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OSSI DI SEPPIA
Non chiederci la parola… Non chiederci la parola che squadri da ogni lato il nostro
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato animo privo di forma, e che con parole indelebili lo metta in
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco mostra e lo faccia risplendere come un fiore variopinto
lo dichiari e risplenda come un croco perduto in mezzo a un prato quasi deserto.
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l'uomo che se ne va sicuro, Ah l'uomo che procede sicuro, in pace con se stesso e col
agli altri ed a se stesso amico, mondo esterno, e che non da importanza all'ombra che il
e l'ombra sua non cura che la canicola sole di mezzogiorno disegna su un muro scalcinato.
stampa sopra uno scalcinato muro! Non domandarci la formula che spalanchi miracolose
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, possibilità, bensì aspettati da noi qualche sillaba storta e
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. secca come un ramo. Solo quello oggi possiamo dirti, ciò che
Codesto solo oggi possiamo dirti, non siamo, ciò che non vogliamo.
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Metrica: tre quartine di vario metro, rime incrociate nelle prime due e alternate nelle ultime
Questo componimento del 1923, che apre la sezione dei cosiddetti Ossi Brevi, è una dichiarazione di
poetica. A nome di una generazione di nuovi artisti senza certezze positive, Montale confida al lettore di
non avere più messaggi risolutivi da offrire. C'è una nuova condizione: quella dell'animo informe,
dell'uomo dall'anima sdoppiata (l'ombra è l'altro che è in sé). La sicurezza espressiva dei poeti laureati
suona stonata come un fiore in mezzo al deserto, più adatta è una poesia secca, così come negativa è la
rappresentazione del dato naturale: una natura perduta e assente. La prima e la terza strofa si assumono
la responsabilità dell'argomentazione, lasciando a quella centrale la funzione di exemplum negativo.
La poesia è stata letta in senso politico, come rifiuto della retorica fascista, anche se l’interpretazione,
sebbene comprensibile negli anni del ventennio, non regge. Si tratta di un manifesto di poetica e non di
politica. In un intervista del ’68 dichiara di averla scritta a vent’anni, poi continua facendo riferimento agli
anni del ’21-’22, forse per depistare il lettore; i due periodi sono differenti: nel ’17-’18 c’era ancora la guerra,
mentre nel ’21-’22 Mussolini era già al potere. In ogni caso l’autore dichiara di non essersi mai posto certi
problemi sociali al tempo, ma che come tutta la sua generazione sapeva solamente ciò che non voleva:
retorica, contraffazioni, falsificazioni. Il che fa di Non chiederci la parola una poesia di rifiuto verso un’arte
poetica considerata superata. Come viene sottolineato nell'inizio della seconda strofa, e con l'esclamativo
finale, il poeta si riferisce a un personaggio esterno, dal quale sicuramente si distacca, non è chiaro se
per invidia o per disprezzo. Il messaggio viene consegnato al destinatario: è una limitazione della poesia
all'energia del "no", alla forza del rifiuto, alla conoscenza del negativo, che trova il suo culmine nell'ultimo
verso.
Meriggiare pallido e assorto…
Meriggiare pallido e assorto Trascorrere il meriggio in modo pallido e immerso nei propri pensieri presso
presso un rovente muro d'orto, la recinzione rovente di un orto, ascoltare tra i rovi e le sterpaie il verso
ascoltare tra i pruni e gli sterpi secco del merlo, e i fruscii delle serpi nell’erba.
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe del suolo o su la veccia Nelle crepe del terreno o fra la vegetazione bassa spiare le file di formiche
spiar le file di rosse formiche rosse dividersi e riunirsi al di sopra di piccoli mucchi di grano che esse
ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano ammucchiavano.
a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare Osservare fra le fronde degli alberi il movimento vitale delle onde che
lontano di scaglie di mare riflettono il sole e sembra che abbiano scaglie, mentre si sentono i vibranti
mentre si levano tremuli scricchi versi delle cicale dagli alberi spogli.
di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia E vagando nel sole che abbaglia, sentendo con tristezza com’è tutta la vita
com'è tutta la vita e il suo travaglio e la sua sofferenza, in questo camminare a fianco di una muraglia che ha in
in questo seguitare una muraglia cima dei cocci appuntiti di bottiglia.
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
Forse il componimento più antico del libro, da collocare nel 1916 come afferma l’autore nell’Intervista
Immaginaria del ’46, sottolineando l’importanza del tema paesaggistico: il paesaggio è quello ligure,
nell’ora del meriggio estivo, negli orti che danno sul mare. La percezione è assorbita da particolari
concreti e minuti: i versi degli animali, le formiche, le onde lontane, i cocci; tutti particolari che stentano a
costituirsi come un insieme, a dare un significato universale, e denunciano l’esperienza dell’isolamento che
conclude il testo. Il muro che tiene l’io al di qua non può essere superato, i cocci di bottiglia non
permettono di vincere l’isolamento e la condizione di prigionia esistenziale.
Non rifugiarti nell’ombra…
Non rifugiarti nell'ombra Non rifugiarti nell’ombra di quel folto insieme di cespugli o alberi, come
di quel folto di verzura un falchetto che cade in picchiata velocissimo durante la calura estiva.
come il falchetto che strapiomba
fulmineo nella caldura.
E' ora di lasciare il canneto
stento che pare s'addorma E’ ora di lasciare il canneto dell’infanzia rado che sembra addormentato,
e di guardare le forme e di guardare la vita che si sgretola con il caldo.
della vita che si sgretola.
Ci muoviamo in un pulviscolo
madreperlaceo che vibra, Ci muoviamo in un’aria biancastra, piena di piccole polveri e tremolante,
in un barbaglio che invischia in un riverbero di luce accecante che ci affatica e ci stanca gli occhi.
gli occhi e un poco ci sfibra.
Pure, lo senti, nel gioco d'aride onde Tuttavia lo senti, nella ripetitività inutile delle onde del mare, che
che impigra in quest'ora di disagio impigrisce in quest’ora del giorno così disagiante, non buttiamo via le
non buttiamo già in un gorgo senza fondo nostre vite prive di identità e certezze in una disperazione senza scopo.
le nostre vite randage.
Come quella chiostra di rupi
che sembra sfilaccicarsi Come i picchi montuosi escono faticosamente dalla ragnatela di nubi che
in ragnatele di nubi; li cingono; allo stesso modo i nostri animi inariditi come il paesaggio
tali i nostri animi arsi
in cui l'illusione brucia
un fuoco pieno di cenere in cui un fuoco pieno di cenere brucia l’illusione, si perdono nella serenità
si perdono nel sereno dell’unica certezza possibile: la luce.
di una certezza: la luce.
Metrica: sei quartine con prevalenza di ottonari, rime prevalentemente imperfette e una ipermetra
Risalente al ’22, è uno dei pochi componimenti della serie Ossi di Seppia nella quale è presente
un’interlocutrice; stavolta è un “tu” d’eccezione, che si rivolge alla poesia stessa, alla propria ispirazione
poetica. E’ un invito a non rimanere fissa al paesaggio convenzionale, ma essere audace e pronta a
predare gli oggetti poetici come un falco. L’ora è di nuovo il meriggio, con le sue minacce di aridità e
accecamento, definite con la parola “disagio”. La natura è popolata di animali, vegetali e paesaggi calcinati;
il canneto è ancora una volta presente, come luogo trasfigurato dalla memoria, il luogo chiuso dell’infanzia,
come il grembo materno. La poesia si conclude insolitamente con un’immagine positiva e luminosa, che
contrasta l’immagine ombrosa presentata nel primo verso: gli animi arsi e consumati dalle illusioni si ergono
come le montagne sopra alle nubi e si perdono nella luce.
Ripenso il tuo sorriso… a K. Ripenso al tuo sorriso ed è come un’acqua limpida
intravista per caso fra le pietre di un letto essiccato,
Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un'acqua limpida piccola superficie specchiante nella quale una pianta di
scorta per avventura tra le pietraie d'un greto, edera rifletta le sue infiorescenze sotto un cielo nuvoloso
esiguo specchio in cui guardi un'ellera i suoi corimbi; e silenzioso.
e su tutto l'abbraccio di un bianco cielo quieto. Questo è il mio ricordo; non saprei dire, oh tu che sei
Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano, lontano, se dal tuo viso si esprime un’anima libera e
se dal tuo volto si esprime libera un'anima ingenua, ingenua, oppure se sei un pellegrino sfinito dai mali del
vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua mondo, capace di trasformare la sofferenza in un
e recano il loro soffrire con sé come un talismano. talismano da portare sempre con sè.
Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie Solo questo posso dirti, che il tuo volto, così come lo
sommerge i crucci estrosi in un'ondata di calma, ricordo, vince i miei turbamenti con un’ondata di calma, e
e che il tuo aspetto s'insinua nella memoria grigia che la tua figura di insinua con franchezza come la cima
schietto come la cima di una giovane palma... di una giovane palma nella mia memoria ingrigita.
Un componimento del ’23 che serve come riflessione sulla memoria, che trasfigura il passato per farlo
rivivere. E’ come un filtro che trattiene i bei ricordi e li proietta nel presente per consolare. L’incontro
fuggevole con il destinatario stimola la mente: il dedicatario etichettato come K. è Boris Kniaseff, un
ballerino russo attivo in Italia in quegli anni, conosciuto a casa dell’amico Francesco Messina. Tuttavia la
dedica si presenta stranamente: il motivo non è chiaro, nessun documento attesta l’amicizia fra i due; in
un articolo del ’50 Montale lo nomina, senza però alludere ad alcuna poesia dedicatagli. Si tratta di un
uomo di paglia, un interlocutore convenzionale tanto che la poesia regge anche senza dedica. Inoltre
non è chiaro il perché dell’iniziale puntata, dato che tutte le altre dediche sono scritte per intero, ma ancor
più oscuro rimane il fatto che questa dedica sia rimasta dopo che quasi tutte le altre erano state rimosse. In
ogni caso, Montale inviò una traduzione in francese a Messina, dedicandola a B. K., poiché Kniaseff
conosceva il francese, che era la lingua di cultura all’epoca.
La poesia si apre con una scena idillica e immersa nella natura, l’im