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IL DOPOGUERRA IN ITALIA E L’AVVENTO DEL FASCISMO

4.

A guerra finita la classe dirigente liberale si trovò sempre più contestata e isolata e non si dimostrò in grado

di dominare i fenomeni di mobilitazione di massa che il conflitto mondiale aveva suscitato e finì col perdere

l’egemonia. Risultarono invece favorite quelle forze socialiste e cattoliche, che si consideravano estranee

alla tradizione liberale dello Stato e non erano compromesse con le responsabilità del conflitto. Furono i

cattolici a portare il primo e più importante fattore di novità, dando vita, nel gennaio del 1919 al PPI (Partito

Popolare Italiano), avente come primo segretario don Luigi Sturzo, che si presentava con un programma

politico di impostazione democratica ed era strettamente legato alla Chiesa. L’altra grande novità nl

panorama politico italiano fu la crescita impetuosa del Partito Socialista, in cui era prevalente la corrente di

sinistra, ora chiamata massimalista, rispetto a quella riformista. I massimalisti, aventi come leader il direttore

dell’ “Avanti!” Giacinto Menotti Serrati, si ponevano come obiettivo immediato l’istaurazione della Repubblica

socialista fondata sulla dittatura del proletariato e si dichiaravano ammiratori della rivoluzione bolscevica.

Questa corrente, che all’interno del PSI forma gruppi di estrema sinistra, si schierava su posizioni

apertamente rivoluzionarie e si preclusero ogni possibilità di collaborazione con le forze democartico-

borghesi, spaventate dalla minaccia della dittatura proletaria e che si proponevano a loro volta di difendere i

valori della vittoria. Fra questi ultimi movimenti faceva spicco quello fondato a Milano da Mussolini col nome

di Fasci di Combattimento, protagonisti del primo grave episodio di guerra civile dell’Italia postbellica: lo

scontro con un corteo socialista avvenuto a Milano il 15 aprile 1919 e conclusosi con l’incendio della sede

dell’Avanti. In Italia alla fine della guerra, agli elementi di grave disagio sociale, si aggiunse la delusione per i

risultati dei trattati di pace considerati insoddisfacenti e umilianti per l’Italia. Si diffuse perciò il mito della

“vittoria mutilata”, uno degli elementi che resero possibile l’avventura fiumana di D’Annunzio. Il 2 settembre

del 1919 D’Annunzio alla testa di gruppi volontari e di alcuni reparti ribelli all’esercito, occupò Fiume, ne

proclamò l’annessione all’Italia e dichiarò costituita la Reggenza del Carnaro. L’impresa fu la realizzazione

delle aspirazioni nazionalistiche ampiamente diffuse in Italia. I nazionalisti che volevano una politica di

potenza e di affermazione imperialistica, con l’impresa di Fiume reagivano ai limiti che i trattati di pace

avevano posto all’espansione territoriale italiana. L’impresa però, fu anche il segno di una grave crisi politica;

il governo non era riuscito ad impedire l’iniziativa militare autonoma e dovette tollerare per circa un anno

l’esistenza di una situazione anomala. Solo nel novembre del 1920 il nuovo governo Giolitti riuscì a risolvere

la questione , con il Trattato di Rapallo con la Jugoslavia: in esso Fiume venne riconosciuta stato

indipendente e l’Italia rinunciò alle pretese sulla Dalmazia. Le prime elezioni politiche del dopoguerra diedero

misura delle trasformazioni avvenute rispetto al periodo prebellico ma mostravano anche la gravità delle

fratture che mostrava il sistema politico. Furono queste le prime elezioni tenute col metodo della

rappresentanza proporzionale con scrutinio di lista: metodo che prevedeva il confronto fra liste di partito

(anziché fra singoli candidati) e che contrariamente al vecchio sistema del collegio uninominale assicurava

alle varie liste un numero di seggio proporzionale ai voti ottenuti e favoriva i gruppi organizzati su base

nazionale. L’esito fu disastroso per la vecchia classe dirigente ( i socialisti si affermarono come primo partito

seguiti dai popolari). Il sistema proporzionale non favoriva la formazione di maggioranze omogenee. Dal

momento che il PSI rifiutava ogni collaborazione coi gruppi borghesi, l’unica maggioranza possibile era

quella basata sull’accordo fra popolari e liberaldemocratici. Su questa precaria coalizione si formarono gli

ultimi governi dell’era liberale. Sul piano interno il ’19-’20 fu una fase di acute agitazioni sociali: moti contro il

carovita, scioperi operai e agrari, occupazione delle terre. Nelle fabbriche di Torino gli operai diedero vita ad

uno sciopero generale nella primavera del 1920. Gli industrial si erano già organizzati in associazione

fondando nel 1919 la Confederazione dell’Industria. Tra gli operai aveva grande influenza il giornale

socialista Ordine Nuovo, diretto da Gramsci, il quale spingeva gli operai all’azione rivoluzionaria ed erano

centrati sui consigli di fabbrica (nucleo organizzativo con cui i lavoratori potevano assumere e gestire il

potere politico). Nel corso delle agitazioni per il rinnovo del contratto gli industriali fecero ricorso alla serrata:

lo scontro non era solo sindacale ma aveva un chiaro significato politico (gli operai intendevano dimostrare

la loro capacità organizzativa e di gestione della produzione). All’interno del sindacato e del partito socialista

la maggioranza fu contraria a sostenere l’occupazione delle fabbriche, a indire uno sciopero generale e a

puntare alla rivoluzione. Si riprese perciò la via della trattativa mediante la quale gli operai ottennero buoni

risultati per quanto riguardava il contratto di lavoro, anche grazie alla mediazione di Giolitti, allora capo del

governo. Il gruppo di Gramsci e altri gruppi della sinistra socialista condannarono l’incapacità della

maggioranza dei dirigenti socialisti di guidare con coerenza e chiarezza la forza del movimento operaio.

Questa divergenza avrebbe influito sulla divisione del PSI e sulla nascita del PCI (Partito Comunista

Italiano), nel gennaio del 1921al congresso di Livorno. In questa situazione il fascismo, che inizialmente non

aveva una chiara ideologia, si poneva in sintonia con gli interessi dei ceti sociali e dei gruppi economici che

avevano potuto sostenerlo, ovvero vasti settori della borghesia media e piccola, che nel dopoguerra scopriva

di aver pagato pesanti costi in termini economici e di perdita del peso politico. Agli occhi di questa classe

sociale il fascismo si presentava come movimento politico in grado di imporre radicali cambiamenti e di

ripristinare l’ordine che era stato sconvolto dalla guerra. Il fascismo mostrava di sostenere e rispettare gli

ideali nazionalistici che nei ceti piccolo e medio borghesi erano molto sentiti; ma soprattutto riusciva a

riscuotere l’approvazione di questi ceti in quanto si opponeva alle organizzazioni operaie, che con le loro

rivendicazioni erano considerate elemento di crisi e disordine. Per questa sua contrapposizione al

movimento operaio e contadino, il fascismo fu sostenuto da una consistente parte della borghesia industriale

e della grande proprietà terriera. Questi gruppi economici si resero conto ben presto che la vocazione

rivoluzionaria del fascismo non costituiva un serio rischio e che il movimento fascista poteva essere utile per

contrastare l’azione delle organizzazione dei lavoratori. Le adesioni e il sostegno al fascismo erano anche

una reazione al rischio di una rivoluzione socialista, sull’esempio di quella russa del ’17. Il fascismo trovò

simpatie anche in parte della classe politico liberale, che pensava di utilizzarlo per ostacolare l’avanzata dei

partiti popolari e poi neutralizzarlo. Trovò complicità e approvazione anche all’interno degli organismi statali

che non ne bloccarono le azioni illegali e le iniziative di violenza. Tali iniziative di violenza, che colpivano i

sindacati socialisti e cattolici, le cooperative e le sedi dei partiti, erano messe in atto dalle cosiddette

squadracce (squadre d’azione fascista), le cui spedizioni miravano a bloccare ogni rivendicazione dei

lavoratori e a far fallire le azioni di sciopero. Furono sostenute da grandi proprietari terrieri che intendevano

in tal modo eliminare ogni forma di organizzazione sindacale dei contadini. Successivamente anche alcuni

gruppi industriali diedero il loro sostegno alle squadre d’azione fasciste, che poterono contare anche su

molte simpatie all’interno di quegli organi di stato che avrebbero dovuto impedire le azioni violente. Giolitti

non valutò in pieno il potenziale eversivo del fascismo (nel frattempo era anche nato il PNF- Partito

Nazionale Fascista); pensò che potesse essere utile per frenare il successo dei socialisti e che sarebbe

stato poi possibile eliminarne le caratteristiche di violenza e incanalarlo nel sistema parlamentare. Giolitti

ritenne che il momento fosse propizio per nuove elezioni che consentissero di ridurre, in Parlamento, la forza

dei partiti di massa (PSI, PPI) e di rafforzare le forze librali. Il Parlamento fu sciolto e nel maggio 1921 si

tennero le elezioni, ma le attese di Giolitti furono deluse, i partiti di massa si rafforzarono e al Parlamento

giunsero anche 35 deputati fascisti. Giolitti si dimise e i governi che si succedettero (il primo guidato da

Bonomi e i due successivi da Facta) furono troppo deboli e non riuscirono a controllare una situazione che

diventava sempre più difficile, con le violenze fasciste che si moltiplicavano in varie parti d’Italia. Le forze

liberali non riuscivano più ad esprimere un governo sufficientemente forte; socialisti e cattolici avevano una

consistente rappresentanza in Parlamento, ma non entrarono a far parte delle maggioranze di governo. In

questa situazione Mussolini cercava di accreditare una sua immagine di politico in grado di ripristinare

l’autorità dello Stato e l’ordine sociale. Eliminò dai suoi programmi tutto ciò che poteva ancora essere

ritenuto eccessivamente rivoluzionario, antimonarchico, anticlericale. Ritenne che il momento fosse propizio

per un colpo di stato, e il 28 ottobre 1922, gruppi di fascisti marciarono su Roma, senza trovare alcuna

resistenza. Facta, capo del governo aveva chiesto che il re firmasse lo stato d’assedio per poter disperdere i

fascisti con l’impiego dell’esercito, ma il re rifiutò e anzi affidò a Mussolini l’incarico di formare il nuovo

governo. Nei primi tre anni, fino al 1925, Mussolini puntò a trasformare gradualmente il modello istituzionale

dello Stato italiano, cambiando l’equilibrio tra i diversi organismi e rafforzando il controllo fascista su di essi. Il

Parlamento vide limitate le sue prerogative e la sua influenza sulla vita del paese; il governo, saldamente in

mano ai fascisti, ampliò la sua sfera d’influenza ed estese i suoi poteri ai danni del Parlamento; nel 1922

venne costituito i Gran Consiglio del Fascismo, un organo del Partito Fascista, che però avrebbe avuto un

ruolo sempre più importante nel governo de

Dettagli
A.A. 2015-2016
24 pagine
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SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-STO/04 Storia contemporanea

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher ariannapicistrelli di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia contemporanea e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Roma La Sapienza o del prof Gentiloni Umberto.