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Per alcuni studiosi, comparare i genocidi vuol dire sminuirne alcuni a discapito di altri. Ternon, a
questo proposito, diceva che «per fare delle camere a gas, ci è mancato il gas», non intendeva
dire in realtà che l’uno vale l’altro, bensì che si cercano punti in comune, prendendo in
considerazione anche genocidi lontani da noi.
Esquivel (Nobel per la pace 1980) li definisce “genocidi silenziosi” (riferiti all'America latina)
Charny ricorda quattro elementi per comparare i genocidi:
1. Definizione del gruppo vittima che l’autore del genocidio stesso da.
2. Grado/livello di intenzionalità (è questo che distingue genocidi da massacri di guerra)
3. Il profilo degli esecutori, a volte persone banali.
4. Varie forme di perpetrazione del genocidio: sistematica, sporadica, selettiva (deportazione,
carcerazione, torture, esecuzioni).
Capitolo I – Alle radici del comportamento genocidario contemporaneo
1. I massacri dimenticati della conquista coloniale
Gli storici della colonizzazione distinguono 2 tipi di perdite: - perdite subite durante le guerre di
conquista e - perdite dovute alle conseguenze del dominio esercitato sulle società indigene.
Durante le guerre di colonizzazione, le vittime dei nativi sono sempre molte di più rispetto a quelle
dei colonizzatori , i quali hanno il progresso dalla loro parte. Anche la semplice importazione
dell’economia occidentale (in particolare il mercato dei cereali), ha portato a carestie con milioni di
decessi (a queste si aggiungono le epidemie importate dai colonizzatori). Per esempio, nel caso
dello spopolamento del Congo belga, si può parlare di genocidio? Ci vuole quello che Ferro
chiama «libro nero del colonialismo», ma comunque si può dedurre che non tutte le barbarie
dell’epoca coloniale possono essere etichettate come genocidio, perché questi furono perpetrati
con indifferenza, legati ad un ideologia universalistica.
2. L’immaginario omicida del darwinismo sociale
Darwin (1859 - L’origine della specie, 1871 - L’origine dell’uomo) era interessato a queste
conclusioni radicali, riprese poi da Spencer, chiamandolo «darwinismo sociale», egli riteneva che
la concorrenza europea avrebbe portato allo sterminio delle razze inferiori. Dopo il 1850 viene
progressivamente legittimato il razzismo fondato sulla teoria della selezione naturale. La legge
della conservazione delle razze conduce all'estinzione di tutte le razze inferiori. Marestang mostra
l'analogia tra l’individuo che invecchia e muore e le razze che subiscono la stessa sorte. Gli
scienziati spiegano che la scomparsa di queste popolazioni è dovuta ad una fatalità storica e
biologica. Heackel, addirittura, fa una classificazione delle razze in chiave evoluzionistica, dalle
razze nere le ultime agli indogermanici i primi). Gumplowicz sostiene che le razze sono alla base
dei processi sociali in una lotta che le oppone le une alle altre. Esse sono più simili ad una
comunità umana come risultato di fattori storici, sociali e nazionali, che a un'entità biologica in
senso stretto. Nel 1954, Lukàs sosteneva che le tesi di Gumplowicz sono l’anello mancante tra il
razzismo di Gobineau e la teoria razziale moderna di Hitler. Arendt sostiene che è con
l’imperialismo che la razza acquisisce importanza determinante. Si arriva ad un’antropologia
politica «applicata» cioè produrre una razza sempre più nobile, cercare dei “mezzi” per farlo e il
mezzo utilizzato da Hitler alcuni anni dopo, è quello dello sterminio diretto.
3. La guerra del 1914 come educazione alla violenza estrema
La prima Guerra Mondiale è stata molto violenta, una rivoluzione, per i seguenti aspetti: fu una
guerra totale, con sterminio di civili, nemici interni/popoli sospetti, nacque la cultura di guerra. La
sublimazione ideologica del Fronterlebnis, conseguenza dell'opinione comune secondo cui la
Germania è stata sconfitta, avviene in modo aggressivo, cercando la figura del traditore,
considerato la causa del fallimento. Questo è il punto d'incontro tra la cultura di guerra tedesca e
l'antisemitismo, il «vissuto di fronte» e il «bolscevismo di trincea», dove le masse si politicizzano e
nascono due forti identità: di classe (socialismo) e nazionale (nazionalismo).
Capitolo II – Armenia, 1915: il primo genocidio moderno
1. L’acquisizione di una mentalità omicida all’epoca di ‘Abd ul Hamid
Tra gli anni '40 e '60, si crea un clima di anarchia amministrativa nelle province orientali dell’impero
(con il 70% degli armeni), a causa della centralizzazione iniziata con il Tanzimat, del potere
illimitato alle tribù curde, si da più importanza agli ordini religiosi, vi é un afflusso di musulmani
rifugiati (post crisi dei Balcani). Nel 1876 sale al trono Adb ul Hamid e l’islamismo diventa
l’ideologia ufficiale, a fronte di ciò, nessuno fa niente, il trattato di Berlino si rivela poco efficace,
quindi nascono i primi partiti politici armeni e questi vengono considerati traditori. Così Abd ul
Hamid fa massacrare i contadini armeni della regione montuosa del Sasun, i quali rifiutavano la
duplice pressione fiscale, dello Stato e dei feudatari curdi. Il culmine di questi stermini lo si
raggiunge, però, nel 1984, nella regione del Van, dove 350 villaggi spariscono letteralmente, da li
la cosa degenera e si arriva a 250.000 vittime. Il tutto è fomentato da un senso d'impunità che
alimenta la logica della violenza, esasperare una situazione di crisi già esistente scatenando la
resistenza degli armeni e la strumentalizzazione della religione (armeni cristiani-ortodossi vs
musulmani).
2. La novità radicale dell’avvenimento del 1915
Una particolarità del genocidio del 1915 è di essere stato sotto l’occhio di osservatori neutrali
(svizzeri, americani, ecc) che rappresentavano la comunità internazionale. Ciò agevolò sia le
associazioni umanistiche che prestarono soccorso i rifugiati sia alla stampa di far conoscere al
mondo che si tratta di un vero e proprio omicidio di massa esteso al paese intero. Ci furono arresti
e deportazioni, istituzionalizzati dalla Legge temporanea di deportazione, in realtà il nome era
fittizio, perché i deportati venivano uccisi. La deportazione avveniva in 2 fasi: la deportazione vera
e propria con i massacri e il successivo internamento dei superstiti nei campi di concentramento
della Siria settentrionale e Mesopotamia. Queste deportazioni erano affidate ad un'organizzazione
speciale, formata da criminali ed ex detenuti. Nell’aprile del 1916 vennero massacrate 40.000
persone e lasciati in vita solo i deboli, destinati ad una morte naturale. Aleppo diventò una sorta di
capitale della deportazione.
Toynbee, storico e ufficiale dell'intelligence britannica in Anatolia, sosteneva che il governo
centrale dei ministri Giovani turchi e i loro complici di Costantinopoli sono gli unici responsabili (i
subordinati, se non seguivano gli ordini avrebbero fatto una brutta fine).
3. Il progetto dei Giovani turchi
Un ministro turco giustificò la cosa dicendo che gli armeni si sono arricchiti sulle spalle dei turchi, i
quali volevano creare uno stato indipendente, hanno aiutato i russi nel Caucaso, provocando la
sconfitte dei turchi. In realtà gli Armeni si sono opposti concretamente dopo gli eccessi di Abd ul
Hamid, essi volevano una riforma pacifica e moderata del sistema, per questo “appoggiarono” la
Russia. L’identificazione degli armeni come pericolo concreto, nasce in seguito alle sconfitto
subite, persero tanti territori, così gli armeni costituirono l’ultima grande minoranza non musulmana
a carattere nazionale. I Giovani turchi vogliono importare il modello giacobino europeo, ma nella
sua versione deteriore, quella in cui dominano i modelli dittatoriali. L’accostarsi dei turchi agli
imperi di Attila e Gengis Khan, lascia trapelare un determinismo biologico, in seguito si
affiancarono alla Germania nel conflitto anche per il progetto genocidario.
4. Il genocidio armeno tra oblio, negazione e riconoscimento tardivo
Il sultano istituì un processo contro le autorità che avevano trascinato il paese in guerra e i Giovani
Turchi scapparono. Nel '21 ci fu la vittoria dei kemalisti e il ritorno dei nazionalisti portò ad
un’amnistia generale, di conseguenza il genocidio venne negato. Finché nel 1973 si riconosce
questo come primo genocidio del secolo. Negli anni successivi anche l’U.E. lo riconobbe, e
riconobbe che il mancato riconoscimento da parte della Turchia costituì un «ostacolo
insormontabile». Gli U.S.A. (per non inimicarsi il loro alleato in medio oriente) parlarono di «stragi
deliberate». La Turchia negò che ci fu stato un popolo vittima, un’azione unilaterale e
un’intenzionalità dello Stato.
Capitolo III – Politiche genocidarie nella Russia sovietica
1. L’inizio del terrore di massa sotto Lenin
Con Lenin, il concetto di terrore di massa, diventa fondamentale, formula che appare fin dal 1905,
quando le masse sono incitate a compiere azioni terroristiche in grado di combattere il regime di
terrore instaurato dagli zar. Il 5 settembre del 1918 (per pura coincidenza anche il terrore francese
inizia il 5 settembre ma del 1793) nasce, per difendere la Repubblica sovietica dai suoi nemici di
classe, isolandoli in campi di concentramento, il Terrore Rosso/Sovietico. La classe nemica viene
vista come responsabile dei disordini. Nel 1920, in Crimea vennero ammassati migliaia di borghesi
nell’istmo di Perepok, questi vennero uccisi, deportati o risparmiati, in quest'ultimo caso venivano
muniti di tessera gialla, in modo che tutto il popolo le potesse sorvegliare.
L’opposizione è forte contro i cosacchi, che appoggiavano i Bianchi, insieme a loro i borghesi e i
contadini ricchi. Riprendevano il Marxisimo e il Darwinismo, e ciò li autorizzava a compiere
determinate scelte. Questi echi verranno, in seguito, colti da Stalin nel 1929, con la grande svolta.
2. «La liquidazione dei kulaki in quanto classe»
Dal 1918 iniziò la politica delle requisizioni, a questa si oppongono i contadini e ci furono le
cosiddette «rivolte dei kulak (il pugno: colui che presta il denaro)» nonostante la maggior parte
erano contadini poveri. Stalin mirava ad una collettivizzazione di massa fondata sulla
dekulakizzazione. La causa scatenante fu la crisi dei raccolti del 1928, il contadino era visto come
borghese, quindi come classe nemica, questi venivano deportati nel Grande Nord (di proposito,
infatti un quinto di questi moriva durante il viaggio).
Le ragioni che ci permettono di definire quest’azione un genocidio:
- I bolscevichi definirono il