vuoi
o PayPal
tutte le volte che vuoi
I MASSACRI DIMENTICATI DELLA CONQUISTA COLONIALE
Il dominio dell'Europa nel 19 secolo è passato attraverso i massacri delle popolazione indigene, giustificati dagli scienziati dell'epoca. Gli
storici distinguono 2 tipi di perdite: quelle subite durante la guerra di conquista e quelle conseguenza del dominio esercitato sulle
società indigene.
Il massacro è quasi sempre unilaterale. La prima generazione delle popolazioni colonizzate non tenta neanche più di sopravvivere a
causa del sistema di sfruttamento della manodopera nell'agricoltura o nei cantieri ferroviari, la diffusione su vasta scala di malattie
nuove o endogene.
Anche la resistenza alla colonizzazione e la conseguente fase repressiva possono avere conseguenze drammatiche su popolazioni già
in calo, come i Baulé in Costa d'Avorio.
E' legittimo paragonare il colonialismo alle catastrofi del 20 secolo? Nonostante numerose guerre impari e massacri punitivi di massa,
esistono casi che dipendono da concezioni e pratiche diverse.
Bisogna considerare, per Palmer, tre aspetti. Come nella distruzione degli herero dell'Africa sudoccidentale da parte dei tedeschi tra il
1904 e il 1906. Qui venne portata avanti politica di preparazione al genocidio, di discriminazione e di segregazione razziale.
Intenzionalità di sterminio, bisognava trovare una soluzione.
I coloni vivono presenza degli herero come una minaccia per considerazione di economia pratica, ma in Germania si aggiungevano
anche motivazioni ideologiche.
La maggior parte dei massacri coloniali non rientra nella categoria del genocidio, ma furono perpetrati nella totale differenza.
L'IMMAGINARIO OMICIDA DEL DARWINISMO SOCIALE
Darwin aveva lasciato il compito di trarre delle conclusioni sociali e storiche alla sua teoria.
Spencer, nel suo darwinismo sociale, riteneva che la scomparsa delle razze inferiori colonizzate dagli europei fosse il risultato di una
concorrenza spietata.
Dopo il 1850 venne legittimato il razzismo fondato sulla teoria della selezione naturale. Lo sterminio diventa corollario del progresso. Gli
europei iniziarono a osservare i casi di sterminio più evidenti con distacco dovuto alle certezze della scienza evoluzionistica. Biologi e
sociologi hanno banalizzato il razzismo da punto di vista scientifico, fino a creare vulguta da applicare concretamente in ambito politico
e sociale.
Haeckel fu importante nella diffusione di un immaginario razzista alla fine del 19 secolo. Propose precisa classificazione delle razze
umane, stabilendo gerarchi in chiave evoluzionistica. Dai neri fino agli indogermani in cima. Mescolava convinzioni pangermananistiche
e odio nei confronti del cristianesimo. Bisognava ora passare alla spiegazione dinamica della scala gerarchica. Ci si dedicò
Gumplowicz. Per lui, le razze sono alla base di tutti i processi sociali, in una lotta che le contrappone e che costituisce il motore della
storia. Nel suo libro LA LOTTA DELLE RAZZE afferma che la storia è una serie di lotte spietate in cui l'odio razziale collega le diverse
epoche. Nella storia umana è in gioco il dominio e lo sfruttamento della razza più debole da parte di quella più forte, un processo
all'origine di ogni civiltà. La lotta di cui parla è un processo permanente che di continuo mette in questione la supremazia conquista. La
razza vinta può mescolarsi a quella dominante, creando nuova razza. La razza di Gumplowicz è più una comunità umana come risultato
di fattori storici e sociali, e infatti il suo darwinismo sociale si unisce alla lotta di classe marxista.
La tesi di Gumplowicz può persino legittimare alcune scomparse, perché spiega storia umana come processo di morte necessario e
quindi freddo.
Le classi dirigenti europee osservarono estinzione delle razze selvagge e nella più totale indifferenza. La dottrina che considera
omicidio collettivo come causa del progresso del genere umano pone dunque fine a un secolo di umanesimo liberale.
Su queste basi venne istituito un nuovo diritto internazionale, che sanciva il diritto della razza più forte di annientare la più debole.
LA GUERRA DEL 1914 COME EDUCAZIONE ALLA VIOLENZA ESTREMA
La prima guerra mondiale fa capire ai contemporanei che un certo tipo di guerra non esiste più. Gli storici possono a buon diritto definire
la violenza che si scatena in Europa estrema.
Il conflitto del 1914, prima della vera e propria guerra totale, pone dall'inizio il problema della distruzione del nemico.
Il consenso della morte di massa anonima, con l'aggiunta del piacere di dare la morte. Tutto è per messo, per regola.
Nella guerra totale il conflitto mortale coinvolge tutte le forme sociali, con una conseguenza troppo spesso dimenticata sulla concezione
stessa della morte. Nella gamma di violenze occorre sottolineare il carattere unilaterale, ma bisogna ricordare come il civile è
considerato un nemico oggettivo, che costituisce minaccia solo perché esiste.
Le atrocità commesse nei primi tempi della guerra vennero mitizzate, ma furono tristemente reali. Nei racconti e nei rapporti delle
commissioni d'inchiesta si è vista la creazione di una realtà distorta, un nemico assoluto e barbaro, sul quale tutto l'odio possibile poteva
esserne riversato. La realtà allucinata ha permesso di capire come potesse essere accettata una guerra così lunga nonostante le
sofferenze indicibili.
Freud affermò che con il sostegno degli intellettuali, gli europei hanno dichiarato il loro nemico inferiore e degenerato, affetto da malattia
mentale e spirituale. La cultura del nemico è responsabile dello scoppio della guerra e del suo svolgimento. Il nemico totale, già
barbaro, diventa animale nocivo. L'alta mortalità durante gli anni di guerra è dovuta non solo alle innovazioni tecniche ma alla creazione
di una cultura di guerra imperniata sull'odio per il nemico. La fase di decivilizizzazione del 14-18 ha portato altre conseguenze, che
annunciano le future decivilizzazioni. La guerra ha condotto all'indifferenza per la morte. Fa così la sua comparsa l'ampia gamma di
parole chiave della disumanizzazione dell'avversario.
La Germania riteneva di non essere stata sconfitta, e questo rappresenta il punto di incontro tra la cultura di guerra tedesca e
l'esplosione di antisemitismo popolare che accompagnava l'annuncio della sconfitta. L'antisemitismo è sintomo del processo di
brutalizzazione indotto dalla guerra, l'ebreo dalla fisionomia criminale. Tra il 18 e il 19 l'ebreo venne dipinto come protagonista della
rivoluzione di novembre. La guerra per molti tedeschi, come Hitler, non era finita e bisognava vendicare il paese e prendersi una
rivincita, sterminando il traditore giudeo-bolscevico.
Bartov afferma che nonostante le differenze tra genocidio degli ebrei e le violenze del fronte tra il 14-18, la Soluzione finale sarebbe
stata inconcepibile senza la Grande Guerra. E anche il bolscevismo affonda le proprie radice nell'uomo nuovo nato dalla G.Guerra.
Emerse un vero potere soldato, alla base del futuro bolscevismo di trincea.
Il bolscevismo sociologico si basa sulla stessa cultura, sullo stesso odio nella rappresentazione del nemico dei fascisti. E ciò spiega la
violenza inaudita della repressione bolscevica all'inizio del 1918. E questa violenza multiforme getta le basi del terrore istituzionalizzato
da Lenin a partire dal settembre 1918.
Durante la Grande guerra Lenin ridefinì una strategia e una pratica rivoluzionaria in cui qualsiasi contestazione è destinata a risolversi
nell'ambito di una guerra civile. La cultura di guerra nata dal conflitto del 1914-18 rappresenta una delle cause certe della violenza
totalitaria degli anni Trenta-Quaranta, ma bisogna soffermarsi sulle conseguenze umane e giuridiche della conclusione della Grande
guerra, che fece emergere alla sua fine un nuovo fenomeno in Europa, quello degli apolidi e dei rifugiati. Tanti Stati europei emanarono
leggi che permisero di privare del diritto di cittadinanza coloro che durante il conflitto sono stati giudicati antinazionali. Subito dopo la
guerra in Europa una moltitudine di persone non gode più della tutela dei diritti umani. Solo i cittadini che costituiscono il gruppo
dominante in una nazione godevano dei diritti istituzionali. Le minoranze dovevano attendere la loro totale assimilazione, cioè
l'annullamento della loro identità sociale e culturale.
ARMENIA 1915: IL PRIMO GENOCIDIO MODERNO – CAPITOLO 2
Due tipi di analisi degli eventi del 1915: il primo attribuisce a questi eventi alla recrudescenza in chiave moderna di una vecchia
tradizione ottomana → il ricorso ai massacri come strumento della politica di Stato per risolvere i conflitti con le minoranze sottomesse.
Il secondo tipo li considera come l'apice di tutta una serie di atrocità commesse contro i civili durante la Grande guerra, cioè come un
crimine di guerra e un crimine nella guerra al tempo stesso.
L'eradicazione programmata degli armeni dall'altopiano anatolico, è stata pianificata dall'autorità dello Stato, che agiva in nome di un
progetto ideologico globale. Avviata il 24 aprile 1915, condotta efficacemente e velocemente, non è solo il prodotto della cultura del
massacro cominciata sotto il regno di Abdul Hamid, ma inaugurò l'era moderna del genocidio.
L'ACQUISIZIONE DI UNA MENTALITÀ OMICIDA ALL'EPOCA DI ABDUL HAMID
La questione armena diventò parte integrante della questione d'oriente alla fine del XIX secolo. I conflitti tra l'impero ottomano e le sue
minoranze vennero affrontati con il trattato di Berlino del 1878, e inserì tra le preoccupazioni della diplomazia internazionale la
situazione dei macedoni e degli armeni.
La questione armena è un problema regionale in primis, le cui origini risalgono agli anni 1840-60. Le province orientali dell'impero
entrano in crisi per molteplici cause, portando ad un deterioramento delle condizioni di vita degli armeni. Le riforme rimarranno lettera
morta, e il nuovo regnante Abdul Hamid fece dell'islamismo ideologia ufficiale, che portava ad affermare la supremazia musulmana nei
territori dell'impero. Vista la paralisi degli Stati europei verso la questione armena, le popolazioni oppresse si organizzarono in partiti
politici, che lavoravano prettamente per l'autodifesa, ma che fecero precipitare gli avvenimenti, visto che i turchi cercavano una
giustificazione per la politica repressiva verso un popolo considerato potenziale traditore.
Il governo di Hamid escogitò una soluzione modello: massacrare i contadini armeni nella regione del Sasun, all'inizio dell'estate 1894.
Tali azioni punitive provocarono un fenomeno di reazione a catena e le atrocità culminarono e si conclusero nel 1896. In tre anni le
vittime sono state tra i 200-250 mila, con 1 milione di persone depredate e spogliate di tutti i propri beni, oltre a migliaia di donne rapite.
Per Dadrian, proprio allora nei vertici dello Stato si