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Se per Baudelaire adulto il peccato originale è un articolo di fede dal contenuto superindividuale e
metastorico, per lui il bambino deve essersi identificato con una esperienza storica personale, con
una antica catastrofe affettiva. Altri versi di Baudelaire sono colmi di rimpianto e infinitamente più
circostanziati sui ricordi d’infanzia, basati sulla malinconia, sulla misantropia e sul disgusto del
mondo. Il disastro edipico ha rattristato la dolcezza dei ricordi dell’epoca felice e i momenti di
integrale e scoperto abbandono a quei ricordi saranno in tutta l’opera di Baudelaire una
indimenticabile pagina di lettera e una sublime poesia, perché l’atteggiamento dell’abbandono vi
sarà costantemente ripudiato insieme alla natura, al progresso, al vegetale irregolare, alla nudità,
alla passione e all’ispirazione. In chiave propriamente autobiografica non c’è dunque da
meravigliarsi se non ci restano che due righe di Baudelaire sulla sua infanzia. Parlando non mai 12
direttamente di sé, Baudelaire ha intuito e formulato con ammirevole lucidità di cui è capace lo
stretto rapporto fra patrimonio individuale di emozioni e impressioni infantili e funzionamento delle
doti artistiche e lo dà per un rapporto normalmente sottovalutato, quasi inafferrabile per gli altri,
spesso inconsapevole per l’artista. La presenza di ricordi d’infanzia nella poesia moderna,
baudelariana e post implica un uso letterario implica un uso letterario di essi che è in certo modo
opposto a quello dei memorialisti studiati: la tradizione di costoro si rivolgeva tutta sotto il segno
della sincerità, dell'abbandono schietto ai processi e agli oggetti della sincerità, dell'abbandono
schietto ai processi e agli oggetti della memoria e ricava dunque in partenza le potenzialità di
storicizzazione personale o sociale del ricordo che furono talvolta pienamente sviluppate. Nella
poesia da Baudelaire in poi ricordi e impressioni di origine infantile circoleranno sempre più
insistentemente ma per così dire dissimulati, disancorati e sciolti da ogni contesto che possa dirsi
storico o realistico, investiti volta per volta in intense immagini ed associati secondo la pura
attrazione reciproca di queste. Baudelaire è il perno d'una tale svolta, in quanto dai suoi traumi
individuali e da quelli della sua generazione fu fissato in un antiromanticismo reazionario che lo
portò fra l'altro a detestare ed evitare quasi definitivamente la confessione in versi chiara e diretta,
respingendo ad un livello metaforico-simbolico più profondo le massime tensioni emotive della sua
tematica.
Raccontare la propria infanzia di Sergio Zatti
Di fronte all’odierno proliferare delle più eterogenee forme di scrittura dell’Io si stenterebbe a
credere che l’autobiografia sia un “genere” relativamente moderno e che abbia durato non poca
fatica a conquistarsi un posto riconosciuto nel canone letterario. A partire dagli anni Settanta, gli
studi sull’autobiografia si sono mossi sul doppio binario della prospettiva storica e della definizione
semiotica e morfologica. Soprattutto in area francese e angloamericana, il dibattito si è impegnato
a definire i confini incerti e mobili fra autobiografia in senso stretto e letteratura dell’io, mirando a
classificare le diverse forme che la memorialistica ha assunto nella storia. La nascita e i destini
dell’autobiografia in Occidente sono legati alle filosofie dell’individualismo borghese che per prime
ne favorirono l’esistenza e ne hanno poi a lungo accompagnato e sostenuto le fortune, talché le
autobiografie si possono considerare come le fonti privilegiate per studiare i mutamenti storici
intervenuti nei modi di pensare e parlare dell’io in rapporto ai codici culturali che le diverse epoche
hanno elaborato. A partire dai grandi temi filosofici dell’identità e della memoria, gli studiosi hanno
affrontato via via questioni più specifiche, che vanno dallo statuto di verità del racconto
autobiografico ai meccanismi di costruzione dell’autocoscienza, dalle infedeltà della memoria alle
infedeltà della scrittura alla memoria e dunque agli inganni della “rappresentazione”. Nodo cruciale
degli studi autobiografici è l’individuazione del passaggio dalla generica pulsione egoistica al “dire
di sé”, che è alla radice di ogni volontà autobiografica e che attraversa l’intera letteratura
occidentale nei secoli manifestandosi secondo modalità storiche variabili per forma e per stile di
scrittura, e il costruirsi in genere letterario di un preciso canone autobiografico caratterizzato da
norme retoriche e convenzioni espressive. Questa presa di coscienza avviene in significativa
coincidenza con il sorgere del novel moderno. Prima del XVIII secolo si possono riconoscere due
modalità principali di scrittura avvicinabili all’autobiografia quale oggi viene definita: l’autobiografia
religiosa incentrata sui temi della conversione e ispirata ai modi della confessione e certa
memorialistica del Rinascimento laicamente ispirata alla saggezza antica e spesso con forte
prevalenza dell’aspetto egoistico sull’istanza morale e didascalica. Senz’altro la stretta aderenza al
“vissuto” e la singolarità irripetibile di ogni esistenza hanno reso problematica la definizione di un
genere della continua reinvenzione di se stesso, in certo modo destinato a perpetuarsi non a
dispetto delle proprie contraddizioni, ma proprio grazie ad esse. E tuttavia, a incidere più in
profondo è qualcosa che ancora precede ed è il gravare di un doppio interdetto di natura morale e
sociale. Il diritto all’autobiografia è una lenta conquista maturata attraverso forme progressive di
democratizzazione e secolarizzazione dello spazio tradizionalmente consacrato all’espressione di
un Io che soltanto nascita, fama o rango legittimano a proporre la propria vita in forma esemplare.
Il consolidamento storico dell’autobiografia è legato alla maturazione e alla presa di coscienza
dell’individualismo borghese: nasce quando si comincia ad assumere se stessi come oggetti di
conoscenza, quando l’impresa è reputata degna e assume i caratteri di una urgenza rivendicabile
con consapevolezza e orgoglio. La nascita dell’autobiografia moderna è strettamente collegata alla
rivendicazione di un diritto nuovo alla parola che contraddistingue una classe emergente e i suoi 13
rappresentanti intellettuali. Nel passaggio dall’autobiografia aristocratica a quella borghese “gli
attributi dell’uomo qualunque diventano progressivamente un bando da ostentare piuttosto che un
limite di cui chiedere scusa”. Nell'epoca della comunicazione di massa e del piccolo divismo da
rotocalco o da teleschermo chiunque è legittimato a scrivere e pubblicare la propria autobiografia.
Bastano un minimo di notorietà, una sufficiente dose di scandalismo e un editore convinto del
tornaconto dell’impresa. Ma in quanto atto protagonistico ed egocentrico per eccellenza, lo scrivere
di sé ha dovuto sempre circondarsi di cautele e precauzioni: ha prodotto cioè regole e
compromessi intesi a superare restrizioni, censure e interdetti che modulano misura e forma della
“confessione” su cui si fonda il rapporto di fiducia istituito con il suo destinatario. Le affettazioni di
modestia che ancora affollano le autobiografie per buona parte dell'Ottocento sono l’embrionale
abbozzo di un apparato retorico e il primo sintomo storicamente percepibile del fatto che il genere
che più di tutti sembra celebrare il trionfo dell’individualità risulta in sostanza fortemente vincolato
alle norme della convenzione letteraria. In attesa di definire certe regole per la sua scrittura,
l’auobiigrafo moderno ha imbastito nel corso dei decenni un fitto dialogo col suo lettere e questo,
insieme con una forte coscienza autoriflessiva, ha a lungo supplico la scarsa codificazione formale
del genere. L’auobiigrafo si sente in dovere di stipulare patti continui col lettore a partire da quello
indicato come fondante di ogni autobiografia: l’obbligo della sincerità. Nello sviluppo storico del
genere il Lettore ha infatti progressivamente sostituito il Dio di Agostino come garante di veridicità
e misura del giudizio. L’appello del lettore e il patto fiduciario diventano così caratteristiche
peculiari del genere e si iscrivono nello statuto retorico che vanno fondando. Il patto di volta in
volta rinegoziato fra le due parti ha fissato nel tempo le regole di un genere letterario e scandito le
sue modificazioni diacroniche.
Il racconto dell’infanzia ha subito un decorso storico singolare: per secoli negato o ridotto al
minimo, è diventato col tempo oggetto di un interesse progressivamente crescente, fino al punto
che oggi appare inimmaginabile un racconto memoriale che non indugi adeguatamente su questo
periodo della vita umana e non gli attribuisca un’importanza fondamentale ai fini di
un’interpretazione complessiva della personalità di un individuo. Nella lunga battaglia per
conquistarsi un suo territorio autonomo, l’infanzia sembra essersi presa le sue rivincite con largo
credito, anche grazie al fondamentale impulso della psicanalisi che, in certo modo erede di
quell’interesse, non poteva che rilanciare e consolidare l’attenzione per la memoria delle
esperienze infantili. Il ricordo d’infanzia gode di uno statuto di legittimazione ancora più fragile e
precario del genere di cui oggi si riconosce essenziale componente. Esso è in certo modo il luogo
di condensazione di tutte le inibizioni e interdizioni autobiografiche. La sua storia è la storia di una
progressiva caduta di censure, rimozioni e tabù che a lungo ne hanno negato il diritto all’esistenza
letteraria.
Il mutamento dell’atteggiamento nei confronti dell’infanzia è il risultato di una lunga evoluzione
antropologica e culturale. Gli studiosi della mentalità hanno messo energicamente l’accento sulla
storicità della categoria di infanzia cercando di fissare i diversi approcci culturali che hanno
contribuito a definirne statuto, identità e valori. Nell’Antichità, e ancora lungo tutto il MedioEvo,
permane un sostanziale disinteresse per i primi anni di vita, forse anche perché la diffusa mortalità
infantile riduceva a poca cosa il valore accordato a questa età di vita. A lungo il bambino è stato
considerato soltanto un adulto imperfetto e anche l’iconografia lo ha di norma rappresentato con
tratti, posture e abbigliamenti che sono quelli dell’adulto. L’egemonia di questo modello
razionalistico ha fatto sì che a lungo sia mancato un definito status antropologico e sociale