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APPENDICE
1. CARMEN e il lessico della magia
Nell’Apologia possiamo trovare tutto lo spettro semantico di parole che indicano le azioni, le
formule magiche, i filtri e i venefici. Le “formule magiche” di cui A. viene accusato di aver fatto
uso sono appunto espresse con la parola carmen, carminis > la parola designa in origine una
formula ritmata, spesso una formula magica, ma anche le formule con il tessuto di allitterazioni,
omoteleuti e la struttura in cola simmetrici tipici che dovevano essere anche di facile
memorizzazione proprie della prassi religiosa e giuridica.
Per quanto riguarda l’uso di carmen nella lingua religiosa ricordiamo il “Carmen Saliare” e il
“Carmen Arvale”. L’ambito agricolo pare quindi l’ambito privilegiato della credenza nella capacità
di “incantare” le messi altrui con formule magiche. Nella lingua letteraria, invece, carmen ha
designato il “verso” e in generale ogni tipo di canto, anche la melodia di uno strumento.
L’etimologia popolare associava carmen al nome dell’antica divinità Carmenta e in epoca tarda a
carmino, verbo della I coniugazione. Affine a carmen è cantamen, inis = formula magica,
anch’esso usato da A. in riferimento ai sortilegi.
Alcune della prerogative delle fattucchiere sono fermare il corso dei fiumi, invertirlo, e in
generale, esercitare il loro potere sulle acque: essi sono tutti elementi che si ritrovano in
Apollonio Rodio quando descrive Medea e nel sesto libro della “Pharsalia” di Lucano che afferma
che le maghe possono portare o allontanare secondo la loro volontà nubi e pioggia. L’idea per cui
la sovversione dell’ordine naturale, e addirittura, la facoltà di bloccare i fenomeni terrestri e
celesti sarebbero tipiche del potere delle maghe, ritorna anche in Apuleio nelle “Metamorfosi”.
Anche Virgilio attesta il potere delle formule magiche nelle “Egloghe” dove una fanciulla sedotta
e abbandonata, impegnata in un rito di magia erotica, dice che le formule magiche possono
togliere il senno alla persona amata, procurare la trasformazione da uomo in lupo, evocare le
anime dal fondo dei sepolcri o trasportare da un campo all’altro le messi.
Nell’Apologia, il ragazzo stregato da A. che in realtà soffriva di epilessia, secondo i suoi
accusatori sarebbe stato stregato da una formula magica. I “filtri” che A. avrebbe realizzato
sono veneficia (venenum, i = decotto di piante magiche + facio). Venenum è il sinonimo del greco
pharmakon e con il tempo assume non tanto il senso di farmaco o pozione medicamentosa ma
solo quello di veleno. Ancora Sallustio però mantiene l’idea che si tratti di una vox media tanto
da precisarla con un aggettivo. I derivati di venenum hanno tutti un senso peggiorativo.
Quanto all’etimologia della parola magia come sappiamo A. riconnettendola a un’arte bene
accetta agli dei immortali, una sorta di “magia sacerdotale” distillato della sapienza di Zoroastro
e Oromazo, la riconduce alla mageia con cui, in unione con l’arte del regno, viene istruito colui
che tra i Persiani è destinato a governare.
Nell’Apologia, al contrario che in Petronio, non troviamo mai la parola strix, strigis e che indica
un rapace notturno e in seconda battuta una strega per la sua supposta capacità di trasformarsi
in uccello, credenza attestata anche nelle Metamorfosi in cui A. descrive la trasformazione di
Panfila in bubo = gufo, un rapace notturno. Un altro termine per indicare la strega è saga, ae
che deriva dall’aggettivo sagus, a, um e che significa “profetico” o “che pratica stregoneria”;
dalla medesima radice derive il verbo sagio, is, ire = aver finezza di sentire o buon fiuto >
presagio.
Nell’Apologia non troviamo una delle parole associate più frequentemente all’ambito magico:
murmur, is. Esso però compare nel romanzo di A. presentando la terribile terra tessala è la
formula terribile e funesta capace di agire sulla realtà naturale. Murmur è un termine
onomatopeico che designa il suono cupo di alcuni elementi naturali, in ambito magico è una
formula pronunciata in modo indistinto, intellegibile. In generale, quindi, carmen è la forma già
razionalizzata, ben precisa nella formulazione tecnica, murmur è l’espressione meno tecnica, più
naturale della vox magica.
2. Il lessico dell’accusa, della condanna e della pena
CRIMEN, is = capo d’accusa – se poi esso è infondato può valere come “calunnia”.
L’atto di accusare è definito da verbi come accuso, insimulo, arguo…
L’imputato è il reus, i e deriva da res, rei inteso come “affare legale, processo” > il reus è
propriamente la parte in causa in un processo. Accusare qualcuno si dice reum facere aliquem e
l’accusa che viene intentata a carico del reus viene normalmente espressa in genitivo, più
raramente con de + ablativo. Nelle lingue romanza, il reus, passa a indicare il colpevole. Derivato
da reus è reatus, us che indica ciò che si rivela a carico dell’imputato quindi il crimine, reato o
colpa.
Le accuse riguardavano varie imputazioni, tra le quali le più interessanti linguisticamente oltre
al crimen magiae di cui è accusato A. ci sono: il repetundarum pecuniarum crimen = accusa di
concussione, il de ambitu crimen = accusa di corruzione o broglio elettorale, il crimen minutae
maiestatis = accusa di lesa maestà.
Il dimostrare la colpevolezza di qualcuno è azione indicata dal verbo convinco, is, vici, victum,
ere = dimostrare la colpevolezza di qualcuno in relazione a un’accusa, si costruisce
personalmente e spesso dal verbo dipende un infinito o un’infinitiva.
La pena viene solitamente espressa: in ablativo in unione a verbi come damno, condemno, multo,
punio se la condanna è determinata, con un genitivo avverbiale se la condanna è generica. Nella
tarda latinità il complemento che indica la condanna cominciò a essere espresso anche con ad +
accusativo.
La pena più grave era quella capitale = capitis damnatio per la quale era prevista in età
repubblicana la possibilità di provocatio ad popolum ovvero di appello al popolo come controllo al
potere repressivo del magistrato. Un’altra interessante espressione è quella che indicava la
condanna all’esilio ovvero aqua et igni alicui interdicere = impedire a uno l’uso dell’acqua e del
fuoco, cioè impedirgli di vivere in città e costringerlo ad andarsene.
3. La famiglia e la parentela
Apuleio per il giovane Pudente è il patrigno, definito vitricus, i un termine che si è conservato
in romeno e sardo. La matrigna è la noverca, ae e solitamente per definizione era ostile quando
non rovinosa per i figli di primo letto del marito. Nell’Apologia, troviamo una trama che sovverte
i topoi codificati dalla narrativa e dalla commedia: il patrigno è disinteressato e anzi si prodiga
perché la madre non diseredi i figli.
Un ruolo fondamentale è quello esercitato dallo zio paterno dei ragazzi, Emiliano detto patronus,
ovvero il fratello del padre a cui in caso di morte del padre stesso passava la tutela dei nipoti.
Patronus = zio da parte di padre.
Avunculus = zio da parte di madre.
Amita = zia da parte di padre.
Matertera = zia da parte di madre.
I parentes invece sono i genitori, ma qualche volta al singolare può indicare anche solo uno dei
due genitori. Il verbo parento letteralmente vuol dire offrire un solenne sacrificio funebre ai
genitori e in generale a familiari e a persone care; per traslato parento può anche indicare il
vendicare la morte di qualcuno con la morte di un altro.
La storia delle parole aventi come oggetto la parentela ha sempre a che vedere con il sangue,
dei componenti della famiglia, o versato per vendicarne un componente.
4. FAS – IUS
Il termine indeclinabile fas era accostato, fin dai tempi antichi, come pure l’aggettivo fastus al
verbo for, faris, fatus sum, fari = parlare. Il senso di fas indica il permesso, l’ordine, ciò che è
consentito dagli dei, quindi vale come “diritto divino”, contrapposto a ius ovvero il “diritto
umano”. Nefas = contrario al diritto divino, è ugualmente indeclinabile. L’epiteto fasto/nefasto
si applicava soprattutto ai giorni.
Ius invece ha per lo più il senso di “diritto”, “legge positiva”. Lo iudex è colui che ius dicit ovvero
che mostra, indica o dice il diritto. Lo iudicium è il giudizio o il tribunale. Ius è un concetto che
non è solo morale, ma prima ancora religioso e dà alla parola il suo valore (= conformità a una
regola, condizioni da soddisfare perché l’oggetto sia accettato, compia il suo ufficio e abbia
tutta la sua efficienza), tuttavia in latino presto il termine si specializza nel senso prettamente
laico di “diritto, giustizia umana”.
Una sfumatura semantica diversa hanno i termini iniura e contumelia > il termine contumelia ha
in sé la sfumatura del sottostimare, disprezzare; i latini ricollegavano iniura alla radice ius,
mentre contumelia veniva fatto risalire da contemno = disprezzare.
5. GRAECISSARE
Apuleio, per presentare la nefasta influenza che Emiliano ha avuto su Pudente, afferma che
oltre ad aver preso deplorevoli abitudini, il giovane ha trascurato gli studi e si è imbarbarito. Il
verbo graecisso, as, are che A. recupera consapevolmente dalla latinità arcaica dandogli la
sfumatura semantica di “parlare (un po’) il greco” sta propriamente per “imitare i Greci”. In
generale, il verbo che indica invece il “vivere alla Greca, vivere imitando i Greci” è deponente
graecor, aris, atus sum, ari.
Nell’età delle conquiste (II secolo a.C.) da una certa parte dell’élite romana di orientamento
conservatore, il cui esponente massimo fu Catone il Censore, il diffondersi della cultura, degli
usi e costumi greci veniva visto in modo sfavorevole, quasi che potesse contaminare e
distruggere la tradizionale severità e purezza del mos maiorum. Anche in Plauto, che sebbene
con tutta probabilità non fosse personalmente e coscientemente antigreco, usa per ben cinque
volte il verbo pergraecor “vivere alla greca” per indicare il darsi all’ozio, al vino, alle donne,
trascurando i doveri, in primo luogo la sobrietà e la laboriosità, che il cittadino romano doveva
mettere in pratica.
Questo verbo è testimone di una fase di contatto e assimilazione, anche turbolenta e che diede
origine a scontri ideologici, fra due modelli culturali diversi.
In Apuleio, l’intellettuale è invece formato oltre che in latino anche