vuoi
o PayPal
tutte le volte che vuoi
INTRODUZIONE
Seneca e le Epistulae morales ad Lucilium
Nell’antichità, da Platone in poi, la lettera fu con il dialogo, genere letterario privilegiato nella
comunicazione filosofica (cfr. le Lettere di Epicuro a Meneceo, a Erodoto e a Pitocle). Le
Epistulae ad Lucilium sono concepite come sforzo di direzione spirituale, il cui fine è
l’educazione filosofica e morale e insieme anche l’autoeducazione del destinatario e dell’autore.
Secondo Aldo Setaioli, la raccolta sarebbe divisa in due sezioni: le lettere dal 1 a 88 hanno
carattere parenetico ovvero di esortazione filosofica, mentre quelle da 89 a 124 hanno un
carattere più dottrinale. In coerenza con i due livelli di sviluppo della materia, anche il registro
linguistico cambia.
Questa raccolta epistolare fu la prima revisionata dall’autore stesso, il che non accade ad
esempio nell’Epistolario ciceroniano che infatti proprio per questo motivo rivela ogni sfumatura
del carattere dell’Arpinate anche se quest’ultimo fece da modello agli epistolari delle epoche
successive (anche Seneca conosceva le Epistulae ad Atticum). La differenza tra l’epistolario
senecano e quello ciceroniano si rivela soprattutto in un passo di Seneca in cui si cita una lettera
dell’Arpinate: Lucilio ha chiesto a Seneca di scrivergli con più frequenza, ma il filosofo risponde
che ciò non gli impedirà di trattare questioni etiche di interesse comune, infatti non farà come
Cicerone che chiedeva ad Attico di scrivergli tutto ciò che gli passava per la testa > Seneca
quindi proclama qui la superiorità delle sue lettere rispetto all’epistolario ciceroniano. Per noi
oggi, è facile cogliere la differenza tra le lettere di Cicerone, spesso meramente informative,
rispetto a quelle di Seneca veri saggi etici, talora piuttosto ampi; tuttavia, bisogna anche
ricordare che da Cicerone Seneca trae un importante elemento strutturale: l’unicità del
destinatario. Nelle lettere Cicerone racconta sé stesso, i suoi atti e progetti; Seneca descrive
invece a Lucilio il suo rapporto con sé stesso, le sue reazioni a situazioni e fatti, come punto di
partenza per la riflessione filosofica.
Le Epistulae ad Lucilium rientrano nell’alveo della riflessione stoica, non senza suggestioni
epicuree. Infatti, nelle Lettere di Epicuro si trova un’atmosfera che ricorda quella delle lettere
a Lucilio: c’è la stessa familiarità con i discepoli-amici > è il contubernium, la comunità di vita
che contribuisce alla formazione filosofica e umana degli allievi. Tuttavia, rispetto ad Epicuro,
Seneca non si presenta come maestro infallibile, piuttosto si propone come ricercatore della
verità che avanza faticosamente anche a rischio di errori e cadute.
In Lucilio, prototipo di discepolo, deve identificarsi ogni uomo desideroso di progredire
moralmente, per trovare pace nella filosofia, che è medicina dell’anima. Il passaggio da Lucilio
alla pluralità dei potenziali destinatari plasma i riferimenti concreti nelle lettere che, da reali
ed effettivi, diventano fluidi, riferibili per traslato a ogni lettore.
Una delle ragioni della scelta della lettera come veicolo di insegnamento è l’importanza
dell’autore, inoltre se una delle cose migliori è vivere insieme la lettera è il miglior strumento
per ovviare alla lontananza fisica perché consente lo scambio più proficuo: fra due amici
impegnati in un percorso di progresso etico-spirituale si crea una catena comunicativa.
Un precettore imperfetto
Seneca non è un mittente-maestro infallibile: anzi, si presenta come colui che non solo esorta
ma che dallo scambio epistolare si sente sollecito a mettersi in discussione. L’epistolario di
Seneca è nel suo complesso il suo vero testamento spirituale.
Seneca non appare mai come icona inattingibile di perfezione: per esempio, sperimenta su sé
stesso il potenziale disumanizzante insito nel mescolarsi nella folla durante gli spettacoli che
ne solleticano i bassi istinti; oppure, parlando dei luoghi adatti al saggio ammonisce a non
lasciarsi sedurre dalle località alla moda, vero ritrovo di vizi eppure ammette di essere stato a
Baia e di mostra di conoscere bene i passatempi dell’élite in vacanza.
Molti spesso lo accusarono di incoerenza, infatti, a discapito di quando diceva nelle sue opere
Seneca avrebbe approfittato della sua fortuna a corte per arricchirsi enormemente e in effetti
era uno degli uomini più abbienti dell’impero. Egli si difende però da queste accuse affermando
di non essere un saggio e per darne ulteriore prova dice di affidarsi alla filosofia, la più efficace
medicina, per cercare di curare i mali dell’animo; tuttavia, non pensa di possedere la perfetta
salute, né di poterla mai raggiungere, anzi, è consapevole di essere un malato come tanti,
ricoverato nello stesso ospedale di tutti.
La ricchezza, per il filosofo, non è in sé né un bene né un male: possederla non è, in linea di
principio, vietato al filosofo, purché sia acquisita senza ingiustizia, bene impiegata, e non se ne
sia schiavi.
L’Epistola 70 e il suicidio a Roma
L’argomento capitale dell’opera filosofica di Seneca è la morte sia come esperienza quotidiana,
sia come annullamento dell’individualità.
Spesso, secondo le dottrine stoiche, fa capolino l’idea di una possibile sopravvivenza dell’anima:
la morte è un ritorno alle origini, dove ci aspetta un’altra nascita, un altro ordine delle cose. La
morte riguarda il corpo, non l’anima, ma lo storico, esercitato alla meditatio mortis non teme
nulla, infatti togliendo la maschera che nasconde la verità delle cose è possibile ridurne il
timore. Vivendo la morte come un’esperienza quotidiana, ci incammineremo verso di essa senza
timore, anche nel caso saremo noi a procurarcela.
La lettera 70 tratta del suicidio, e alcuni codici la riportano con un sottotitolo redazionale “De
morte ultro appetenda”. Essa prende le mosse da una circostanza casuale: Seneca, dopo molto
tempo, è tornato a Pompei, la città di Lucilio, e la sua vista lo porta a una serie di considerazioni.
Il suo ritorno a Pompei gli ricorda la sua gioventù e gli sembra di poter compiere ancora, a più
di sessant’anni, quanto faceva allora. Da qui, con una citazione virgiliana, si passa alla non insolita
metafora della vita come navigazione. E dall’esperienza del viaggio per mare Seneca trae spunto
per parlare del suicidio: la morte non deve terrorizzare, infatti, essa è un porto, e se la
navigazione terrena è breve, non ci si deve dolere, perché alcuni invece sono stati “macerati”
da un’attesa snervante di concludere la vita, come chi non può sbarcare e si sfibra nel tedio di
“una persistentissima bonaccia”. Ecco il concetto chiave: non conta la durata, ma la qualità della
vita.
Una volta stabilito che la morte non è un male, giacché per gli stoici è “adiaphoron” = cosa
indifferente, ne viene che non lo è nemmeno la morte prematura (“immatura mors”). Infatti,
secondo Seneca, muore prematuramente solo chi, pur in tarda età, capisce di aver sprecato la
propria vita.
Oggi il suicidio è un problema etico-morale, spesso visto come atto estremo di un’anima
disperatamente infelice e incapace di reggere sofferenze schiaccianti. Ai tempi di Seneca era
ancora lontana l’affermazione del cristianesimo, che ha plasmato la nostra etica e il suicidio era
valutato in un’altra ottica. Il principato s’era imposto limitando le libertà politiche e la
persecuzione dei nostalgici della repubblica aveva causato il suicidio di personaggi importanti.
La dottrina della libertà stoica si basava sulla liceità di liberarsi della vita in ogni momento:
anche Seneca pensa che vivere non sia un bene in sé e per sé, in quanto non ogni vita è sempre
e comunque degna d’essere vissuta. Il sapiens stoico, Catone l’Uticense ne è l’esempio, vivrà
tutto il tempo che deve vivere, non tutto il tempo che può vivere: appena si profila il rischio di
perdere la libertà di autodeterminarsi, deve considerare “attentamente” se sia arrivato il
momento di porre fine alla vita. Tuttavia, il sapiens potrebbe decidere di non condannarsi di sua
mano anche se incombe una fine certa, dato che talora, anticipare con il suicidio la condanna a
morte sarebbe un riguardo nei confronti dell’esecutore materiale della sentenza.
In Seneca non c’è né una difesa né una critica al suicidio: si potrebbe invece parlare di una
difesa della libertà. Il filosofo si sente, infatti, incapace di fornire delle regole generali:
impossibile stabilire a priori se quando si viene condannati a morte sia meglio prevenire o
attendere la condanna. a volte il suicidio può essere addirittura una scelta poco consona: è il
caso di Druso Libone, a cui la zia Scribonia consiglia di non suicidarsi, ma di attendere il
carnefice. Libone accusato da Tiberio di intendersela con gli astrologi e gli indovini, si tolse la
vita dopo il giudizio del senato. Venendo riportato a casa in lettiga, cominciò a deliberare se
suicidarsi ma Scribonia gli consigliò di non farlo chiedendogli quale piacere avrebbe trovato
nell’assolvere un compito altrui. Proprio in quanto convinto difensore della libertà umana, il
filosofo sa che è stolto morire solo per il timore della morte. Seneca ribadisce il diritto
dell’uomo a morire, scegliendo in base alle circostanze esterne, ma anche in base al suo
temperamento, in nome della difesa della libertà, che è, in primo luogo, libertà di scelta, del
vivere e del morire.
Seneca, ricorda anche che alcuni filosofi affermano che non si debba far violenza alla propria
vita e ritengono empio farsi uccisori di sé stessi; tuttavia, secondo Seneca, essi non
comprendono che pensandola in questo modo mutilano la libertà umana.
Per Seneca era molto vergognoso il comportamento di quel rodiense che invece che scegliere la
morte per inedia aveva deciso di mantenere viva la speranza di una vita, anche se in condizioni
non libere e senza alcuna dignità, parimenti indegno di un uomo libero è il comportamento di
Mecenate, infatti, il suo timore davanti alla morte è evidente.