la fine era segnata fin dall’inizio.

9. Il fascismo come religione politica

Nella società moderna la secolarizzazione non ha separato definitivamente religione e politica: fin dalla rivoluzione

americana è stata la politica, addirittura, ad assumere una autonoma dimensione religiosa, cui è corrisposta

addirittura la sacralizzazione della politica, manifestatasi all’epoca delle rivoluzione democratiche e al culmine nei

movimenti totalitari. Fascismo e nazismo diedero un impulso decisivo, ma anche democrazia, socialismo e

comunismo contribuirono alla nascita dei nuovi movimenti secolari, e la tendenza dei movimenti politici ad assumere

aspetti religiosi, con la formulazione di credenze e il culto fideistico, fu notata già a inizio secolo scorso. Gaetano

Mosca trattò in modo unitario il fenomeno associativo di chiese, partiti e sette, interpretando le manifestazioni

religiose della politica attraverso le categorie positiviste, considerando un prodotto del bisogno di fede delle masse.

Intanto Le Bon e Pareto usarono la definizione di nuova religione per interpretare il socialismo secondo un’ottica

pessimistica dell’irrazionale nella storia. La sacralizzazione si nutre dalle tradizioni premoderne, ma nasce dai conflitti

della modernità, e da una tensione che è conseguenza della contraddizione fra il carattere espansivo della

secolarizzazione e la necessità di mantenere un nucleo universalmente accettato, senza il quale la società cesserebbe

di esistere. Nella società secolarizzata le religioni politiche rispondono alla richiesta di integrazione, istituzionalizzata

attraverso il partito; perciò queste religioni non vanno analizzate come espedienti demagogici soltanto, ma come

espressioni sociali di una esigenza collettiva, forte quando al collettività stessa – a causa della tensione della

modernità – aspira a recuperare il senso pieno della vita. Le religioni secolari possono avere quindi diversi gradi di

pericolosità per un sistema democratico – sempre vulnerabile –, a seconda che si manifestino come religioni civili,

più discrete, o come integraliste religioni politiche. I movimenti totalitari si sono quindi affermati come religioni

politiche, hanno intensificato l’aura sacrale del potere e attribuito a sé e ai propri capi funzioni legate alla definizione

della vita. Le religioni politiche, come spiegato da Sironneau, riproducono la struttura delle religioni tradizionali,

articolata nelle quattro dimensioni di fede, mito, rito e comunione, che si propongono di realizzare per mezzo dello

Stato e del partito una metanoia della natura umana, da cui deve risorgere l’uomo nuovo. Esse sono religioni dello

Stato determinate a sostituirsi a quelle dell’uomo, e la modernità ha fornito tutti gli strumenti per l’organizzazione

della vita collettiva. Per quanto ampiamente trascurato, anche durante il fascismo la religione politica ebbe non poco

peso; questo fu notato già da alcuni contemporanei, seppure inizialmente fu considerata soltanto una esaltata

manifestazione di religione della patria. Schneider e Clough, nel 1929, capirono invece che il fascismo possedeva i

tratti embrionali di una nuova religione, capace di fare presa nel cuore degli italiani. Il fascismo ebbe fin dalle origini

un carattere di religione secolare, e quando giunse al potere coltivò l’ambizione di rivaleggiare con la Chiesa cattolica

per il controllo delle coscienze: la cautela imposta dai fallimenti già avvenuti in altri Stati, indusse però il fascismo ad

adottare un atteggiamento di realismo politico, piuttosto che uno di fanatismo ideologico, e avviò una sorta di

sincretismo. Come osservò Armando Carlini Mussolini, della religione, capiva solo il alto umano e storico, ma aveva

anche una grande considerazione per la potenza della religione nella vita collettiva. Si convinse quindi che il fascismo

dovesse assumere il primato della politica, ma che una guerra di religione fosse assolutamente da evitare: tutto, è

ben espresso dallo stesso duce in un rapporto segreto, del 1930, dove lo stesso elenca i motivi per cui sarebbe

svantaggioso rischiare una sicura sconfitta sul piano puramente religioso, ma al contempo rilancia la necessità di

rivaleggiare sul piano politico, sociale, sportivo. Sulla stessa linea rimase il duce quattro anni dopo, ironizzando sul

neopaganesimo nazista, quando ribadì che, nel concetto di fascismo totalitario, la religione rimaneva libera e

indipendente sul piano religioso; riteneva, anzi, che uno Stato che semina turbamento spirituale dovesse guardarsi

da ogni intervento strettamente religioso. L’interesse del fascismo per la religione, comunque, era poetico e non

religioso, ed essa veniva usata come instrumentum regni. Per Mussolini il cattolicesimo era nato come setta, aveva

acquisito universalità a Roma e meritava rispetto in quanto religione dei padri, prodotto ed espressione della stirpe

italiana, e non come universale religione dell’uomo. Il fascismo non ebbe un suo Dio, ma riconosceva quello pregato

genuinamente dal popolo; lo Stato non aveva quindi una teologia, ma una morale. Come osservò Herman Finer, per

il fatto stesso di rivendicare una morale, il fascismo evocava anche una divinità propria, arrogandosi il diritto di

definire il significato dell’esistenza. In tal senso, il fascismo non si limitò a venerare il dio della tradizione, ma costruì

un proprio universo di miti e riti. Per la sua natura totalitaria il fascismo era spinto a confondere i confini fra politica

e religione, affermando il primato della politica come espe

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Publisher
A.A. 2015-2016
23 pagine
19 download
SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-STO/04 Storia contemporanea

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher VeronicaSecci di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia contemporanea e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Cagliari o del prof Atzeni Francesco.