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V.
A Dante non interessa tanto condannare Niccolò III quanto condannare gli ancora vivi Bonifacio VIII e
Clemente V; si tratta dello stesso espediente usato con Cavalcante. Dante accusa Bonifacio di aver
ottenuto il ruolo papale con l’inganno, per poi straziare la Chiesa con le sue azioni simoniache. Il
predecessore di Bonifacio, Celestino V, secondo le fonti storiche fu il primo papa dimissionario; secondo i
commentatori dell’epoca, queste dimissioni furono forzate dal suo successore. Clemente V è il primo di una
serie di papi francesi, colui che trasferì la sede papale ad Avignone, manifestando la vicinanza alla
politica dei Re francesi; di lui Dante parla sempre malissimo. Viene usata un’ulteriore allusione biblica dal
Vecchio Testamento, nel libro dei Maccabei, nel capitolo IV si parla del sacerdote Giasone, che ha ottenuto
la carica in accordo con il Re di Siria; questo porterà poi alla distruzione di Gerusalemme. Così Clemente V
prenderà accordi col Re di Francia per lo spostamento della sede papale.
Niccolò III dichiara che Bonifacio passerà a testa in giù meno tempo di quanto ne abbia passato lui:
Niccolò è morto nel 1280, Bonifacio muore nel 1303 (23 anni). Dante non poteva però sapere quando
Clemente V sarebbe morto: la prima ipotesi è che Dante sia tornato su questo canto e lo abbia modificato
in seguito, anche se le modifiche sono molto complesse soprattutto dal punto di vista metrico, la seconda
ipotesi è che Dante abbia semplicemente indovinato, poiché le condizioni di salute di Clemente V non
erano ottimali.
Dante, indignato, prorompe in una fiera invettiva contro Niccolò III e contro l’avarizia dei papi, in
generale: dice che nel sostituire Giuda, gli apostoli fecero un sorteggio fra i discepoli vicini, da cui
risultò eletto Mattia, e non chiesero denaro in cambio. Successivamente dice che non usa parole
troppo aspre perché ha comunque rispetto per la carica del papa. Conclude biasimando la
donazione di Costantino, causa prima della corruzione della Chiesa.
Dante inizia con una citazione dai primi capitoli degli Atti degli Apostoli e prosegue con una citazione dal
libro dell’Apocalisse, il racconto degli ultimi tempi del mondo. Nel capitolo XVII c’è la visione di una
prostituta che si prostituisce ai Re della terra, che cavalcava una bestia nata con sette testa e dieci corna
da cui traeva potere. Ci si riferisce all’Impero romano, le sette teste erano i sette colli di Roma, le dieci
corna erano i primi dieci imperatori. Dante reinterpreta la visione in senso positivo: la grande prostituta
rappresenta la Chiesa, le sette teste e le dieci corna ebbero valore finché il marito (il papa) esercitava la
virtù.
Costantino, secondo la tradizione, avrebbe donato Roma al papa in segno di rispetto, ma proprio quel
gesto avrebbe determinato l’inizio del potere temporale della Chiesa. In realtà la donazione è un falso,
non è mai avvenuta ma prodotta dagli ambienti papali. Questo viene identificato come origine della
corruzione degli uomini di Chiesa.
Alle fiere parole di Dante il papa torce i piedi a causa dell’ira e del rimorso, e Virgilio, in silenzio,
manifesta la sua approvazione. Poi, preso Dante fra le braccia, lo porta dal fondo della bolgia fino
al ponte che scavalca la successiva.
Inferno - Canto XXVII
Dove: nell’ottavo cerchio, ottava bolgia
Peccatori: i fraudolenti, cattivi consiglieri, traditori di chi non si aspetta niente
Personaggi: Guido da Montefeltro
Terminato il racconto di Ulisse, questi si allontana e un’altra fiamma si avvicina: da questa esce un
confuso rumore che attrae l’attenzione dei due poeti. A un tratto il rumore si trasforma in voce; lo
spirito che sta nella fiamma, sentendo Virgilio parlare lombardo, dice di essere romagnolo e chiede
notizie della sua terra.
La pena dei cattivi consiglieri consiste nell’essere immersi in una lingua di fuoco, non possono vedere al
di fuori di sé, per questo Guido farà discorsi che non farebbe mai sapendo che Dante è destinato a tornare
sulla Terra. Il contrappasso è evidente: si tratta di peccatori di parola e di ingegno, per cui sono immersi in
“lingue” di fuoco.
Guido da Montefeltro era un condottiero ghibellino della seconda metà del ‘200, attivo soprattutto in
Romagna. Fu a capo della città di Pisa dopo l’imprigionamento del conte Ugolino della Gherardescam e
ottenne molte vittorie contro i Guelfi fiorentini. Anche nel suo caso ritroviamo l’ossessione di Farinata:
continua a sentirsi capo dei ghibellini anche da morto, e chiede come sia la situazione lì dove viveva.
Guido non vuole far sapere di sé sulla terra, poiché i suoi contemporanei lo credevano in paradiso: nel
1296 si ritirò in convento e si fece frate francescano. Durante la battaglia di Forlì, ingannò i francesi
fingendo la resa, li fece entrare in città e poi li attaccò di sorpresa.
Virgilio invita Dante a rispondere alla domanda, e il poeta si affretta a dichiarare che nella
Romagna non sono in corso guerre, ma che esse covano sempre nel cuore dei vari tiranni locali.
In rapida sintesi Dante delinea la situazione di Ravenna, Forlì, Rimini, Faenza, Imola e Cesena.
Il riassunto di Dante ci fa capire che, nei primi anni del suo esilio, ha fatto una bella esperienza politica che
gli permette di presentare il panorama politico generale della Romagna. Le città romagnole sono in mano
a tiranni, persone da niente, che covano l’idea della guerra; quasi sempre, le famiglie di questi tiranni sono
associate a un animale, che si trovava nello stemma familiare. Dante sottolinea questa caratteristica per
indicare come i tiranni si comportino da bestie. L’aquila della famiglia La Polenta tratta Ravenna come il
proprio nido e ha come obiettivo Cervia. Forlì è la città che sostenne un lungo assedio dei francesi, il
difensore ghibellino di Forlì era, non a caso, Guido da Montefeltro; la città si trova nelle mani degli
Ordelaffi, i leoni. Rimini è dei Malatesta, i mastini, cani rabbiosi che mordono dove trovano da mangiare.
Faenza e Imola erano governate da Maghinardo Pagani, un risaputo profittatore che cercava di allearsi
con tutte le parti politiche. Cesena è l’unica in bilico fra tirannia e stato comunale.
Data a Guido la risposta, Dante prega lo spirito di rivelare chi sia. Questi, credendo di parlare a un
dannato, dice di essere stato uomo d’arme e di aver usato più spesso l’astuzia che la forza, tanto
da esser noto per questo fino ai confini della Terra. Dichiara anche che non avrebbe mai detto
niente a qualcuno che dovesse tornare sulla Terra. Negli ultimi anni, pentito dei suoi peccati, rivestì
il saio francescano che gli sarebbe giovato se non fosse intervenuto il papa Bonifacio VIII a farlo
ricadere nell’antica colpa. Guido vuol spiegare il motivo per cui è ricaduto nel peccato: il papa, non
riuscendo a vincere con la forza i Colonnesi asserragliati in Palestrina, chiese a lui come vincerli
con la frode e, dinanzi allo stupore del frate, lo assicurò in anticipo dell’assoluzione del peccato,
minacciando velatamente la scomunica in caso di disobbedienza. Spinto da queste parole, Guido
consiglia di promettere molto agli avversari e poi di mantenere poco le promesse.
Per indicare la sua età, Guido utilizza una metafora marinaresca che riecheggia le parole usate da Dante
nel libro IV del Convivio: si riferisce alle corde usate per fermare le vele della nave, a indicare che si trova in
un’età in cui non si dovrebbe più andare a vele spiegate; nel Convivio, il poeta ci dice che Guido
effettivamente riuscì a “calar le vele”. Nella Commedia Dante si ricrede: la scelta di farsi frate, considerata
nel Convivio come il coronamento di una vita di cui andare fieri, viene qui usata come motivazione per
infamarlo ed etichettarlo come un truffatore. Non è chiaro perchè: o ha avuto notizie più precise sugli
avvenimenti, o si è inventato l’episodio di sana pianta; più probabilmente cambia la sua posizione
politica, e da guelfo è possibile che abbia voluto accentuare la condanna di un comandante ghibellino.
Stavolta Dante condanna Bonifacio per la sua sete di dominio e di potere: il papa stava combattendo
una guerra contro i Colonnesi, non contro i nemici del cristianesimo ma contro i cristiani stessi. Nessuno di
loro era stato all’assedio di San Giovanni d’Acri, ultima città del regno cristiano di Gerusalemme, e
nemmeno aveva commerciato in terra musulmana contro il divieto della Chiesa. Dante fa ricorso a una
leggenda: come Costantino, malato di lebbra, mandò a chiamare papa Silvestro I che si nascondeva sul
monte Soratte per via delle persecuzioni, e fu da questo battezzato e guarito, così Bonifacio chiamò Guido
per saziare la sua sete di potere. Inoltre, per rassicurare Guido, gli promette l’assoluzione in anticipo: si
tratta di una bestemmia, è impossibile assolvere prima che un peccato sia commesso.
Guido narra come, alla sua morte, venne a prenderlo san Francesco, ma un diavolo, attraverso un
sillogismo, dimostrò che egli era morto in peccato e quindi l’anima gli apparteneva di diritto. Portato
a Minosse, fu condannato all’ottavo cerchio. Terminato il racconto, l’anima si allontana dolente,
dibattendo la punta della fiamma. I due poeti riprendono il cammino e giungono sul ponte che
scavalca la bolgia successiva.
Si vede in queste terzine come i diavoli abbiano una coscienza morale del giusto e dello sbagliato, del
bene e del male. Il sillogismo contiene due affermazioni chiare e decise: l’assoluzione deve seguire la
colpa, chi non si pente non può essere assolto, né si può contemporaneamente desiderare il peccato e
pentirsi; il diavolo allude al principio di non-contraddizione di Aristotele (se una cosa è A non può essere
non-A).
Inferno - Canto XXXIII
Dove: nel nono cerchio, nella seconda e terza zona Antenora e Tolomea
Peccatori: i traditori della patria e degli ospiti, di chi si aspetta qualcosa
Personaggi: il conte Ugolino della Gherardesca e l’arcivescovo Ruggieri, frate Alberigo
Sollevato il capo da “fiero pasto” e pulitosi la bocca sui capelli del cranio che sta rodendo, il
dannato dichiara di essere il conte Ugolino. Narra quindi i particolari della prigionia e della morte
della sua famiglia: fu rinchiuso in una torre insieme ai quattro “figli”. Il conte fa un sogno pieno di
immagini simboliche: le persecuzioni dei ghibellini si trasformano in una battuta di caccia guidata
dall’arcivescovo, e la famiglia Ugolino si trasforma nel lupo e i lupacchiotti che scappano verso il
monte San Giuliano, che sta fra Pisa e Lucca; fuggono finché non si stancano, e Ugolino immagina
i figli che vengono lacerati dai cani da caccia. Svegliandosi